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Descrizione: Descrizione: E_N_ROGERS_ESP_ARCHITETTURA

Autore

ERNESTO NATHAN ROGERS

 

Titolo

ESPERIENZA DELL’ARCHITETTURA

 

Editore

SKIRA

 

Luogo

GINEVRA - MILANO

 

Anno

1997

 

 

 

 

Lingua

ITALIANO

 

 

 

 

Titolo originale: Ernesto Nathan Rogers, Esperienza dell’Architettura, 1958 Einaudi

 

 

 

ARGOMENTO E TEMATICHE AFFRONTATE

 

Descrizione: Descrizione: E_N_ROGERS_ESP_ARCHITETTURA

 

Il libro raccoglie gli scritti frutto della lunga attività professionale e didattica dell’architetto Milanese Ernesto Nathan Rogers.

Le tematiche affrontate sono in gran parte legate al momento storico nel quale si compì la vita dell’autore: a cavallo della seconda guerra mondiale, in seguito alla rivoluzione culturale portata dal movimento moderno nel campo dell’arte e dell’architettura.

Affiorano perciò più volte i profondi patimenti vissuti dall’artista: l’impellente necessità della ricostruzione delle città devastate, le tragiche influenze che fascismo e nazismo ebbero sugli intellettuali dell’epoca, il problema del lascito del movimento moderno e di quale sia il significato dell’essere moderni nella sua contemporaneità.

Accanto ai numerosi momenti di commozione, sono riportate le sue riflessioni sulla necessità per un architetto di costruirsi un metodo personale, che sia da guida all’irraggiungibile meta della sintesi tra utile e bello, la quale sintesi è la sua idea di architettura.

Tocca inoltre altre tematiche legate alla questione architettonica, come il ruolo della decorazione, delle proporzioni e della prefabbricazione nella progettazione di un organismo architettonico, di quali siano i doveri delle classi dirigenti Italiane nel fornire gli strumenti economici e giuridici per portare a termine il compito, molto sentito da Rogers, di fornire una casa a ciascun uomo.

 

  

Giudizio Complessivo: 8 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Manuel Desole

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 3, A.A. 2015/2016

 

 

Descrizione: Descrizione: rogers

ERNESTO NATHAN ROGERS

 

Ernesto Nathan Rogers nasce a Trieste nel 1909 da padre inglese e madre italiana; si laurea in architettura nel 1932 al politecnico di Milano; sempre nello stesso anno fonda il celebre studio di architettura BBPR con i compagni di studi Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso e Enrico Peressutti, noti tra i più interessanti interpreti del razionalismo; l’attività teorica dell’architetto è indissolubilmente legata, sin dai primi progetti, all’attività progettuale.

Nel dopoguerra, dirige la rivista Domus per il breve periodo dal ’46 al ’47; dal 1953 al 1965 dirige Casabella, a cui legherà la propria fortuna critica internazionale.

Nel frattempo lo studio realizza i progetti per il Castello Sforzesco e la Torre Velasca, dove si ricerca la mediazione tra contesto storico e architettura moderna. Rogers insegnò in diverse università; tenne inoltre molti conferenze in tutto il mondo: diede infatti molta importanza all’attività didattica che l’accompagnò fino alla morte, nel 1969 all’età di 60 anni.

 

 

Ernesto Nathan Rogers

 

Contenuto

 

Il libro è diviso in tre parti:

 

La prima è una raccolta di saggi scritti dall’autore, divisi cronologicamente tra prima, durante e dopo la seconda guerra mondiale; vengono affrontati i rapporti di amicizia con i compagni del gruppo BBPR, il rapporto con il fascismo, il problema della casa dell’uomo, della ricostruzione, dell’insegnamento dei grandi Maestri del Movimento Moderno e del destino del loro lascito.

La seconda parte raccoglie alcuni stralci di numerosi appunti redatti da Rogers per il corso di “Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti” tenuto presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e altri scritti durante il periodo in cui insegnò all’Università di Harvard; le tematiche affrontate toccano il dramma interiore dell’architetto, la questione della durata dell’architettura, del concetto di struttura dell’architettura, e del ruolo, nel passato e nel presente, della decorazione.

La terza parte affronta il tema della tradizione nel contesto dell’arte e del progetto architettonico, il problema del rapporto con le preesistenze, dell’approccio da utilizzarsi nel confrontarsi con culture storicamente e geograficamente distanti dalla propria, e di come possano essere redatti piani urbanistici più adatti ad affrontare proficuamente tali questioni.

 

PARTI

PREFAZIONE   Il mestiere dell’architetto

 

L’introduzione al libro inizia con il ricordo dei suoi amici e colleghi dello Studio BBPR, con particolare riguardo per il prematuramente scomparso Gian Luigi Banfi, affettuosamente chiamato “Giangio”, morto nel campo di sterminio di Mauthausen; Rogers, anch’egli ebreo si sottrasse alla deportazione rifugiandosi in Svizzera. I ricordi sottolineano lo stretto legame di questo gruppo di amici (prima ancora che colleghi), delle loro debolezze di gioventù che li portarono a restare affascinati dal fascismo, visto erroneamente, spinti dal “bisogno di realizzare”, come possibilità concreta di realizzare un’architettura rivoluzionaria, come del resto accadde a molti intellettuali e artisti della loro epoca (scelta rinnegata in luce dei ben noti esiti del periodo dittatoriale).

L’autore pone quindi interrogativi e riflessioni sul “Mestiere dell’architetto” in relazione alla situazione storica del secondo dopo guerra, dei lasciti del movimento moderno, del manierismo come necessità di dialogo con la realtà esistente, delle insidie del formalismo e delle debolezze della gioventù dell’epoca che, “penalizzata dalla troppa libertà” che non è spinta ad aguzzare l’ingegno.

L’aspetto su cui insiste di più è quello della necessità di un metodo, quale guida effimera attraverso la quale cercare di esaltare le strutture logiche specifiche di ogni evento: l’architettura è ciò che concretizza tali relazioni, contenendo pertanto implicitamente, in potenza, degli impulsi positivi per la vita sociale e morale. Fuori dall’impostazione metodologica rimangono, secondo Rogers, solo il dogmatismo o l’estetica edonistica.

 

PARTE 1   Testimonianze, interventi polemici e critici

Prima della Seconda Guerra Mondiale

 

 

I.                 Presentazione ai progetti di laurea di BBPR, luglio 1932   Nel breve scritto consegnato insieme ai progetti di laurea, il gruppo BBPR esprime come essere moderni e razionali equivalga rispettivamente ad esistere e ad essere logici, ovvero come questi siano i requisiti minimi, necessari ma non sufficienti, a fare di un uomo un architetto; è un invito ad abbandonare le esperienze romantiche (quindi soggettive) e ad organizzare le parole dei singoli in un linguaggio vivo e comune.

 

II.               Un architetto di quasi trent’anni “Il destino di un architetto, […] è quello della sua generazione. […] Il denominatore comune è l’età.”;

Rogers descrive la genesi della sua generazione come sintesi di una antinomia: da una parte è il passato, dall’altra il futuro; coscienti dei essere nati moderni, il problema è definire tale modernità: che gli stili architettonici siano morti è ora un dato di fatto, e, morto il culturalismo è nata la tradizione, ovvero l’energia residua del lavoro di coloro che sono morti. E’ un atto morale di chi viene dopo capire l’energia - l’essenza - degli elementi dell’architettura: la stretta coerenza che lega le forme con la necessità che le ha generate.

 

III.              Conto corrente dell’architettura funzionale In questo breve scritto, in risposta all’atteggiamento polemico di Piacentini nei confronti dell’architettura funzionale, l’autore evidenzia come non sia corretto trarre conclusioni su quest’ultima basandosi su una critica “nominalistica”, ovvero prendendo come pretesto le manchevolezze tecniche, frutto dell’immaturità dell’esperienza pratica, per giudicarne tutto l’insieme (compresi quindi i principi); la soluzione non è “tornare all’antico” bensì, data la genuinità dell’essenza, inventare i mezzi adeguati a realizzare più armonicamente tale impegno.

 

Durante la Seconda Guerra Mondiale

 

 

IV.             Confessioni di un Anonimo del XX secolo Rogers scrive questi saggi in forma anonima in quanto la polizia fascista, in seguito alle critiche a Piacentini, lo costrinse a tacere. Vennero pubblicati dall’amico, e allora direttore di Casabella, Giuseppe Pagano. Dei nove che poté scrivere prima di essere scoperto, riporta il primo e l’ultimo:

 

1.   Presentazione dell’anonimo   L’autore descrive la condizione degli anonimi, coloro che non segnano la propria opera con un nome (come il “pittore delle penne”, un tale che collaborò con Giotto, dipingendo con la sua cifra inconfondibile le ali degli angeli sulle volte francescane d’Assisi), che - “come il fiume sopra i ciottoli” - forgiano uno stile giorno dopo giorno: essi sono chiamati ad aiutarsi a vivere, a superare l’egoismo e le proprie fisime, al fine di creare qualcosa da lasciare ai posteri. Sottolinea la responsabilità che si ha quando si possiede un nome, ma evidenzia altresì quanto sia notevole l’incisività, e quindi l’onere, di chi non lo possiede.

 

2.   La casa dell’anonimo   L’anonimo (ovvero Rogers) espone il problema “angoscioso” della casa dell’uomo: come le formiche riescono a disporre di una cella per ciascun piccolo, auspica che l’Homo Sapiens impari a costruire una dimora adatta a sé al termine della guerra (che, al momento in cui scrive, è in corso).

Descrive quindi con dei paragoni come questa debba essere salubre - “le pareti siano limiti al mondo esterno, […] occhi con palpebre e ciglia […] pori che l’universo respirino e gli umori nocivi trasudino” -  dovendo quindi l’essere umano rifuggire le case insalubri e polverose nelle quali la gran parte dell’umanità ha vissuto prima che queste rovinassero al suolo.

L’abitazione dell’uomo deve essere un punto fisso nello spazio dove riferire i propri viaggi, un luogo che permetta di vivere in armonia con i propri simili e allo stesso tempo protegga la propria intimità così come il grembo di una madre.

 

V.               Architetto in me Scritto durante il periodo d’internamento in Svizzera, il brano racchiude il desiderio di Rogers affinché si collabori per dare rifugio agli altri uomini: questo è un dovere per gli architetti; anche lui infatti ha vissuto la disperazione della distruzione causata dalla guerra: “ho visto la mia casa in fiamme; tutta la città era un coro di fuoco […]”.

L’autore spera che tale sofferenza possa tramutarsi nella forza necessaria a costruire la “città dell’uomo”, che nulla ha di utopico: è l’unione pacifica della necessità di protezione di ogni singolo uomo.

 

VI.             Problemi di una Scuola d’Architettura Ricordando i suoi primi anni al Politecnico di Milano, Rogers evidenzia i due principali errori delle scuole d’architettura dell’epoca: agnosticismo e accademismo; il primo, che egli associa alla “Scuola di Milano”, porta a una mancanza di coralità tra i singoli corsi, validi nella loro individualità ma inefficaci nel preparare gli architetti ad affrontare i problemi della società nella quale si ritroveranno; il secondo, ben peggiore, alla sola genesi di preconcetti camuffati da opinioni, così come avveniva nella “Scuola di Roma”.

Evidenzia altresì come sia confusa la linea di demarcazione tra architettura e ingegneria: ritiene che la professione dell’architetto sia il coordinamento delle diverse discipline (la tecnica, l’economica, la sociale), creando la sintesi tra il mondo dell’utile e quello della bellezza; la dicotomia tra scuole d’Ingegneria e accademie di Belle Arti portò infatti l’architettura in una profonda crisi, riducendo la pratica architettonica, in modo reciprocamente esclusivo, alle sole questioni di calcolo o disegno.

La soluzione, secondo Rogers, non è istruire figure ibride “ingegnere-architetto”, inevitabilmente limitate nelle conoscenze dell’uno o dell’altro campo, ma favorire la collaborazione tra figure adeguatamente preparate nei rispettivi ambiti che abbiano conoscenza e sensibilità della reciproca disciplina; a tale scopo sarebbe utile, nelle scuole d’architettura, che ogni studente potesse scegliere, tra una vasta gamma di corsi, quelli più confacenti al proprio temperamento, ovvero creando un’analogia tra il professore e la figura del Maestro artigiano che nella propria bottega trasmette il suo metodo, rendendo possibile tramite quest’ultimo (perciò non come diretta conseguenza)  la creazione di nuova arte. Inoltre, secondo l’autore, si dovrebbe poter imparare a “fare”, organizzando esercitazioni pratiche in cui possa avvenire un contatto materiale con i mestieri che concorrono alla costruzione dell’architettura.

 

VII.            Problemi di metodo (la prefabbricazione) Rogers affronta la questione dell’industrializzazione dell’edilizia, sottolineando come questa sia rimasta in gran parte fuori dal ciclo di progresso tecnico e sociale dovuto allo sviluppo dell’industria.

Le ragioni di tale ritardo sarebbero da ricercarsi nella ripugnanza a voler approfittare dei nuovi mezzi per motivi di sentimento, non per la difficoltà di metterli in atto; il problema non è quindi la realizzabilità tecnica di una casa industrializzata, ma è una questione di contenuto: manca la sua definizione. Tale è di difficile formulazione: se infatti “ogni uomo deve possedere la sua casa”, questa bisogna si adatti ad esso e contemporaneamente tener conto delle necessità della collettività della quale fa parte; è necessario pertanto definire gli elementi che devono soddisfare l’uomo in quanto persona e separarli da quelli considerabili denominatore comune del genere umano.

Tra le due guerre fu definita la “casa minimum”: durante il congresso di Francoforte del CIAM del 1929, si analizzarono i bisogni minimi dell’uomo con lo scopo di raggiungere il loro massimo soddisfacimento compatibilmente con i dati economici; l’analisi dei differenti modi di vivere portò a definire i tipi e le categorie che li riassumono: le esigenze sociali, armonizzate all’interno di un quadro urbanistico vengono così a determinare organismi architettonici vitali (case per una o più famiglie, isolate o a schiera, a uno o a più piani, ecc. ).

Fino a quel punto non si erano sfruttati i vantaggi che può offrire l’uniformità ma se ne erano solo subiti i difetti: solo alcune parti degli edifici vengono realizzate fuori opera, le altre vengono lasciate all’estro degli operai preposti alle varie opere (adduzioni, derivazioni dell’impianto elettrico, finiture, ecc.). Il sistema di costruire risulta concepito perciò in modo incoerente. Per approfittare della prefabbricazione sarebbe opportuno dapprima conoscere il giusto rapporto tra aspetti individuali e collettivi di cui una casa deve essere costituita: un nucleo, che funziona come una macchina ed è identificabile con l’insieme dei servizi, deve, potendosi adattare a tutti i modelli di abitazione, costituirne l’elemento costante; l’altro nucleo deve essere adatto ad interpretare, potendo comporre di volta in volta i suoi elementi costitutivi, la libertà dell’utente. Bisogna quindi definire dei moduli per mezzo dei quali fissare la dimensione dei principali elementi costitutivi, in modo da facilitarne la composizione secondo le combinazioni che risultano necessarie.

L’industrial design dell’edilizia non può quindi essere una composizione risolta ma una parte che possa essere composta liberamente. La capacità dell’industrial designer deve perciò essere quella di riuscire a dominare il sistema e di evitare di cadere schiavi delle proprie regole; il suo compito è quello di creare una “sana semente” che è prerogativa per compiere adeguatamente il “miracolo della moltiplicazione”: il rischio è infatti quello di moltiplicare gli errori, condannando molti a vivere in uno spazio inadatto, all’infelicità.

 

Casella di testo: Enrico Peressutti
Casa ideale (1942)

 

 

 

Dopo la Seconda Guerra Mondiale

 

 

VIII.          Per Gian Luigi Banfi Questo pezzo è scritto in forma di una lettera al defunto amico e collega Gian Luigi Banfi. Racconta con tono commosso dell’amicizia che legava tutti e quattro i “Bibipierre” (nome di cui andavano orgogliosissimi e nel quale erano felici di venire confusi e scambiati); di quando si conobbero, al ginnasio; del crescere progressivo del loro legame al Liceo e dell’incontro con Beljoioso e Peresutti durante l’università, sfociato infine nella collaborazione lavorativa; delle lotte per l’ideale della loro architettura.

Rogers lo ringrazia, infine, per la fede che ha lasciato accanto a quella di loro tre, che dà loro la forza necessaria a continuare.

 

IX.              Catarsi In questo brano l’autore parla dell’amico e collega Giuseppe Pagano, focalizzandosi in particolare su quello che fu il suo rapporto con il regime fascista.

Racconta come molti architetti e intellettuali aderirono al fascismo: chi non aderì quantomeno vi collaborò e la ragione, non la giustificazione, sarebbe da ricercarsi nell’intimo bisogno di un artista di far aderire le proprie idee alla realtà delle tre dimensioni. Il fascismo era visto come una rivoluzione che potesse di conseguenza adottare la propria arte rivoluzionaria. Tutti, chi prima e chi poi, si accorsero che il fascismo non era rivoluzione, ma reazione, e finirono con il discostarsi, con esiti più o meno tragici, dal regime.

Pagano è descritto come “domenicano battagliero”, un uomo “vitale e focoso”, un idealista che lo avvicinava ai ragazzi più giovani (come Rogers) piuttosto che ai suoi coetanei: la generazione d’appartenenza assieme a tali tratti del suo carattere fecero sì che fosse persuaso dal regime. Dall’interno si schierò contro quelli che furono gli architetti della vecchia generazione che si asservirono regime: gli Ojetti, i Soffici, i Sommi-Picenardi e Piacentini; si sente infatti offeso dagli sprechi, dall’insolenza e dall’adulazione di questi.

Il falso ottimismo lanciato dall’approvazione dei progetti di Sabaudia e della stazione centrale di Firenze, svanì presto con il mostrarsi sempre più chiaro delle mire imperialistiche, autarchiche e razziste del regime. Parte volontario allo scoppio della guerra “per desiderio di coerenza”, disposto a correre il rischio della guerra per conservare la sua indipendenza di uomo e di artista: per la sua indole attivista non sopportava l’idea di restare impassibile; era sì convinto che la causa era sbagliata, ma sperava di sopravvivere per una causa più giusta, ovvero la sua integrità.

Le volte che tornò a Milano ebbe però alcuni contatti con alcune cellule clandestine; queste riuscirono a persuaderlo che la vera Rivoluzione era dall’altra parte: l’unico modo per conquistare le proprie idee e sé stesso era preparando la sconfitta dei fascisti. Da allora in Pagano il sentimento antifascista cresce sempre di più, fino culminare in un articolo sulla rivista Casabella, da lui diretta, nel quale ribadisce la critica all’immoralità dell’architettura di lusso, all’accademismo, alla retorica convenzionale, dicendosi pronto a “pagar di persona” pur di obbedire alla voce della propria coscienza, così come fecero gli uomini del Risorgimento.

In seguito l’architetto fu catturato due volte e, infine, deportato in un campo di concentramento in cui si concluse tragicamente la sua esistenza, così come quella di molti altri come lui.

 

X.               Una casa a ciascuno La genesi dei problemi della casa coincide con quella, più chiara e urgente, dei problemi sociali. E’ da poco tempo che la povertà è considerata come un male da cui liberarsi, e ugualmente poco tempo che si sa cosa una casa debba essere. L’autore si interroga quindi sui motivi che hanno spinto l’umanità a trascurare la propria dimora, sul quasi stravagante altruismo che ha spinto i popoli a fare per secoli le spese e le dimore per dei, tiranni, morti, senza mai pensare a sé.

Quando avvenne l’eccezionale accrescimento delle città, dovuto allo sviluppo delle industrie, poco a poco nacquero le case della nuova affermata classe borghese, che si perfezionarono e servirono successivamente da modello per le case popolari; queste cominciarono a diffondersi in maniera massiva dopo la prima guerra mondiale, alle periferie delle città. Viene riportato l’esempio della Siedlung di Francoforte: case minime, misurate al centimetro e al centesimo per sopperire all’enorme produzione.

Con la posizione del problema della “casa minima” scienze apparentemente distanti come la chimica, la fisiologia, la psicologia, la fisica si aiutarono a vicenda per sviscerarne ogni aspetto; l’urbanistica andava affermandosi, stabilendo le relazioni tra un’abitazione e l’altra nel complesso cittadino: l’elemento sociale diventò quasi dominante nella questione architettonica.

 Secondo l’autore si pone quindi il dilemma: gli architetti devono limitarsi a interpretare la società qual è o plasmarla con le loro idee? Qual è il limite con cui si deve tener conto dei desideri della gente, dei clienti? Gli architetti moderni hanno la fama di essere despoti presuntuosi, ma Rogers preferisce che essi vengano considerati quali profeti.

Conclude infine affermando la necessità di concretizzare ora i risultati di tante ricerche fornendo una casa a ciascun individuo: tale questione deve essere al centro della politica e tutti debbono occuparsene.

 

XI.              La ricostruzione Rogers invita a riflettere sulle possibili conseguenze dell’urgenza della ricostruzione: bisogna agire con consapevolezza affinché, analogamente a come un’ingessatura mal eseguita pregiudica l’arto per la vita intera, si possa evitare che essa pregiudichi la costruzione permanente; è quindi opportuno che le ricostruzioni di pronto soccorso siano provvisorie: realizzate perciò in un’economia ristretta al punto tale da garantirne l’esistenza tecnica e null’altro che sia superfluo; queste devono inoltre essere limitate al minor numero di casi possibili.

Presupposto per annoverarsi tra i popoli civili è, per l’autore, ricostruire per i lavoratori, ma non prima di avere chiare le loro necessità: a tal proposito critica la priorità che ai tempi fu data alla ricostruzione del teatro alla Scala quale atto privo di ragionevolezza e senso sociale. Spera quindi che l’iniziativa privata possa farsi avanti nel settore dell’edilizia, purché ponga in primo piano l’interesse della collettività e indica, quale strumento per ridurre i prezzi della produzione, l’industrializzazione dell’architettura. Le leggi sulla demanializzazione, quelle che favoriscono un afflusso di capitali nel settore edilizio, così come l’associazione dei lavoratori in cooperative, appaiono in tale situazione come un buon presagio per il divenire.

E’ tuttavia necessario stabilire l’ordine di precedenza delle opere della ricostruzione, chiarire un fine prima ancora che i mezzi necessari a realizzare tale fine: è necessario un piano nazionale che investa tutti i temi della ricostruzione, che stabilisca, almeno per le opere di interesse pubblico, una netta gerarchia tra il necessario e il superfluo.

 

XII.            Programma: Domus, la casa dell’uomo L’autore sottolinea come, essendo la casa, come tutti i problemi dell’esistenza, un problema di limiti, ed essendo la definizione di tali limiti un problema di cultura, anche le parole possano essere considerate materiale da costruzione, così come può aspirare ad esserlo una rivista.

Nessun problema è infatti risolto se non risponde all’utilità, alla morale e all’estetica nello stesso tempo: così la vergogna e il senso di colpa provato per aver assistito a un concerto mentre l’Europa versa in condizioni disastrose, diminuisce nella consapevolezza che la verità è in realtà proprio nel baricentro tra ascetismo, estetismo e materialismo: nel funzionalismo.

Non giustifica quindi l’arte come strumento per appagare il proprio mondo egoistico, ma allo stesso tempo fa notare come sarebbe sbagliato negare che l’armonia e l’estetica siano fondamentali nella definizione di una casa che assomigli a sé stessi e alla propria umanità.

 

XIII.          Lo Stato dell’Arte (Lettera aperta al Presidente della Repubblica Italiana) Rogers scrive questa lettera prima dell’elezione di Enrico De Nicola, quindi senza ancora sapere chi sarebbe stato il destinatario della lettera.

Rivolgendosi al Presidente, si augura che possa, pur nelle difficoltà del momento storico, tener conto dell’arte come aspetto fondamentale della società della Repubblica. Scrive di Stato dell’arte in contrapposizione all’ arte di stato (richiamando l’ingenuità della sua generazione che si “donò” al fascismo): vorrebbe che questo fosse la meta ideale di una perfezione collettiva cui non solo gli intellettuali, ma il popolo intero, possa aspirare.

L’arte è la forma sensibile del mondo morale e il Presidente non può disinteressarsene: deve tentare di conciliare le esigenze spirituali, d’ogni tipo, con tutte le esigenze pratiche. A tal proposito, suggerisce che il Piano nazionale della ricostruzione si fondi su basi di giustizia sociale, che si dia priorità alle opere che tornano a vantaggio della collettività; inoltre, nessuna opera, secondo l’autore, può considerarsi valida, nemmeno socialmente se, pur rispondendo all’utilità pratica non soddisfi allo stesso modo alle esigenze della bellezza.

 

XIV.          Elogio della tendenza In questo brano l’autore definisce tre termini: Coerenza, ovvero la qualità necessaria all’artista per stabilire i propri rapporti con il mondo morale sopra un piano armonico sicché ogni suo atto prenda quota da quello; tendenza, ossia la deliberata traduzione di tali atti entro un definito solco intellettuale; stile, l’espressione formale della coerenza e della tendenza.

Sono questi, per Rogers, i tre momenti del processo storico nel quale si determina il fenomeno artistico. La tendenza è quindi l’assunzione della responsabilità di indicare e aprire orizzonti in apparenza poco significativi, evitando di fermarsi a ciò che in prima istanza appare migliore ma in realtà è solo un’ingannevole illusione; è il compito di scorgere anche in un’opera immatura o mediocre la sua potenzialità di aprire orizzonti prosperosi e di ignorare quelle, anche fossero perfette, che, rivolgendosi al passato, sono di conseguenza sterili.

La tendenza è un atto di modestia in grado di inserire l’attività del singolo nella cultura della sua epoca, portandolo a considerarsi elemento della società, la quale, con le opere di ognuno, crea la storia e la rappresentazione di questa negli stili.

 

XV.            Saluto Rogers scrive questo articolo sulla rivista Domus nel dicembre del 1947, al termine del breve periodo, dal gennaio del 1946, in cui ne fu direttore.

Racconta come il programma fu quello di esprimere una voce il più possibile chiara, sia che si stesse facendo eco a parole incerte, sia che si stessero difendendo posizioni più estreme: voleva che la rivista diventasse un’opera di mediazione tra il pubblico e le avanguardie, facendo note sia le ricerche degli artisti italiani che quelle che si delineavano al di fuori dei confini.

Scrive che un’altra delle intenzioni fu quella di porre i problemi specifici dell’architettura nella comune luce dei problemi culturali moderni, sviluppando quindi lo stesso tema nelle diverse variazioni (dalla poesia alla scultura, passando per tutti i settori dell’arte); perciò quando la rivista veniva definita umanista, erano orgogliosi: significava per loro essere armonizzati con il più vasto respiro umano e, giocoforza, dovevano anche essere legati alle questioni morali e politiche. Purché il costo precludeva tale rivista a gente più o meno privilegiata, si rifiutò di credere che per tutta quella gente fossero condizioni necessarie il compromesso, l’adulazione o la menzogna.

Rogers conclude ricordando quanto nelle loro intenzioni, dell’arte (e dell’architettura) sarebbe folle anche solo l’idea di intravedere una vetta da raggiungere: è tutto in divenire; si ha quindi piacere quando, durante la salita, si riesca a scorgere qualcuno più avanti a confermare la bontà del sentiero che si sta percorrendo.

 

XVI.          Continuità E’ il primo articolo scritto sulla rivista Casabella – continuità; Rogers ne ha infatti assunto la direzione nel 1953.

La parola continuità da lui aggiunta al titolo della rivista (che prima della guerra era stata guidata da Giuseppe Pagano ed Edoardo Persico ed era denominata unicamente Casabella) indicherebbe il divenire senza soluzione di continuità del ciclo uomo – architettura – uomo: l’intenzione è quella di rappresentarne lo svolgimento, quindi le crisi, le poche certezze e gli indispensabili dubbi. Una continuità di metodo nella ricerca spregiudicata di opere cariche di nuovi ardimenti, intuizioni, desideri e speranze, nel rifiuto di qualsiasi formalismo, evitando al contempo di cadere tanto nell’idolatria quanto nell’iconoclastia.

L’obiettivo è promuovere un linguaggio chiaro e internazionale con cui tutti possano intendersi, con il quale i produttori dell’architettura (artisti, industriali, artigiani) e i suoi consumatori possano dare sostanza a tale programma, riconducendo il mestiere e l’arte alla sintesi originale: la tékne; questo affinché si possa far sì che la qualità diventi progressivamente quantità e non il viceversa.

 

XVII.        Politica e architettura Questo articolo è a commento al documento del Comitato Centrale del Pcus e del consiglio dei ministri dell’Urss, il cui titolo è Sull’eliminazione del superfluo nei progetti e nelle costruzioni.

Tale documento è costituito da due parti: la prima è un’autocritica al passato, una diagnosi degli errori commessi nelle architetture realizzate sotto il regime di Stalin; la seconda è invece un’indicazione per i rimedi futuri.

Rogers reputa interessante e meritevole di qualche lode la prima parte, in cui correttamente si denuncia il superfluo nell’architettura, condannando la superficiale affezione avuta dai progettisti per l’aspetto esteriore delle costruzioni a discapito di comodità ed economia; tuttavia questa stessa manca di chiarire come l’errore non stia nell’inclusione dell’arte nel progetto d’architettura, ma nell’includerla come sua sovrastruttura e non come aspetto duale della sua utilità. Un altro punto di debolezza, secondo l’autore, è quello di fare una distinzione tra costruzioni architettoniche e costruzioni edilizie: ci sarebbero quindi edifici degni di essere considerati architettura, come i palazzi, e altri, come fabbriche e costruzioni rurali, da considerarsi come semplice edilizia; questa discriminazione tra il nobile e il vile è ritenuta banale e pericolosa.

Sebbene egli sia d’accordo nel ritenere che la bellezza di un’architettura non possa corrispondere alla traduzione in forma di un ideale estetico, ritiene altrettanto assurdo che si risolva la bellezza nel puro ordine delle soluzioni tecniche: non definendo criticamente cosa si intenda per superfluo questi dettami lasciano via libera a chi crede che l’architettura possa essere risolta ignorandone in blocco le questioni inerenti l’estetica. Secondo Rogers si gettano inoltre le pericolose premesse alla creazione di un “catalogo dell’edilizia bell’è fatta”, come già avvenne in Francia, dove gli aspetti potenzialmente positivi che deriverebbero da una produzione standardizzata ma flessibile, rischiano di essere ridotti alla realizzazione di edifici monotoni, con il rischio di crearne molteplici tutti medesimamente difettati (i pochi esempi precedenti della prefabbricazione sovietica non sembrano a tal proposito un buon presagio).

In definitiva, l’imposizione di tali limiti e l’incapacità di chiarire gli errori del passato limitandosi a denunciarli, rischia solo d’imbrigliare la libertà degli architetti, rendendogli più difficoltoso il compito di realizzare una sintesi consapevole della situazione storica e culturale nella quale saranno chiamati a configurare i loro progetti, dove sia l’estetica, la funzionalità e l’economia devono necessariamente confluire e influenzarsi reciprocamente.

 

XVIII.       Situazione dell’arte concreta Rogers in questo saggio descrive quello che, secondo i suoi ragionamenti, sono la genesi e il significato dell’arte concreta.

Questa deriverebbe dalla acquisita dignità di arte individuale dell’ornato; non più serva o tiranno delle arti applicate (quale è anche l’architettura), ma, sciolta da vincoli, libera espressione della fantasia: del mondo plastico, di cui essa è forza permanente e del quale può ora esprimere le peculiari leggi trasponendole sulla materia, nelle tre dimensioni. Dal suo punto di vista, non si tratta quindi di un’esplosione effimera, ma dello sviluppo di un seme da sempre presente, ma celato, nel mondo dell’arte.

Nella scultura e nella pittura possono così essere concentrate tutte le energie della libertà plastica, nell’architettura quelle necessarie a servire la vita quotidiana dell’uomo: vi può essere un contatto tra queste e l’architettura, ma è indispensabile che vi vengano accostate e non mescolate, così da preservarne l’individualità, che è requisito necessario affinché ciascuna possa rispondere ai propri fini specifici.

L’architettura moderna è riuscita a sostituirsi, grazie al suo potenziale estetico, tecnico e sociale, alle antiche forme; l’autore si interroga su cosa resti quindi della pittura e della scultura non concreta del suo tempo: secondo Rogers, una buona parte di questa, non avendo l’ambizione di raggiungere la vera concretezza nel campo più libero e spregiudicato del mondo plastico, limitandosi ad esprimere la timidezza del mondo piccolo-borghese, basando le sue creazioni per lo più su figurazioni di oggetti naturali (considerandoli solo quale pretesto di forma e colore), è destinata a perdere d’interesse ogni giorno.

L’arte infatti ha, e deve avere, un compito morale a cui adempiere, e può farlo soltanto se libera, non imbrigliata nel dover essere il megafono di volgari propagande: l’arte concreta è il risultato dell’espressione cosciente dell’ideale di bellezza e armonia a cui gli uomini hanno diritto di aspirare.

 

Casella di testo: Max Bill
Disegno (1947)

 

 

XIX.          Architettura e fotografia (Nota in memoria di Werner Bischof) In questa breve nota l’autore ricorda il defunto amico Werner Bischof, fotografo da lui molto stimato.

La fotografia, secondo Rogers, fissando le apparenze su un supporto bidimensionale è necessariamente impossibilitata ad esprimere la realtà dell’architettura, della quale la dimensione del tempo e la continuità della percezione spaziale sono prerogative per poterne avere esperienza diretta.

Al di là di questi aspetti fondamentalmente inconciliabili, ritiene tuttavia che la fotografia possa allargare le qualità percettive in settori che altrimenti non sarebbero percettibili: ciò non è tuttavia scontato e solo pochi artisti ne sarebbero capaci. Bishof ne è esempio positivo: avendo intuito come la storia si precisi nell’architettura e come quest’ultima nella storia viva, partecipando quindi al dramma dell’esistenza, riesce a rilevare, attraverso i particolari, il significato delle cose; non si limita perciò a creare un album di immagini, ma uno che documenta la storia degli uomini.

 

XX.            Polemica per una polemica Il brano commenta la discussione in atto ai tempi di Rogers per il progetto del Masieri Memorial, la casa che l’architetto veneziano Angelo Masieri, poco prima della morte, commissionò a Frank Lloyd Wright.

Questo progetto accese negli anni cinquanta un dibattito, a parere dell’autore, sovradimensionato: per quanto reputi significativa la questione, così come tutte quelle che riguardano la cultura, si stupisce del tanto clamore scaturito dalla vicenda, considerata inoltre la quantità di questioni più urgenti di cui si sarebbe potuto dibattere.

In merito al progetto di Wright, Rogers non si dice entusiasta, considerandolo, con il rispetto che si deve al grande maestro, ancora (ma giustamente, visto lo stato primordiale) incompleto e provvisorio.

Tuttavia ritiene sia stupido accusarlo di modernità eccessiva: il valore della città di Venezia, secondo l’autore, non è quello di essere un museo di edifici, essendo la sua “miracolosa atmosfera” generata dalla rete di rapporti che ogni oggetto e ogni costruzione scambia con ogni altro (dai palazzi gotici a quelli cinquecenteschi).

Il rifiuto del progetto sarebbe quindi dettato dall’infondata paura che questo possa essere costituire un pericolo, aprendo la strada al sorgere di altri edifici che cambierebbero l’immagine della città che si vorrebbe immutabile; ma, secondo Rogers, è irrazionale che (per quanto sia concreto il pericolo che in seguito possano sorgere edifici davvero “balordi”) al fine non creare un precedente, si rinunci a un potenziale capolavoro.

L’inadempienza al regolamento edilizio, motivo del rigetto, è secondo lui una giustificazione insufficiente, in quanto basterebbe, invertendo il processo, prima accettare il progetto e dopo richiederne eventuali adeguamenti. In fondo, conclude, dubitare del decoro di un edificio di un progettista come Frank Lloyd Wright, che più volte ha dato prova della sua validità attraverso le proprie opere, richiede argomentazioni ben più solide di chi si impegni a difenderlo.

 

Casella di testo: Frank Lloyd Wright
Progetto del Masieri Memorial
Venezia (1954)

Descrizione: Descrizione: Masieri memo

 

 

XXI.          Problematica di Mies van der Rohe Partendo dalla contrapposizione tra razionale e organico, l’autore suggerisce come, in realtà, il fenomeno architettonico si manifesti all’interno del rapporto dialettico che esiste tra questi opposti poli: la posizione di Mies van der Rohe ne è un chiaro esempio.

L’aspirazione all’oggettività dell’architetto tedesco finisce infatti per essere delle più soggettive: tale impulso all’essere obiettivo in ogni azione parte infatti dal suo intimo, dalla tensione che tale meta irraggiungibile ha acquisito nel suo spirito; perciò, anche quando egli si illude di “applicare delle formule”, non si sottrae dal mediarle attraverso il suo atto creativo. Rogers richiama l’aforisma “less is more” quale sintesi inequivocabile della personalità di Mies, quanto in campo artistico, quanto in campo morale: il valore non dipende dalla quantità, dei gesti ma dalla loro precisione e qualità; dal peso specifico e non dal volume.

Questo concetto di semplicità è maturato di opera in opera: da quelle giovanili, in cui questo era nelle premesse formali, fino a diventare, nelle opere della maturità, la traduzione di contenuti etici e sociali, oltre che di quelli tecnologici che rimangono fondamentali nel suo linguaggio. La massima esaltazione di tale semplicità si ritrova nel padiglione tedesco dell’esposizione di Barcellona del 1929, dove verità e bellezza si identificano in tale principio di estrema perfezione.

Quando Mies emigrò nel 1938 in America poté trovare i mezzi pratici per realizzare la sua agognata aspirazione, essendosi lì sviluppato, maggiormente che in Europa, il processo industriale. Secondo Rogers, pur non essendo valido lo sforzo di Mies di stabilire un trattato (in quanto ogni categorizzazione dell’esperienza deve essere rifiutata da un artista), questo è tuttavia testimonianza della sua coerenza morale, che si può ritrovare in ogni sua opera.

Il progetto per la Convention Hall (che ai tempi in cui l’autore scrive si pensava potesse essere realizzato), pur nel rigore dell’impostazione formale e dei mezzi tecnici, rappresenta secondo la sua opinione il momento più lirico e personale del Maestro.

 

XXII.         Il metodo di Le Corbusier e la forma della Chapelle de Ronchamp   Rogers racconta l’esperienza avuta alla prima visita alla cappella di Ronchamp.

Dall’impatto che ne ha avuto stando ai piedi del colle, come di una massa piccola e bianca, molto più contenuta di quanto ci si potrebbe aspettare, a quello che ha avuto arrivato in sommità, trovandosi sullo spigolo, dove si manifesta il primo momento di forte tensione: si è infatti attratti da due poli spaziali opposti. Prosegue descrivendo l’esterno, parete per parete; sottolinea le caratteristiche architettoniche e le sensazioni che egli ha provato, in particolare la tensione data dalla curvatura delle superfici e dallo spessore dell’intonaco, nonché del rumore dello scroscio provocato da un improvviso acquazzone confluendo nell’unico grande displuvio della copertura.

Non manca però di far notare alcuni momenti in cui la composizione a suo parere cala di tono, come all’angolo del tetto tra la parete nord e quella ad est, che ritiene troppo netto e poco assimilabile con il resto della composizione, e il pilastro che regge la copertura ad est, che, seppur coperto con una parete dall’andamento plastico, risulta comunque apparire come un supporto imbarazzante che si è tentato di camuffare.

Passa quindi all’interno della struttura, dove descrive il variare dello spessore dei muri, la calcolata disposizione delle aperture, il taglio di luce sotto al tetto che sembra farlo galleggiare. La cappella di Ronchamp è secondo l’impressione di Rogers una rappresentazione riassuntiva del panorama circostante, la cui conferma si trova anche nelle intenzioni di Le Corbusier: “… la perception d’une invention de nature acoustique dans le domaine des formes”; è quindi come se fosse stata scolpita dall’eco musicale della natura circostante, che, infrantosi sulle pareti le ha modellate; non si tratta quindi di un processo imitativo ma di un rapporto biunivoco con le cose circostanti.

Dopo la descrizione, Rogers analizza come tale opera in apparenza così complessa e diversa dalle precedenti di Le Corbusier, si inserisca perfettamente nel percorso di tale architetto; conclude a tal proposito che, seppure si riscontrino tutte le influenze dei suoi viaggi nel Mediterraneo e nell’estremo oriente, il filo comune è proprio quello della capacità di acclimatarsi al luogo, del metodo con cui scioglie i nodi del progetto.

Lo paragona a Picasso per quando riguarda la grande influenza della cultura nel voler rinnovare continuamente la propria produzione: la grandezza di Le Corbusier è proprio nella sua profonda storicità, nel saper tradurre in linguaggio attuale i contenuti drammatici della propria epoca senza cadere nel vago o nell’estetismo. Questo implica anche saper scegliere le forme, i materiali e i metodi costruttivi più adatti ad affrontare il tema progettuale, avendo coscienza che la conoscenza di nuove tecniche non implica il rifiuto aprioristico delle altre: per questa sua sensibilità è infatti capace di rinunciare, al fine di intendere la realtà nelle sue esigenze, al fascino di qualsiasi slogan, anche dei propri.

 

XXIII.       L’insegnamento di Gropius (Nel settantesimo compleanno)   Rogers identifica tre tipi di Maestri: un primo è costituito da quelli che disegnano e realizzano le proprie opere senza commenti di discorsi o scritti, che suscitano l’entusiasmo solo attraverso le loro costruzioni; un secondo è di coloro che vi aggiungono l’attività suasiva delle parole, al fine di mostrarne i recessi psicologici, i motivi della loro personale poetica; infine un terzo è di coloro che riescono, al di là delle proprie architetture, a costruire un’estetica in grado di proiettare le proprie esperienze soggettive in un sistema universale.

Tra questi ultimi, secondo l’autore, è Gropius. Lui è la coscienza del Movimento Moderno, grazie al suo rigore logico in grado di analizzare e riassumere la problematica dell’architettura. Nella storia di questo architetto è impossibile separare un momento teorico da uno creativo o da uno pedagogico: tutte le sue creazioni e i suoi interventi sono sempre un insieme di questi tre momenti in lui inscindibili. Il suo obiettivo non era, come spesso viene frainteso, quello di ridurre l’arte a strumento pratico, ma quello di imprimere finanche nei più modesti oggetti d’uso comune l’impronta dell’immaginazione e dell’intelligenza; è il suo ideale di artefice e insegnante.

Tale era anche l’ideale di Henry van de Velde che a inizio secolo sottolineava come chi non fosse capace di riconoscere le piccole verità non potrebbe essere in grado di riconoscere quelle sublimi, così come chi non  fosse capace di interrogarsi sulla forma, sull’essenza delle piccole cose, come tavoli e sedie, non potrebbe essere in grado di interrogarsi sulla ragione d’essere delle cose d’importanza capitale; questo pensiero è il vero precursore di tutto il movimento culturale che da queste due personalità discende.

Rogers ricorda quindi due opere di Gropius: le officine Fagus ad Alfeld e il padiglione per gli uffici al Werkbund di Colonia del 1914, in grado di esprimere con obiettività, nei loro limpidi involucri, l’uso dei materiali, il sistema costruttivo gli elementi distributivi, “la verità delle cose”.

Tuttavia, l’intervento decisivo, secondo l’autore, è la Scuola della Bauhaus del 1925 a Dessau, prova concreta dell’ordine postulato teoricamente: contenente e contenuto corrispondono ai medesimi principi, i quali sono d’identificare la chiarezza dei mezzi con la chiarezza dei fini. In questa scuola riuscì a raccogliere il meglio nella diversità di ogni tendenza progressista europea, proprio in virtù della sua capacità di operare al di sopra delle parti: basti ricordare Klee, Kandinskij, Malevic, Mondrian e Van Doesburg. Il fine di questa scuola era quello di dare validità all’arte nell’ambito dell’economia moderna.

Questo ideale fu considerato dal Nazismo quale “arte degenerata” costringendo nel 1928 Gropius ad abbandonare la scuola e nel 1933 ad emigrare. Dal 1937 si apre perciò il periodo americano di Gropius, dove gli fu subito affidato un importante incarico alla Scuola di Architettura dell’Università di Harvard (dove peraltro terminò alcuni edifici, nelle quali pitture, mosaici, rilievi, opere di Mirò, Albers e Arp richiamano alla vecchia esperienza della Bauhaus).

L’insegnamento del Maestro è stato quello di tradurre principi generali, quali la soddisfazione dell’aspirazione dei singoli nell’armonica convivenza della collettività, nei termini specifici della didattica e della prassi architettonica; per Gropius fondamentale è il teamwork: artista progettista, scienziato, ingegnere, commerciante, economista, tutti devono essere presenti per poter portare l’architettura nell’intimo della collettività (principio che per egli rimane altresì valido al di fuori del campo architettonico, in quello sociale, dove solo attraverso la collaborazione si può raggiungere l’unità). Lo stile di Gropius è per Rogers la sua umanità, che è necessario comprendere se si vuole essere capaci di perseguire nel suo metodo: infatti, per la pochezza dei singoli e le condizioni economiche e morali della sua epoca, pochi furono in grado di far fruttificare il suo insegnamento.

Il breve saggio si conclude con un confronto tra l’attitudine di Gropius e quella di Frank Lloyd Wright: seppure la prima sia caratterizzata da grande modestia e la seconda da un altrettanto grande orgoglio, entrambi sono in realtà paladini della democrazia; mentre Wright concepisce tale democrazia come sviluppo della sua irripetibile individualità, Gropius, al contrario, la concepisce come immedesimazione, sia per quanto riguarda la vita privata che l’arte: secondo questo modo di pensare non c’è quindi nessuna diminuzione del nostro valore individuale, se davvero è presente, quando si traduce il proprio nome in un firma collettiva.

 

XXIV.       L’architettura moderna dopo la generazione dei Maestri   Nella prima parte del saggio, Rogers scrive dei quattro architetti che a suo parere furono i più influenti sulla sua generazione di architetti, formatasi attorno al 1930: Frank Lloyd Wright, Walter Gropius, Ludwig Mies van der Rohe e Le Corbusier.

Nonostante le differenze tra questi maestri sembrino inizialmente più evidenti delle analogie, questi si ritrovano alla base della cultura degli architetti della sua generazione; il carattere emergente di questi uomini è l’aver saputo fondere i problemi estetici con quelli di origine etica, indentificando cioè nella loro attività di artisti la loro posizione di uomini.

La generazione di Rogers ha sempre guardato a loro quali modelli di intransigenza artistica, che mai cedettero alle pressioni delle clientele private o pubbliche. Tutti e quattro nel progettare non prendono a prestito alcun motivo da altre esperienze, lasciandosi suggerire la risposta concreta al problema dalla realtà viva oggetto del loro esame; più che belle le loro opere sono “giuste”, oneste, conseguenti e coerenti al proprio metodo. Spesso questa coerenza interna alle loro opere non era riconosciuta dai contemporanei, con i quali i Maestri si trovarono a dover necessariamente polemizzare: il loro limite storico fu di essere avanguardisti nella loro epoca; Gropius, per la sua grande modestia, non soffrì molto di tale situazione, in quanto credeva che i suoi gesti fossero simili a quelli dei suoi contemporanei; Le Corbusier e Wright furono invece insofferenti di ogni contatto, lanciando messaggi che, nonostante fondati su presupposti di democrazia e umanitarismo, risultavano essere profetici (Broadacre City, Ville Radieuse): cercavano con i loro progetti di disegnare gli uomini.

Se tale spirito avanguardista era giustificato dalla netta cesura rispetto all’architettura della loro epoca, gli architetti contemporanei sono ora chiamati alla continuità nel metodo segnato di Maestri, non dovendo più rinunciare al senso della tradizione e potendone trarre le energie vitali; sono da evitare il conformismo modernistico e il cosmopolitismo: ogni architettura armonizzarsi con le preesistenze del luogo, di cui è compito dell’architetto fare sintesi. Le opere di Wright, Gropius, Mies, e Le Corbusier, nella varietà delle loro realizzazioni, dimostrano chiaramente l’apporto di originalità che si può portare all’interno di questo medesimo processo.

L’aderenza tra le postulazioni teoriche e quelle pratiche è proprio ciò che, secondo Rogers, impedisce ancora alla scienza urbanistica di raggiungere le proprie mete; le pianificazioni hanno troppo spesso costretto il naturale sviluppo degli eventi: sarebbe opportuno che i disegni urbanistici non pretendano di fissare le forme del futuro, ma, impostati su chiare direttive, favoriscano il libero mutarsi delle relazioni fra i vari fattori dell’esistenza; a tal fine sono da evitarsi i piani utopistici tanto quanto quelli tecnocratici.

 

Nella seconda parte del saggio l’autore analizza il rapporto tra Frank Lloyd Wright e Mies Van der Rohe, dei quali fu ospite durante un viaggio negli Stati uniti.

Della visita a Taliesin, dove Wright istruisce i suoi discepoli, ricorda il perfetto inserimento dell’architettura nella natura, della perfetta coerenza che si percepisce osservando il suo mondo e le sue opere, per quanto esse possano essere non appieno condivise; della visita a Chicago, da Mies, ricorda il caotico contesto urbano, del tutto differente dall’atmosfera di pace che regna a Taliesin, e di come Mies si sia acclimatato efficacemente alle tradizioni locali, costruttive e stracittadine.

Di quest’ultimo sottolinea l’attitudine a comprendere l’opera altrui, essendo in grado di compenetrare opere di altri artisti come Le Corbusier, quindi anche molto distanti dal suo ideale, illusorio secondo Rogers, di evitare ogni atto soggettivo.

In conclusione, ribadisce l’urgente necessità per tutti gli architetti di un’analoga coerenza con sé stessi quale prerogativa per affrontare “le esigenze vive della società”.

 

Casella di testo: Ernesto Nathan Rogers 
con Henry van de Velde

Descrizione: Descrizione: IMG_3758

 

 

XXV.        Continuità o crisi?  L’autore tocca la questione, particolarmente viva ai sui tempi, della possibilità o meno dell’architettura contemporanea di sviluppare le premesse del Movimento Moderno.

C’è possibilità di continuità o è avvenuta una crisi? La risposta a questa domanda è complessa: il processo storico può infatti essere alternativamente visto come un susseguirsi di crisi o di continuità a seconda che se ne vogliano evidenziare rispettivamente le emergenze o le permanenze.

Rogers definisce cosa egli intende per continuità e per crisi: la prima è una mutazione nell’ordine di una tradizione, la seconda è invece da intendersi come rottura, rivoluzione, momento di discontinuità dovuta a nuovi fattori non reperibili nei momenti precedenti. Approfondisce quindi quali siano i contenuti essenziali del movimento moderno: infatti, alcuni dei suoi punti hanno avuto una durata limitata, dovuta a ragioni contingenti (come, ad esempio, il tetto piano, utilizzato come forte simbolo nella polemica di quei tempi e ora non più elemento essenziale).

E’ caduta la ragione di quella frattura artificiosa che si era dovuta fare tra tradizionalisti e artisti d’avanguardia; ora “i buoni e i cattivi” sono da sceverare entro i confini della stessa tendenza: non basta più essere genericamente moderni, bisogna specificare il significato di tale modernità; essere moderni è perseguire il metodo che ha tentato di stabilire nuove e chiare relazioni tra contenuti e forme nel contesto storico-pragmatico, escludendo ogni “a priori”.

A parere di Rogers non c’è stata alcuna crisi, potendo ancora riconoscere nelle opere migliori degli artisti più sensibili, le critiche che dipendono in modo più o meno diretto dalle istanze del Movimento Moderno.

 

Analizza infine come in questo discorso si possano classificare le simpatie per il neoclassicismo e il liberty, potendo queste suscitare una certa confusione, confondibile come crisi.

Tali manifestazioni artistiche del principio del secolo , che avevano acceso la violenza polemica dei primi Moderni, acquistano infatti una nuova luce essendo caduto l’obbligo di polemizzare: ne avvengono così recuperi positivi, selezionando alcuni valori quali l’elegante raffinatezza di materiali e la varietà del linguaggio, ma anche altri negativi, con richiami letterari o nostalgici che non contribuiscono concretamente all’attuale problematica architettonica, limitandosi a rispolverare “sic et simpliciter” immagini del passato per incapacità di inventarne di nuove.

Nonostante ciò, conclude, il Movimento Moderno sarebbe davvero in crisi qualora venisse negato il metodo che aspira all’esaltazione formale nella mediazione dell’utile con il bello, considerandone esclusivamente l’uno o l’altro termine, e contemporaneamente si proponesse un’alternativa altrettanto coerente di postulazioni che possa avviare alla soluzione di questioni di interesse comune.

Per l’autore si tratta pertanto attualmente unicamente di confusione e non di crisi del Movimento Moderno, restandone inoltre la maggior parte degli orizzonti ancora inesplorati.

 

PARTE 2   Utilità e bellezza (Metodologia della composizione architettonica)

 

 

I.                Carattere e stile Si tratta degli appunti per il primo discorso tenuto da Rogers il 14 novembre 1952, all’inizio del corso di “Caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti”, presso la facoltà di Architettura del Politecnico di Milano.

Chiarisce il significato del nome del corso. Definisce quindi la parola “monumento”, ovvero di fatto artistico che deve essere ricordato, di ammonimento ai posteri, ma anche, approfondendo l’etimologia della vocabolo, che è la medesima del termine “monstrum”, di fatto degno di attenzione per via della sua eccezionalità.

L’autore cerca in seguito di definire quale sia il rapporto tra caratteri stilistici e caratteri costruttivi, definendo a tale scopo la parola “carattere”, che è uno dei modi di essere della volontà, della potenzialità, una delle cause del processo artistico, e la parola “stile”, che è il modo di esprimersi nella realtà del carattere, ovvero il modo di esprimersi in ogni forma d’arte e nella vita.

Quest’ultimo, lo stile, costituisce insieme alla tecnica il rapporto biunivoco, il cui valore dipende dal carattere, che concretizza le opere rendendole concrete. La composizione architettonica è l’indispensabile momento creativo delle esperienze citate, mentre lo studio dei caratteri stilistici e costruttivi ne rappresenta la riflessione critica.

 

II.               Il dramma dell’architetto   Rogers si interroga su quale sia il ruolo dello studio nella formazione di un artista e di quale debba essere il rapporto tra le forze istintive e quelle acquisite attraverso l’apprendimento della cultura.

In particolare, sottolinea come sia fondamentale, nell’assimilare quest’ultima, di interiorizzarla, evitando di limitarsi a mandarne a memoria i concetti, che è un esercizio inutile al fine di tradurre i propri sentimenti in azioni: ribadendo la necessità in architettura dell’azione concretizzante, cita infatti Adolf Loos: “Architetto è un muratore che ha imparato il latino”.

Essendo l’architettura un’arte, un uomo che crede di essere architetto si trova difronte a un dramma: come può assicurarsi di essere artista?

Si è artisti, secondo l’autore (che cita i consigli dati da Rainer Maria Rilke ad un giovane poeta, che analogamente si inquietava della propria condizione) quando avviene dalla presa di coscienza del sentimento di doverlo essere nonostante la coscienza delle enormi difficoltà che si incontreranno. Questo sentimento deve assumere una dimensione tale per cui la scelta di essere artisti risulti una scelta razionale.

La fatica quotidiana dell’architetto è quella di aspirare all’irraggiungibile perfezione morale ed estetica di ogni sua opera, sintesi tra i poli opposti di utilità e bellezza. Rogers evidenzia, a tal proposito, quali siano i pericoli insiti del disegno dell’architettura: da un lato, confinare le proprie idee in un mondo irrealizzabile, diventando astratti; dall’altro, rischiare di soccombere alla realtà erodendo le proprie idee, smarrendone la vitalità. La cosa più difficile da costruire per un architetto è infatti il proprio metodo per reagire a quella situazione di indecisione e per stabilire il limite di accordo fra le idealità e la possibilità storica, evitando l’irrazionalità quanto il conformismo.

La propria morale, così come l’arte richiede una perenne conquista, è una problematica sempre aperta; la composizione architettonica si identifica quindi in una metodologia, non in un insieme di regole: ogni problema compositivo si risolve nella concretizzazione delle immagini, frutto dell’atto creativo, in forme che risulteranno necessariamente legate allo specifico momento storico, e non dal desumere tali forme da una precisata (o precisabile) realtà.

 

III.             Struttura della composizione architettonica  Rogers sottolinea come ogni atto compositivo implichi una certa relazione tra le categorie dello spazio e del tempo; la particolare problematica della composizione architettonica è la sua concreta struttura; tale vocabolo “struttura” realizza inoltre una similitudine tra il suo significato astratto e quello concreto: ovvero essa è sia il modo che l’atto dell’architettura, potendo quindi distintamente parlare di struttura dell’architettura e di architettura della struttura.

La caratteristica tipica dell’architettura è l’ordinamento dei suoi elementi essenziali, “l’armonia spirituale della materia fisica” senza la quale non potrebbe consistere; la struttura dell’architettura ha infatti, a differenza di quella di altre arti, uno spiccato valore fisico obiettivamente percepibile e tangibile. L’architettura è quindi un fenomeno tridimensionale che si concretizza nello spazio con le sue manifestazioni, le quali caratterizzano a loro volta tale spazio.

L’autore evidenzia quindi quali siano le differenze tra l’architettura e la scultura, entrambi fenomeni tridimensionali; ad esempio, la differenza nel processo che distingue l’opera di Michelangelo scultore (il David) da quella di Michelangelo architetto (la Cupola di San Pietro) è data dal fatto che nel progettare quest’ultima egli poté agire con genialità, audacia e spregiudicatezza ma avendo a limite la struttura, il sistema dell’architettura: il fine al quale deve corrispondere una cupola è infatti imprescindibile . E’ proprio nel considerare il tale sistema che il problema di Michelangelo architetto si distingue da quello di Michelangelo scultore, pur potendone riscontrare analogie di gusto, cultura e personalità.

La particolare concezione di utile è infatti ciò che differenzia la creazione architettonica da quella di qualsiasi altra arte plastica: si tratta di un utile concreto, laddove quello della scultura è utile simbolico (il David, posto davanti al Palazzo della Signoria, serviva a simboleggiare il dovere di difendere e governare giustamente la propria città).

Un'altra sostanziale differenza è che la scultura è un mezzo dell’utile, non contiene un’utilità: l’equilibrio tra le parti e il tutto risponde a valori puramente estetici, mentre in un’opera architettonica, come la Cupola, tale rapporto risponde a una razionale economia: la legge estetica in architettura non può sottrarsi mai alla sua struttura; ad esempio, purché la cupola del Bernini volesse simboleggiare la tiara sul capo del papato personificato dalla Basilica, della quale il colonnato simboleggia le braccia, questi stessi elementi rimangono, rispettivamente, l’interpretazione della copertura di uno spazio e l’interpretazione di un portico. Non possono esistere architetture al limite dei soli valori pratici o dei soli valori formali, in quanto l’architettura non può nascere se non nel tendere all’irraggiungibile equilibrio dell’Utilità e della Bellezza in quell’armonia che è tipica dell’arte; le diverse accentuazioni dell’uno o dell’altro termine ne caratterizzano il carattere stilistico, configurando i diversi stili nella storia dell’architettura.

In tal senso, lo stile dell’architettura moderna è l’espressione cosciente di questo principio di sintesi implicito in tutta l’architettura, dall’epoca delle caverne sino alla contemporaneità: l’architettura moderna è denominata architettura funzionale proprio in coscienza della tensione che esiste tra Utile e Bellezza.

 

IV.             Durata dell’architettura Il problema dello spazio in architettura diventa per gli architetti anche un problema di statica, sia di consistenza quant’anche di permanenza, di continuità della forma nel tempo. Lo spazio non è quindi solo un luogo geometrico ma anche un determinato sistema fisico.

Si fissa quindi con la creazione architettonica il tempo-epoca nello spazio: ovvero, radicandosi nella realtà presente, l’architetto ne trasferisce la sua interpretazione nell’eterno nella mediazione dell’utile nella bellezza.

All’interno di ogni oggetto architettonico sono in tensione la scienza e l’arte: la prima rivela un dato momento della conoscenza, qualcosa di contingente e che tende all’invecchiamento; la seconda invece fissa l’assoluto e tende alla perpetuità. Perciò, quanto più in un oggetto di arte applicata la componente artistica assorbe quella scientifica tanto più tale oggetto sarà duraturo; vicendevolmente il dato scientifico acquisirà tanto più valore di durata quanto più avrà subìto l’influenza dell’artista creatore. Così, sottolinea Rogers, il Partenone, pur essendo morto il culto di Minerva e tutte le attività pratiche ad esso connesso, rimane vivo.

 

V.               Economia e armonia L’autore richiama la definizione dell’artista, data da Francis Bacon alla fine dell’ottocento, di “homo additus naturae”; l’architettura, mediando arte e scienza, a differenza delle altre arti plastiche o discipline scientifiche, può occuparsi della natura come strumento tangibile, fornitrice dei materiali da comporre ai fini di accomodarli all’uso dell’uomo. Rogers discute quindi dei valori tattili dei materiali: il materiale è effetto determinato dalla scelta della propria volontà creatrice, così lo sono anche gli specifici valori tattili.

La realtà economica è dove si determina l’espressione temporale dell’opera architettonica, senza la quale l’espressione spaziale non sarebbe concreta. Questa realtà certamente condiziona, ma non deve determinare, la disponibilità potenziale dell’architetto, ovvero di colui che plasma la materia definendo lo spazio architettonico: deve infatti essere capace di concretizzare la simbiosi tra artista e società in un prodotto dove essi siano validi individualmente e perfettibili nella sua economia. Così come il materiale, che non possiede in sé alcun valore né nobilitante né mortificante, così l’economia è anch’essa una premessa necessaria all’impostazione del problema architettonico ma non sufficiente a garantirne la validità.

Il brano si conclude quindi portando l’attenzione sul rapporto economico tra forma e materiali, sottolineando come una forma semplice non corrisponda a una forma economica poiché in architettura, in quanto arte applicata, questa è il risultato di una lavorazione del materiale: alcuni materiali risultano infatti molto costosi da lavorare in forme semplici come, ad esempio, una sfera perfetta; altri come l’argilla si prestano a concretizzare forme complesse in modo economico. L’architetto non può quindi esprimere una preferenza a priori per una forma o per un materiale, ma questa è conseguenza del rapporto economico tra forma e uso, in cui l’economia è una variabile che dipende dalla sua personalità nell’unire i dati del problema e risulta commisurabile solo nel risultato finale, nell’opera concreta.

 

Casella di testo: Alvar Aalto, Sgabello in legno curvato e pelle con gamba convessa laminata a forma di ventaglio
1953

Descrizione: Descrizione: IMG_3757

                    

 

VI.             Misura e grandezza   Rogers distingue due termini: l’energia costruttiva, di cui un oggetto necessita per concretizzarsi nello spazio; l’energia decorativa che qualifica poeticamente tale oggetto, personalizzandolo e giustificandolo nel tempo.

Questi sono gli elementi primordiali del fenomeno architettonico e coesistono dialetticamente in ogni suo momento; tuttavia è possibile scinderli ai fini di una critica processuale. Ogni opera d’arte, se pur autonoma, ha in se alcuni valori strutturali che possono riportarla all’interno di leggi più generali: ad esempio il rapporto di misura e grandezza. In architettura la misura fisica dipende da due fattori: la misura fisica dell’uomo e le caratteristiche fisiche dei materiali; la grandezza apparente è invece una qualità astratta, dipende dalle relazioni che si stabiliscono tra le misure fisiche, l’opera e altri elementi esterni, quali l’ambiente e la misura umana. Proprio queste relazioni definiscono il carattere di uno stile e il carattere particolare di un’opera.

La misura fisica può essere sia comparativa delle dimensioni (oggetti più grandi o più piccoli gli uni rispetto agli altri), sia riferirsi ad un confronto più complesso, ovvero con l’uso (oggetti più grandi o più piccoli in rapporto all’uso al quale sono destinati). La grandezza apparente è indipendente dalle misure reali, è legata all’impressione di magnitudine che un’opera può avere sull’osservatore: tutte le arte plastiche, e ancora di più tra queste l’architettura, hanno la tendenza al grandioso, al voler dare l’impressione di una grandezza che sia superiore alla misura. Tale tendenza a volte si confonde con un’aspirazione al grande: la colossalità, che è l’identificazione della grande misura con la grandezza è un motivo frequente del pensiero architettonico (la grande altezza, la grande massa, il grande volume…). Secondo l’autore tale impulso artistico deriverebbe dalla stupefazione dell’uomo primitivo di fronte alla natura: al mare infinito piuttosto che alla mole delle montagne o alla profondità dei boschi.

Gli effetti di tali relazioni tra misura e grandezza sono riscontrabili in tutte le arti plastiche; tuttavia nell’architettura le proporzioni vanno valutate tenendo conto del fatto che questa è un’arte applicata, dove perciò i rapporti dimensionali nascono dalla fusione degli aspetti pratici con il mondo del fantastico: il rapporto funzionale, valido sostegno di ogni opera in ogni epoca, è infatti una scoperta recente per quanto riguarda la coscienza del pensiero architettonico.

 

Casella di testo: Gio Ponti
Palazzo per uffici della Montecatini
Milano (1936)

“Ritmo e allitterazione […] sollecitano la percezione del grandioso e documentano la tensione decorativa”

Descrizione: Descrizione: IMG_3763

 

 

VII.           Il modo della decorazione   Il brano inizia con una serie di esempi che vogliono suggerire l’esistenza di un’analogia tra il determinismo filologico, quello paleontologico e quello architettonico; Rogers si chiede se esista un processo che, a prescindere da ogni atto volontario, possa portare alla genesi di nuove forme o alla trasformazione dell’uso di quelle esistenti.

Sceglie e riporta diversi paragoni: dalla genesi delle parole “cicerone” e “silhouette”, alle teorie evoluzionistiche (ad esempio di come una serie continua di forme, sviluppandosi secondo una direzione costante, portarono dal primordiale Eohippus all’attuale Equus-Caballus), alle mode, come quella di portare i calzoni con il risvolto (che sarebbe nata dall’imitazione di Edoardo VIII, sorpreso da un acquazzone mentre assisteva ad un vento sportivo) nata per una ragione funzionale, di cui ora rimane solo l’aspetto formale. Così nell’analizzare il Partenone si possono riconoscere, come nel cavallo si riconoscono le tracce della sua evoluzione dalla sua forma primordiale, le origini dalle costruzioni il legno: ne sarebbero testimoni ad esempio le gocciole, quegli elementi marmorei che compaiono sotto i triglifi, trasposizione delle gocce di pioggia che erano naturale ornamento alla costruzione in legno.

Tale assurdo logico di trasformare le gocce d’acqua in marmo deriverebbe da un atto incosciente del sentimento.

Così per via imitativa tali elementi possono venire ad instaurarsi anche su oggetti lontani dalla concezione primaria, come, ad esempio, sulla testata di un letto. Altre volte succede che elementi architettonici nati per esigenze funzionali, come il timpano delle finestre, per proteggerle dalle intemperie, nella metamorfosi finiscano per degenerare a elemento puramente decorativo: accanto ad interpretazioni della stessa funzione con accenti decorativi diversi ne nascono alcune che non servono più allo scopo originario, ma ne mantengono solo l’aspetto plastico (come, ad esempio, timpani che danno su uno spazio chiuso, aperti in sommità o semplicemente disegnati sulla facciata come spesso avveniva nelle epoche barocche).

Un’altra possibilità è che l’origine sia determinata da un compromesso di nuove funzioni con forme già esistenti e che di iterazione in iterazione queste cambino la propria fisionomia: le chiese gotiche, pur avendo mutato la maggior parte delle caratteristiche rispetto al modello originale della basilica cristiana, possono tuttavia ancora mostrare la derivazione di quest’ultima dalla basilica romana per via della somiglianza nella disposizione planimetrica delle navate.

I prodotti architettonici, conclude l’autore, non sono quindi il risultato meccanico di equazioni risolvibili di volta in volta con la sola intelligenza, ma neppure improvvisa intuizione individuale, senza radici nella storia.

 

VIII.          Il perché della decorazione   La decorazione è congenita all’architettura e non sarebbe percepibile senza l’ornato che ne è sua manifestazione. Anche l’architettura moderna, se pur di primo impatto possa sembrarne priva, è in realtà ricca delle manifestazioni dell’energia decorativa: un contrappunto di piani curvi, una parete bianca, una superficie monocromatica, la tessitura di una parete in mattoni a vista… sono tutte sue diverse ma valide apparenze.

Con la decorazione si interpretano gli strumenti pratici conferendogli validità estetica nel tempo: l’uomo costruisce sì per esigenza di protezione ma esprime sin da subito la necessità di rapportarsi, di comunicare, di esprimersi. Un esempio della concretizzazione di tale dialogo tra la razionalità della costruzione e l’ornato è nel tempio greco: la sua costruzione si adatta alle necessità del culto, la struttura (tecnica) si forma secondo le esigenze dei materiali; l’ornato ripete invece, sul marmo levigato, i motivi delle opere arcaiche in legno. L’arte folkloristica è spesso ricca di ornamento: questo è la concretizzazione degli ideali conservatori: tramandando le stesse forme di generazione in generazione si vuole mantenere il sentimento da queste suscitate. La decorazione tramite l’ornato appare quindi come prodotto del sentimento.

Secondo Rogers le possibilità essenziali della decorazione sono 3: negare la realtà costruttiva tramite l’ornato; esaltare con l’ornato la realtà costruttiva sottolineandone gli elementi (come ad esempio ha fatto Brunelleschi); estrinsecare con l’ornato l’opera d’arte, spiegarne il tema ed eventualmente idealizzarlo letterariamente. Il terzo di questi intenti è quello che ha caratterizzato nei secoli molte costruzioni: nasce dalla volontà di darle un’anima, di “farla parlare”. A volte anche la scrittura è entrata a far parte dell’apparato decorativo in modo diretto; altre, senza nemmeno comparire, l’edificio stesso, nell’essere stato saturato dall’energia decorativa, diventa simbolo o allegoria, opera letteraria; la fontana di Trevi ne è un esempio.

L’atmosfera di un monumento è suscitata dalla tensione decorativa: la luce, le ombre, i rapporti tra le dimensioni; l’energia della decorazione è in grado di scolpire la percezione che si ha di uno spazio, di un volume, di una superficie: nelle cattedrali gotiche i raggi di luce colorata che penetrano dalle vetrate riccamente decorate concorre per certo alla percezione della sacralità dello spazio, della sua misticità, alterandone visivamente le superfici, rimodellandone i volumi. Nel barocco questo rapporto tra energia costruttiva ed energia decorativa risulta addirittura invertito, diventando questa tensione emotiva il fine stesso della costruzione: il fine dell’arte è di meravigliare; la forza decorativa si impossessa quindi della struttura.

Le quantità di questo rapporto nei diversi periodi storici dipendono dalla particolare relazione tra collettivi, committente e artista: nelle epoche collettive decorazione e architettura tendono all’equilibrio, il committente e l’artista compiono lo sforzo di essere il più possibile obiettivi, considerando tale obiettività quale bellezza ideale a cui ambire; nelle epoche in cui domina la personalità del committente (sia esso lo stato o un singolo individuo), questa tende a sovrapporsi alla ragione dell’organismo architettonico, dovendo la decorazione magnificarne la personalità, gli ideali; quando però è la personalità dell’artista a sovrapporsi all’opera (tipico ideale romantico) nasce un grande pericolo: che questa risulti, anche se non necessariamente antiestetica, antisociale.

La scelta di Rogers è quella di una decorazione che esalti l’oggetto nella sua realtà (“un bicchiere sia un bicchiere, una città sia una città”); per la coerenza del linguaggio è necessario che l’azione decorativa non distorca il carattere degli oggetti: questa deve integrarlo, potenziarne il significato.

 

 

Parte 3   Tradizione e architettura

 

 

I.                 Tradizione e attualità Prendendo come esempi l’università di Tucumán, in America Latina, e l’Architectural Association, a Londra, Rogers intende rappresentare i due limiti estremi oltre ai quali tende a sconfinare la cultura delle arti applicate.

Nell’università argentina, in cui egli tenne un corso, molti degli studenti, reclutati nella regione ai piedi delle Ande, non avevano mai avuto contatto con un’opera d’arte tridimensionale o con una vera architettura; ignoravano gran parte della storia dell’architettura, ma conoscevano, in modo molto approfondito l’architettura moderna, in particolare quella di Le Corbusier. Questi erano perciò impossibilitati ad esprimere giudizi comparativi, rendendo difficile discutere con loro dei valori dell’architettura; inoltre l’impossibilità di viaggiare e allargare la propria conoscenza tramite l’esperienza diretta li portava quindi generalizzare le poche nozioni acquisite, finendo per identificare nell’aspetto formale la soluzione di un dato problema.

All’opposto, nella scuola londinese, i migliori studenti erano persone dall’eccezionale cultura ed intelligenza; tuttavia, essendo i problemi affrontati per lo più dal punto di vista del contenuto, difficilmente riuscivano ad essere trasformai in forme, che sono la concretizzazione dell’arte.

L’uno secondo Rogers è il limite a cui tende il carattere dei paesi americani, l’altro è il limite a cui tende il carattere di paesi europei.

 

Nel passo successivo sottolinea come si sia ormai superato il momento storico in cui il modernismo, dovendosi imporre, dovette tralasciare il problema della preesistenza, e come sia quindi giunto il momento di recuperare tale questione.

Se infatti, prima del movimento moderno, ci si illudeva di risolvere il rapporto con l’ambiente e la tradizione contingente tramite l’imitazione stilistica degli stili del passato, oggi è necessario che un’opera affermi i valori contemporanei radicandosi nella società e nella tradizione. La tradizione è intesa da Rogers come “continuo fluire della esperienza di una generazione nelle esperienze delle generazioni successive entro l’ambito di una particolare cultura” (evidenziando inoltre come tale dato sia variabile e specifico per ciascun luogo e ciascuna società in un determinato momento della sua storia). Il problema della preesistenza deve essere una delle implicazioni essenziali dell’interpretazione artistica; così luoghi carichi di valori o paesaggi particolarmente significativi devono rappresentare un’ardua sfida per l’artista chiamato a situarvi la sua opera.

 In Italia tale problema è particolarmente sentito, per via del valore e della bellezza delle sue preesistenze, frutto di una storia travagliata; è necessario secondo l’autore trovare un equilibrio tra chi rischia di trasformare il paese in un museo, imbalsamandone opere e paesaggi, e chi vorrebbe radere al suolo tutto per favorire nuovi e rapidi interventi, ponendosi contro entrambi; costruendo con le proprie opere “un ponte” tra il passato e il futuro, non si può che rafforzare tali preesistenze e trarne le energie: questo è il significato di partecipare alla tradizione.

Rogers racconta di come, soprattutto nei paesi europei, l’idea che andava consolidandosi nella ricerca di un linguaggio in cui la comunità potesse immedesimarsi, fosse quella di rifiutare un linguaggio comunicativo di tipo cosmopolita, riconoscendo la necessità di ricercare i sentimenti genuini dei diversi gruppi culturali.

Il saggio pone infine l’attenzione sul rapporto fra il problema della standardizzazione e quello della tradizione. Secondo l’autore la complessità di questo problema risulterebbe proporzionale alla complessità della composizione che si deve affrontare: così, nel design di un cucchiaio, per la semplicità della sua funzione, si tende all’archetipo (essendo in questo caso il problema della tradizione un problema per lo più psicologico); nel design di sistemi complessi, quali una casa, non ci si può invece ricondurre ad un archetipo, poiché non sarebbe in grado di rispondere alla mutevolezza che caratterizza una società: piuttosto, e ciò è opportuno per raggiungere l’equilibrio tra qualità e quantità, se ne possono standardizzare gli elementi che ne costituiscono l’insieme, ferma restando la possibilità di comporli in modo da soddisfare le esigenze della specifica opera.

 

Casella di testo: Centro di un paese della Germania

“Qui una continuità organica rappresenta una coesistenza civile […]”

Descrizione: Descrizione: IMG_3766

 

 

II.               Il Cuore: problema umano della città Centro geometrico e centro funzionale, in una città, spesso coincidono, ma non sempre: esistono infatti città dove al di fuori del baricentro si sviluppano zone nelle quali la vita comunitaria assume particolare intensità; ciò dipenderebbe da ragioni di carattere geografico, storico e sociologico. La scelta della parola Cuore vuole proprio richiamare il luogo simbolico dell’amore, palpitante e vivo. Milano, come altre città medioevali, essendo monocentrica, possiede un cuore molto congestionato; altre città invece, come molte di quelle di fondazione inglese del nord America, sono città prive di cuore, non esistendo in queste un punto dove la comunità converga.

La responsabilità degli urbanisti è quindi quella di tener conto, volendo evitare essere astratti nella formulazione dei principi, di tali realtà culturali che così tanto differiscono da una parte all’altra del globo; cosmopolitismo e folklorismo sono gli errori estremi da evitare nel tentativo di esprimere tali realtà. A seconda delle diverse circostanze il compito è quello di vivificare, spostare, conservare, ristabilire, o, se non presente, inventare tale cuore; non è però possibile, a tal fine, stabilire soluzioni urbanistico-architettoniche di validità universale, potendosi solo applicare, nella ricerca di un linguaggio universale, il metodo funzionale, restando sempre le sorgenti dell’espressione artistica nella profondità di ciascun artista.

E’ un errore comune, secondo l’autore, quello di rovinare i vecchi centri delle città per risolvere i problemi del traffico stradale, in quanto questo non corrisponde a un’intensità di vita; i nodi stradali non possono costituire il cuore di un quartiere: questo deve essere preposto alla conversazione, alla discussione, alla contemplazione. Le piazze d’Italia sono secondo Rogers un esempio di “cuori generosi”, palpitanti di vita, dove si ritrovano valori umani dal significato eterno (come il giocare dei bimbi, il suono delle campane, il rumore delle fontane, il bisbiglio dei giovani innamorati, ecc.). La Città dell’Uomo, conclude, essendo al contempo unitaria e libera, è il termine medio tra la trascendente Città di Dio e la totalitaria Città del Sole.

 

III.              Tradizione e talento individuale L’autore ritiene che per conoscere un Paese sia necessario immergersi nella sua cultura, cercando di liberarsi dei preconcetti che possono derivare dalla nostalgia della propria cultura: ognuno infatti porta con sé le limitazioni caratteristiche del mondo culturale di origine; noi italiani, ad esempio, tendiamo, essendo convinti della straordinaria bontà della nostra cucina, ad avere preconcetti nell’assaporare quella estera. Per capire una cultura straniera è necessario instaurare un rapporto dialettico tra le nostre opinioni e quelle altrui.

Rogers scrive quindi dell’esperienza di un recente viaggio in Brasile. L’architettura brasiliana ha subito spesso giudizi arbitrari e diametralmente opposti poiché, l’abbagliamento dovuto allo sviluppo improvviso di tante costruzioni dalle molteplici e nuove apparenze, ha reso difficile formulare giudizi obiettivi. Lo svizzero Giedion da un lato, scorgendovi un contenuto di libertà, non riuscì a riconoscere quando questa sconfinasse nell’arbitrio; Max Bill, anch’egli svizzero, non è invece riuscito a percepire il significato di un’arte così diversa dalla sua, nemmeno nelle sue manifestazioni più rispettabili.

 

Rogers si riferisce quindi all’architettura di Oscar Niemeyer: nonostante le sue opere siano affette da significative manchevolezze dovute all’atteggiamento capriccioso dell’architetto, avvezzo alle impostazioni originate da un disegno fantasiosamente virtuoso (piuttosto che da una soluzione approfondita dei problemi tecnici e dei problemi sociali, pressoché assenti dalle sue produzioni), siano tuttavia perfettamente ambientate nell’esuberante vistosità della natura brasiliana. Sfondando infatti i pregiudizi sopracitati e collocando l’opera di Niemeyer nella geografia e nella storia che ad esse appartengono, accanto ai difetti emergono anche i meriti, tra cui appunto quello di aver saputo dedurre i valori del suo paese dalla fisionomia delle cose circostanti.

L’autore considera il Brasile, ai fini di analizzare i meccanismi della genealogia culturale, alla stregua di come i genetisti considerano la drosofila nei loro studi sulla genetica, per via della recente evoluzione di tale Paese.

Accanto al tentativo di Niemeyer di inserire dell’architettura moderna nell’ordine dei fenomeni naturali, si posiziona quello di Lucio Costa di inserirla nell’ordine della cultura (nelle costruzioni della cittadina di Ouro Preto si conclamano infatti le lontane influenze della cultura iberica e mediterranea) e quello di Affonso Reidy, che tenta invece la sintesi di entrambi gli approcci menzionati, proponendo nelle costruzioni del Pedregullo, a Rio de Janeiro, una sintesi tra tradizione colta e tradizione naturale.

 

Il saggio si conclude sottolineando come l’architettura contemporanea debba porre quale suo obiettivo un’individuazione dei motivi della realtà concreta che sia il più possibile poetica, rifiutando, tanto quanto l’internazionalismo indiscriminato, l’imitativo folklorismo.

 

Casella di testo: Oscar Niemeyer
Casa dell’architetto a Canoa, Rio de Janeiro
1953
Pianta del pianterreno

 

 

 

IV.             Le responsabilità verso la tradizione Rogers analizza quali siano i percorsi storici di un artista moderno, partendo dall’esempio di Rocco Scotellaro: poeta dalle radici popolari, riuscì, da uomo semplice e illetterato, a diventare voce cosciente e rappresentativa del suo popolo, per via della sua fecondità spirituale. L’autore ribadisce perciò la necessità di un’approfondita analisi dei contenuti specifici dell’arte spontanea, per stabilire le relazioni tra la tradizione popolare e la tradizione colta al fine di saldarle in un’unica tradizione.

L’unico modo per recuperare la semplicità perduta caratteristica di tali manifestazioni spontanee è secondo l’autore mediante il processo selettivo della cultura, necessario a rielaborare sentimenti e intuizioni e a trasferirli nell’attività artistica. Per cogliere il carattere di una tradizione è necessario considerare la storia totale di un popolo, non essendo sufficiente limitarsi ai frammenti più rilevanti (tradizione significa etimologicamente prendere e portare oltre, perciò sarebbe un controsenso cristallizzare qualsiasi conclusione); per Rogers sono due le forze che la compongono: il verticale, ovvero il radicarsi dei fenomeni ai luoghi; il circolare, ovvero il dinamico connettersi di tali fenomeni tramite lo scambio intellettuale fra gli uomini. La soluzione di qualsiasi opera è quindi da ricercarsi nel connubio tra le energie autoctone della tradizione e gli originali apporti provenienti delle energie correnti.

Tra gli esempi più impressionanti di tale sintesi, è secondo l’autore il municipio di Saynatsalo di Alvar Aalto. Quando Rogers ebbe l’occasione di visitarlo, gli tornarono alla mente San Gimignano e certe architetture italiane articolate su terreni irregolari, pur essendo l’opera formalmente diversissima da questi esempi: infatti, la sua genesi democratica (il municipio fu voluto dal popolo), il suo perfetto inserimento nel paesaggio boschivo, il suo essere risultato di una storia, di una geografia, di un ambiente locali è sufficiente a richiamare alla mente tali suggestioni; Aalto è riuscito a riassumere nel suo spirito la tradizione spontanea del suo paese con quella assimilata, meglio di quanto abbia mai fatto qualsiasi architetto italiano, in Italia.

Così l’architetto finlandese e il poeta lucano offrono la testimonianza del nostro tempo, in cui un poeta emerge dalle sue semplici origini approdando nei luoghi della cultura, e l’architetto dai luoghi della cultura scende alle radici della sua terra; percorsi entrambi fecondi quanto impervi: infatti il poeta dovette subire la prigionia dei proprietari latifondisti e l’architetto dovette talvolta patire l’incomprensione del suo popolo. Alvar Alto però, come ogni artista che sia cosciente della propria superiorità intellettuale, riuscì ad imporsi in alcune sue scelte, sapendo che essi stessi, prima o poi le capiranno e lo ringrazieranno.

 

V.               Le preesistenze ambientali e i temi pratici contemporanei Secondo l’autore sono due i passi in avanti che può compiere l’architettura contemporanea: affermare i suoi strumenti pratici per perfezionare le tecniche che ne concretizzano il linguaggio figurativo e approfondire maggiormente tale linguaggio al fine di renderlo il più possibile comprensivo dei valori culturali.

Rogers ribadisce a tal proposito l’importanza di adattare ogni edificio all’ambiente in cui è inserito: non si può disegnare una costruzione a Milano uguale a quella che si disegnerebbe per il Brasile, e, specificamente, in ogni via altra via di Milano che non sia quella presa in esame; analogamente è importante che a funzioni diverse seguano forme diverse.

Persino le prime architetture del Movimento Moderno, anche quelle di grandi maestri come Wright e Le Corbusier, si ponevano unicamente il problema del rapporto con l’ambiente naturale, lasciando in disparte quello dei possibili legami con l’ambiente culturale. Il problema della continuità storica è infatti un problema recentemente acquisito dai contemporanei nel pensiero architettonico; l’uomo ideale per cui costruiva in origine il Movimento, acquista ora il senso della storia, allargandosi a riconoscere le distinte individualità della società moderna. Essere moderni nella contemporaneità significa per Rogers “sentire la storia contemporanea nell’ordine di tutta la storia”.

Questi nuovi contenuti si traducono inevitabilmente nella concretezza di nuove forme; perciò il secondo passo da compiere è quello di approfondire lo strumento della tecnica, necessario a realizzarle. Ad esempio, il tetto piano e la finestra a nastro, coraggioso aggiornamento del linguaggio figurativo compiuto dal movimento moderno alla luce dei nuovi temi che erano emersi, non erano ai tempi supportate da appropriati mezzi tecnici atti a realizzarli. Tuttavia, tentare di risolvere la questione esclusivamente con virtuosismi tecnici, è solo un’illusione di aver risolto il problema, tanto quanto lo sia recuperare le forme del passato limitandosi ad imitarle: infatti, conclude l’autore, i passi in avanti compiuti sia nell’approfondimento culturale che in quello tecnico, non sono scindibili nell’architettura, che non può essere considerata né come una scultura né come una macchina.

 

VI.             Il problema del costruire nelle preesistenze ambientali L’autore sottolinea da un lato la necessità che i giuristi non pongano argini negativi all’edilizia, dall’altro come gli architetti debbano sentire maggiormente la propria responsabilità nello stabilire le relazioni fra le proprie opere e le preesistenze: le brutture che deturpano le città e il paesaggio italiano dimostrerebbero infatti l’inefficienza dell’attuale sistema legislativo e della sua applicazione.

Secondo Rogers, le leggi e i regolamenti sono sicuramente necessari, ma sono efficaci solo quando questi favoriscano l’inserimento armonico delle nuove opere nei rispettivi contesti: si deve sì preservare l’esistente, ma non si deve incitare all’inazione con scopo di difendere una bellezza che, se isolata dalla vita e dal rinnovamento, rimane solo un vuoto involucro; inoltre, si deve evitare di determinare “zone sacre” (completamente vincolate) e “zone profane” (meno tutelate), dovendo piuttosto tutelare uniformemente tutto il territorio nazionale, garantendo cioè che si costruisca ovunque con il massimo senso di responsabilità.

I piani urbanistici sono quindi uno strumento necessario, ma solo quando questi predichino un approccio specifico per ogni caso, per ogni costruzione, senza divenire un’imposizione che vada a vincolare, con le sue linee, uno studio più serio che si possa compiere nel realizzare il progetto (ovvero restando flessibili all’interpretazione della specifica realtà futura). Perciò l’autore ritiene necessario che solo i piani generali siano di competenza nazionale (mentre quelli particolari siano di competenza di entità locali quali le Regioni), e che si riveda l’istituto della proprietà privata dei terreni, senza la quale condizione non è possibile affrontare i problemi succitati.

 

VII.            Verifica culturale dell’azione urbanistica L’opinione dell’autore è che il processo urbanistico non ha senso qualora questo non integri tutte le discipline di cui si compone. Tale processo non può ammettere soluzioni generali (ribadisce la necessità di un metodo “caso per caso”).

La difficoltà è quindi nello stabilire un metodo valido per definire il limite di ciascun caso. Successivamente, sarà compito dei vari piani definire per ciascuno di essi la gradualità dei provvedimenti da attuarvisi; questi ultimi devono essere stabiliti nella stesura di ogni piano particolare situazione per situazione, e infine rigorosamente osservati.

Secondo l’autore, nella pianificazione non si può fare una scelta netta tra costruire o conservare, ma si deve compiere un’analisi severa, per stabilire quanto una nuova costruzione si ponga positivamente in continuità di un processo storico o quanto il passato che si desidera conservare possa essere effettivamente attualizzato e mantenuto vitale.

Un piano è uno strumento necessario a stabilire nello spazio e nel tempo il significato di qualsiasi azione, ma deve essere redatto con flessibilità sufficiente a garantire e favorire i futuri necessari approfondimenti di carattere specifico: a tale scopo è utile prevedere delle commissioni di aggiornamento. Le leggi restrittive, necessarie a vietare che alcuni artisti confondano la libertà con l’arbitrio e ad impedire gli affarismi egoistici, non devono tuttavia essere d’impedimento ai veri artisti, ma chiarire il loro dovere nei confronti della società, ovvero il dovere di fare.

Ribadendo la necessità che tutta l’Italia riceva la stessa attenzione e senso di responsabilità in ogni sua parte, conclude sperando che le leggi di tutela del 1939 e la legge urbanistica vengano unificate al fine di stabilire la mancante armonia, e quindi favorire il confronto dialettico, tra i piani di diversa scala.

 

Appendici

 

 

·       Confessioni di un Anonimo del XX secolo

 

Sono riportati i restanti otto articoli, dai titoli:

“Le coordinate dell’Anonimo”, “L’Anonimo e la folla”, “I confini dell’anonimo”, “L’Anonimo nel tempo”, “I sogni dell’Anonimo”, “Responsabilità dell’Anonimo” e “La personalità dell’anonimo”,

che completano e approfondiscono le tematiche già espresse nella Parte 1, Cap IV, “Confessioni di un Anonimo del XX secolo”.

 

·       Alcune note sull’esperienza di Ernesto Nathan Rogers

 

In questi testi conclusivi, lo storico e critico di architettura Luca Molinari, curatore della riedizione in oggetto, riassume la vita e l’esperienza di Rogers come uomo e come architetto del gruppo BBPR.