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autore |
RICHARD INGERSOLL |
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titolo |
SPRAWLTOWN.
LOOKING FOR THE CITY ON ITS EDGES |
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editore |
PRINCETON ARCHITECTURAL PRESS |
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luogo |
NEW YORK |
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anno |
2006 |
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lingua |
INGLESE |
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Argomento e tematiche affrontate |
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Questo volume
raccoglie le principali teorie sulla riqualificazione urbana fino a oggi
sviluppate dall'autore. Partendo da una attenta analisi e definizione di “sprawl”
e approfondendo temi come “la città- cartolina” e il “Jump cut Urbanism”,
L’Autore ci propone una serie di soluzioni per tornare a riconoscerci come
cittadini all’interno delle nostre realtà urbane. |
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Giudizio Complessivo: 9 (scala 1-10) |
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Scheda compilata da: Benedetta
Cossi |
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Corso di Architettura e
Composizione Architettonica 3 a.a.2015/2016 |
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Autore Richard Ingersoll |
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Richard Ingersoll ( San Francisco, USA, 1949).
Risiede attualmente a Montevarchi (Arezzo). Nel 1985 ottiene il dottorato in
Storia dell’Architettura presso l’università della California. Dal 1983 al
1998 ha diretto la rivista “Design Book Review” e attualmente scrive per
riviste come “Domus” e “Architettura viva”. Insegna attualmente Progettazione,
Storia dell’Architettura e Storia Urbana alla Syracuse University di Firenze
e alla facoltà di Architettura di Ferrara. |
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CAPITOLI |
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Capitolo I– Changing weather |
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Le esperienze di vita dell’Autore lo hanno portato a
viaggiare molto e a sperimentare realtà urbane ben diverse tra loro. Sono
stati proprio i contrasti, ma anche le tante somiglianze che ha riscontrato,
a generargli una serie di riflessioni sulla forma urbana della città. Per
prima cosa si interroga sulla concezione stessa di città: da Tokyo alla “megalopoli padana” così definita dallo
studioso Eugenio Turri, passando per Roma, Parigi e New York, possiamo ancora
affermare che la città, così come la intendiamo noi, esista ancora? Se
paragoniamo le nostre città alla concezione più antica e significativa di
esse, vale a dire le polis greche, cosa ne deduciamo? L’essenza della polis è
andata totalmente perduta, poiché il suo modello non è stato riproposto nella
pianificazione urbanistica dei contesti extraurbani e periferici. Le nostre
metropoli, infatti, sia dal punto di vista territoriale che demografico non
rientrano più nei parametri riconoscibili per una città. Oltre alla
dimensione spaziale, cosa ben più grave, si è perso il senso di città inteso
come diretta partecipazione alle sue attività, il sentirsi cittadino e non un
individuo estraniato dalla realtà che lo circonda. Da qui il termine “sprawltown”, con cui l’Autore
definisce la città contemporanea. Letteralmente “città diffusa” è in realtà
un termine intraducibile, poiché racchiude in sé un’accezione morale, un modo
di essere, un “abbandonarsi” della città al suo destino, senza regole. Al giorno d’oggi il concetto di “sprawl” è definito da strade ad alto
scorrimento, che si incontrano e si scontrano in uno sfondo di una città
priva di sintassi, scoordinata, vuota di valori e senza identità. Francesco
di Giorgio Martini rappresentava la città come un individuo: la testa era la
fortezza, gli arti i bastioni, la pancia la piazza centrale e il cuore la
chiesa. Un’idea di città molto semplice ma in cui ogni cosa aveva la sua
precisa e studiata localizzazione. E dove è andata a finire questa concezione
di città come un tutt’uno? La velocità della vita urbana contemporanea ha
inavvertitamente disintegrato la natura della città intesa come un corpo. Con
la rapida crescita demografica e le trasformazioni economiche dovute alla
rivoluzione industriale, la metafora della città è stata inevitabilmente
condizionata dal fascino del sistema industriale. La città come una fabbrica è
stata infatti teorizzata da vari
utopici sociali come Charles Fourier e King Gillette, mentre le nuove
scoperte nell’ambito della medicina, come la circolazione del sangue nelle
vene e nelle arterie ha ispirato l’urbanistica, mettendo in primo piano la circolazione
del traffico intesa come linfa vitale per la città. Secondo la teoria
urbanistica di Leon Krier, la “Little
City”, l’ambiente urbano dovrebbe ritornare alla scala e all’armonia del
periodo pre-industriale in cui la città era ancora la metafora del corpo
umano. Meglio avere più città, dunque tanti corpi connessi l’uno all’altro,
che un’unica città sconnessa al suo interno. Così dovrebbero essere le
moderne megalopoli per salvaguardare il concetto di città e scongiurare un
ulteriore sviluppo inopportuno, con la speranza che tornando formalmente ad
una città vera e propria si possa più facilmente tornare anche moralmente
alla polis ateniese. Di diversa opinione è invece Rem Koolhas, che promuove
la teoria urbanistica del “Generic City”,
sostenendo che la città sia ormai un qualcosa di irrimediabilmente
compromesso dal flusso del capitalismo moderno. Il capitalismo secondo
Koolhas è, Infatti, stato in grado di generare una nuova economia, nuovi
meccanismi sociali e politici che in virtù della loro complessità sfuggono al
controllo dell’urbanistica e dei suoi studiosi. Per questo motivo propende
per una politica del “laissez faire”.
Nella seconda parte del capitolo l’Autore si sofferma
sul tema del riscaldamento globale, evidenziando come negli ultimi decenni
sia diventato una questione centrale all’interno del dibattito politico sul
futuro del nostro pianeta. Non c’è dubbio che la città diffusa e il
cambiamento climatico siano due fattori da tenere in stretta correlazione tra
loro. È evidente, infatti, come il modello di città diffusa incoraggi
l’utilizzo dell’automobile, costringa a lunghi spostamenti con i mezzi e
comporti uno spreco notevole di energia e di suolo, ma allo stesso tempo possa
rappresentare un terreno fertile per reagire a questi cambiamenti climatici.
Sprawltown si propone di stimolare una nuova consapevolezza urbana dove non
c’è che indifferenza e nei capitoli seguenti l’Autore prova ad assemblare dei
convincenti casi studio e a suggerire dei rimedi; realizza comunque che non
può esserci una soluzione adatta, bensì soltanto delle strategie. Per tale
motivo “sprawltown” diventa un
invito a raccogliersi e a discutere dei cambiamenti climatici. |
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Capitolo II- Postcard city |
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Nel secondo capitolo l’Autore si interroga sull’identità
dei centri storici delle città contemporanee. È infatti sotto gli occhi di
tutti come al giorno d’oggi questi ultimi si stiano svuotando della loro
essenza primordiale, del vero motivo per cui esistono, vale a dire
raccogliere l’intera cittadinanza e rappresentare uno spazio in cui tutti gli
abitanti possano riconoscervisi e veder riflessa la propria identità civica.
Non è forse per questo motivo che i
centri storici sono da sempre considerati l’emblema di una società, lo
specchio della vita della gente che vi vive? Eppure al giorno d’oggi
attraggono sempre di più turisti da tutto il mondo mentre allontanano i
residenti, stanchi di vivere in un contesto sempre più turistico e sempre meno
civico. Un esempio lampante di questa trasformazione è la città di Venezia,
che negli ultimi trent’anni ha visto più che dimezzarsi la sua popolazione.
Sintomo di centri (storici) che sono sempre più a misura di turista e sempre
meno a misura di cittadino, in cui non vi sono reali opportunità di lavoro e
in cui la gente non trova più risposta ai suoi bisogni quotidiani. Sempre più
simili a cartoline che a realtà urbane. Inoltre, mentre negli anni i turisti
sostituivano i cittadini veri all’interno delle città, questi ultimi,
viceversa, si trasformavano in turisti. Proprio così è nata infatti, come
sostiene l’Autore, una nuova tipologia sociale, quella del cittadino-turista
e il centro commerciale è diventato lo specchio di questa nuova identità,
essendosi in parte sostituito al commercio al dettaglio che da sempre
caratterizza i centri storici. Ad ogni modo è palese come i veri e propri cittadini
stiano scomparendo in questa moderna “Sprawltown”,
portando con loro un vuoto imprescindibile che si lega ad una città sempre
più pericolosa e degradata. Gli spazi pubblici aperti infatti, come le
piazze, sono ormai spesso abbandonati e alle volte occupati da senza tetto o
bande di delinquenti poiché è venuta meno la sicurezza da sempre garantita
dalla costante presenza di persone. La conclusione dell’Autore è che la forma
della città, svuotata della sua identità civica, tende a cristallizzarsi in
un museo del passato, un luogo in cui i cittadini sono nel migliore dei casi
una distante memoria. La soluzione secondo l’Autore è una sola: mantenere
elevata la partecipazione dei residenti alla vita della città, promuovendo
iniziative di carattere storico, politico e sociale, per prendere le distanze
dall’immagine della “Città- cartolina”. |
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Capitolo III- Jump cut
urbanism |
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La nascita dell’automobile e la sua rapida diffusione
prima in America, con il pragmatismo industriale fordista, e poi in Europa,
hanno avuto un impatto notevole sul reticolo urbano delle nostre città. Ci si
sforzava infatti di capire come poter adeguare, a volte trasformare,
l’impianto urbanistico dei centri urbani in funzione del traffico veicolare.
Nascono così le prime autostrade (prima fra tutte la Milano Laghi), la cui
costruzione era incoraggiata persino dalle dittature europee che in essa
vedevano una risposta adeguata alle nuove esigenze della popolazione. Una
popolazione che stava cambiando, diventando sempre più dinamica, benestante e
che non voleva rinunciare all’automobile, ormai il simbolo della nuova età
della motorizzazione e del consumismo che affondava le sue radici nel sogno
americano. I primi piani urbanistici furono, infatti, la risposta immediata
ai nuovi mezzi di trasporto, alla rapida crescita demografica e alla
produzione industriale, ma nessuno inizialmente era in grado di prevedere
quello che sarebbe stato l’impatto dell’automobile sulle città che la
vedevano sempre più protagonista. Ad interrogarsi sulla questione è lo stesso
Le Corbusier, che immagina una città sviluppata verticalmente, con
grattacieli residenziali separati gli uni dagli altri per mezzo di ampie
strade in grado di smaltire velocemente il traffico automobilistico. La sua
idea, che viene meglio sviluppata nel suo capolavoro teorico del progetto de
“La ville radieuse”, porta allo stravolgimento
dell’idea di strada, che si svuota delle sue attività commerciali e del suo
carattere sociale, trasformandosi unicamente in uno strumento a servizio del
dinamismo moderno. Ma chi viaggia su queste strade è un individuo passivo che
non presta attenzione allo sfondo cittadino su cui si muove e questo sfondo
sembra essere solo una sequenza di immagini assemblate le une di seguito alle
altre. L’ analogia che l’autore crea con il “Jump cut Urbanism” è proprio tra la composizione cinematografica
fatta per tagli e salti e la percezione della città che si registra
dall’abitacolo di un’automobile nel suo correre fra gli spazi urbani. Ma
quello che manca alla città diffusa è il senso di un assemblaggio pensato, di
una struttura narrativa, perché a differenza di un film sembra non avere
regia. Ma come per tutte le arti, anche per l’urbanistica è fondamentale che
ci siano delle teorie, altrimenti si incorre in quella che oggi è l’immagine
confusa e disorientata di molti insediamenti posti al confine delle città.
Per concludere questa profonda riflessione sulla metafora cinematografica del
“Jump Cut Urbanism”, l’Autore si
sofferma sul ruolo che a suo parere dovrebbe essere affidato alle automobili.
È sbagliato considerarle al centro di un piano urbanistico, esattamente come
eccedere nella direzione opposta, ovvero escludere totalmente le auto dai
progetti delle città. Come nel buon cinema infatti, la città deve essere in
grado di integrare scale differenti, velocità differenti e punti di vista
differenti, mettere tutto insieme e realizzare qualcosa che corrisponda al
nuovo codice di percezione urbana. |
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Capitolo IV – Infrastructure as art |
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“Perhaps someday, when traffic is light and seen from a different
perspective, these gigantic snarls of concrete and steel will appear to be
the cathedrals of the automobile age, sublime works designed by anonymous
civil engineers in the name of the principal act of faith of consumer
society: mobility.” O forse no, forse nessuno li guarderà mai in futuro come
templi della mobilità di massa. Ma in passato qualcuno ha cercato di rendere
le infrastrutture quasi monumentali, basti pensare ad Antonio Sant’Elia,
futurista, che nella sua “Città nuova” monumentalizza le grandi arterie stradali
e le linee ferroviarie. Altro esempio, questa volta contemporaneo, è
Calatrava, le cui opere infrastrutturali sono dei veri e propri capolavori.
Tra tutte le opere ingegneristiche i ponti, infatti, hanno da sempre
suscitato un grande interesse in campo artistico, forse perché sono in grado
di connettere parti diverse di una città e di connotarle, ci basti pensare al
ponte di Brooklyn che è diventato uno dei simboli della città di New York. Ma
allora se l’ingegneria civile dei ponti è generalmente accettata come arte,
perché non lo sono le altre infrastrutture di pubblica utilità? Una città che
negli ultimi anni è riuscita a trattare ogni nuova infrastruttura come
un’opportunità per inserire dell’arte e apportare dei miglioramenti urbani, è
Barcellona. Il suo modello è in grado di combinare un’alta partecipazione di
artisti con programmi sociali a servizio della popolazione, disegnando e
realizzando piazze, ponti, percorsi pedonali, monumenti, con l’intenzione di
promuovere un’identità locale “sanificando
il centro e monumentalizzando le periferie”. L’Autore conclude il
capitolo ricordando come nel contesto neo liberale che domina l’economia
mondiale, le infrastrutture si propongano come il programma vincente per gli
investimenti pubblici e godano solitamente del consenso cittadino. Ma, intese
esclusivamente come la risposta unitaria ai problemi prementi della mobilità,
hanno causato non pochi problemi sociali ed ambientali, modificando a volte
la topografia di intere aree. Mentre la logica utilitaria delle infrastrutture
le condanna spesso alla singola funzione viabilistica, la vita urbana
verrebbe di gran lunga arricchita, come nel caso di Barcellona, se fossero
aggiunti parametri estetici e valore sociale. |
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Capitolo V – The ecology
question |
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La questione ecologica ed
ambientale di cui parla l’Autore è strettamente legata a quella urbana. La
città infatti, che nella sua forma rappresenta il prodotto più glorioso della
mente umana, continua ad estendersi inghiottendo chilometri e chilometri di verde,
paesaggio e vegetazione. Ci basti pensare che nel 1970 solo il 35% della
popolazione mondiale viveva in agglomerati urbani, mentre oggi si è di gran
lunga superato il 50% e si stima che questa percentuale sia destinata a
crescere notevolmente nei prossimi anni. Ma la bassa densità, che
inghiottisce verde e lascia dietro di sé solo distese di cemento, rappresenta
il pericolo maggiore per il nostro pianeta, poiché oltre al consumo sfrenato
di suolo ci rende dipendenti dai combustibili fossili. Per alcuni studiosi la
soluzione esiste ed è una sola, vale a dire ritornare a tempi più semplici,
come prima della rivoluzione industriale. Regredire e non progredire. Ma,
sostiene l’Autore, tornare indietro quando la realtà dei nostri giorni, la
nostra economia e le nostre abitudini non potrebbero mai inserirsi in un
sistema diverso da quello odierno, è pura utopia. È infatti più facile andare
avanti cercando nuove soluzioni piuttosto che guardare nostalgicamente ad un
passato ormai troppo lontano ed inoltre, un cambiamento in urbanistica,
secondo l’autore non deve per forza entrare in contrasto con la nostra
civiltà e i nostri stili di vita. Ma per andare avanti è necessario
incoraggiare l’utilizzo di nuove tecnologie e intraprendere campagne di
informazione per sensibilizzare i cittadini. Solamente la politica ha il
potere di fare entrambe le cose ma si ha spesso l’impressione che non stia
dando a questi temi l’importanza che essi meritano. Eppure i segnali sono
chiari: c’è qualcosa di sbagliato in questo mondo se si pensa che la
popolazione degli Stati Uniti, non appena il 6% di quella mondiale, consuma
ben il 30% delle risorse del pianeta e che, se tutti gli abitanti del mondo
tenessero lo stile di vita americano, probabilmente avremmo bisogno di ben 5
pianeti come la terra per soddisfare tutte le esigenze. Durante il 1970,
infatti, diverse furono le organizzazioni attiviste che presero a cuore il
tema ambientale, negli Stati Uniti e in Europa, ma nonostante ciò il campo
dell’architettura, come anche quello della politica, non rispose prontamente
alla domanda di ecologia. Possiamo comunque citare degli architetti che hanno
saputo subito cavalcare e comprendere fino in fondo questa nuova spinta
ecologica, come l’italiano Paolo Soleri, il quale ispirato dall’idea di
ecologia e communitarismo sociale progettò una sintesi di un sistema globale
ecologico con forme architettoniche che chiamò “Archology”. Tra le numerose correnti di pensiero possiamo
annoverare anche quella interpretata dal teorico Fuller, il quale sostiene
che il problema vero e proprio della nostra società non sia il consumismo in
sé, bensì il grande spreco di potenziale in materiali ed energia, come
diretta conseguenza dell’inefficienza tecnologica. Ma in realtà, sostiene
l’Autore, sul mercato esistono innumerevoli soluzioni ecologiche tra cui i
progettisti possano attingere, ma spesso questi ultimi sono scoraggiati dal
costo elevato di questi sistemi. Ad essere messa in dubbio non è di certo la
loro efficacia tecnologica, quanto il reale guadagno in termini economici
nell’adottare queste soluzioni. Si teme infatti che il loro costo non possa
essere ammortizzato nel tempo dal risparmio energetico. Un’altra corrente di
pensiero si basa sul criterio del “bioregionalismo”, proposto inizialmente
dal biologo e urbanista Patrick Geddes, che si riferisce alla giusta
distribuzione di persone in una determinata area geografica (un vero e
proprio ecosistema), a seconda delle risorse che essa può offrire. Nello
stato di natura infatti sono gli organismi ad adattarsi all’ambiente
circostante senza modificarlo in base alle proprie esigenze e le risorse sono
mantenute, salvaguardate e non sfruttate, come invece accade al giorno
d’oggi. Un ben riuscito bioregionalismo si è raggiunto nel 1920 in Palestina,
in cui i coloni sionisti realizzarono una serie di villaggi basati
sull’agricoltura, i “kibbutzim”, realizzati sulla base del modello della
Garden City teorizzata da Howard. Ma l’idea di “Garden City” è difficile da incrementare e diffondere su scala
regionale poichè deve misurarsi con gli interessi politici ed economici di un
territorio, spesso in pieno contrasto con i suoi principi. Per questo motivo
i rari interventi di urbanizzazione sostenibile sono confinati a interventi e
iniziative locali ed, un esempio significativo di questa tendenza, è il bed
ZED, (Beddington Zero Emission Development), un blocco urbano di aree
industriali dismesse recuperate realizzato a Hackbridge, un distretto
londinese. Il progetto combina nuove tecniche di captazione di energia
solare, efficienza energetica, riciclo dell’acqua, tetti verdi ed altre
soluzioni di questo genere, riducendo
l’impronta sull’ambiente di ogni individuo di almeno la metà e dimostrando
come la città sostenibile possa essere una realtà tangibile, se solo i
benefici di questi blocchi urbani fossero riprodotti su larga scala. Molte
città comunque si stanno muovendo verso soluzioni più sostenibili, basti
pensare a come la Danimarca sia riuscita ad arrivare a soddisfare almeno il
20% delle sue necessità energetiche sfruttando il vento con le pale eoliche.
Anche altri paesi, come Spagna e Germania, si stanno muovendo su questa linea
ma, nonostante durante gli ultimi decenni siano stati numerosi i tentativi di
condurre le città verso la sostenibilità, le energie rinnovabili non sono
ancora così diffuse, quanto meno non abbastanza da essere in grado di
modificare il sistema del mondo industrializzato. Un’altra soluzione per giungere ad
una sintesi genuina tra “sprawl” e
“town” è incrociare le attività
legate all’agricoltura con la vita urbana, portando i cittadini ad una
consapevolezza ecologica maggiore. Con questo termine, “Agri-civism” l’Autore definisce questa nuova tattica che potrebbe
a suo parere portare le città a mantenere e salvaguardare i paesaggi rurali,
infondendo una cultura del rispetto ambientale di cui la nostra società è
sempre più carente. Ma per ora lo “sprawl”
continua indefessamente, con piccole opposizioni o cattive coscienze, nel
nome della fluidità del consumismo. |