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autore

ATTILIO PIZZIGONI

 

titolo

ARCHITETTURA DELL’ ARCHITETTURA

 

editore

SESTANTE EDIZIONI

 

luogo

BERGAMO

 

anno

2007

 

 

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

 

 

 

 

 

 

Argomento e tematiche affrontate

Descrizione: cop

Il libro raccoglie e riorganizza in modo organico le lezioni tenute da Attilio Pizzigoni presso la facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano e successivamente rielaborate nell’ insegnamento tenuto presso la facoltà di Ingegneria dell’ Università degli Studi di Bergamo. Strutturate su cinque capitoli, le lezioni vogliono tracciare una strada per affrontare le questioni teoriche e compositive della progettazione architettonica: la tendenza, la rappresentazione, la poetica e la tecnica. Il testo si propone quindi come strumento conoscitivo e interpretativo di tali tematiche, ma anche come documento dell’ esperienza teorica condotta dall’ autore nelle circostanze storiche e culturali degli ultimi decenni. Muovendosi in una fitta trama di riferimenti storici, critici estetici e letterari, il libro fornisce pertanto una personale e inedita chiave di lettura della cultura architettonica che ha segnato l’ intero periodo storico del secondo Novecento, a partire dal dopoguerra fino ad oggi. Il riferimento alla figura teorica e poetica di Aldo Rossi costituisce la costante che ricorre e sottende l’ intero impianto teorico del testo, proprio a sottolineare, come afferma lo stesso autore, che “dopo Aldo Rossi la strada dell’ architettura appare non meno difficile ma in un certo senso più piana, più scoperta e precisa: tanto che, se dalla nostra epoca dovrà nascere una tradizione sarà proprio da Aldo Rossi che questa tradizione potrà nascere”.

  

Giudizio Complessivo: 7 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Marco Mercutello

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 3 a.a.2014/2015

 

 

 

Descrizione: maxresdefault

 

ATTILIO PIZZIGONI

 

Allievo di Aldo Rossi al Politecnico di Milano, è docente di Composizione architettonica presso la Facoltà di Ingegneria dell’ Università di Bergamo. Architetto, critico e storico dell’ arte ha pubblicato numerosi articoli e alcuni libri tra cui: Immagine/Idea (Pescara 1986), Brunelleschi (Bologna 1989), Le Corbusier (Rimini 1992), Il fiore azzurro (Bergamo 2000). Una raccolta di sue lezioni universitarie è pubblicata in L’ Architettura dell’ Architettura – Aldo Rossi e il primato della realtà (Bergamo 2007).

Attilio Pizzigoni

 

Contenuto

 

La tendenza :                      Il cubo di Cuneo

                                              Paura dell’ architettura

 

La rappresentazione :       Il rilievo e il progetto

                                              Visione di un’ architettura

 

La poetica :                          Inventio, elocutio, dispositio, memoria, actio

                                               L’ immaginazione costruttiva

 

La tecnica :                           Utopia e realtà della tecnica

                                               Il colossale, il cantiere, la fabbrica

 

La natura :                            Il mattone originario

 

 

Architettura ad esempio

 

                              

                          

                       

 

CAPITOLI

Il cubo di Cuneo

Perché gli architetti hanno dato così grande importanza alla questione della tipologia? La parola “tipo” non presenta tanto una cosa da copiarsi o da imitarsi perfettamente, quanto l’ idea di un elemento che deve esso stesso servire di regola al modello. Nel pensiero di Aldo Rossi c’è l’indicazione della volontà di assumere il concetto di tipo come tematica compositiva capace di stare alla base del progetto e di costituirne una sorta di ispirazione, di principio formale. Nei suoi progetti diventerà sempre più evidente come questa idea fondativa del “tipo” si sia aperta a definizioni di volta in volta più complesse: il muro, la porta, la sezione, la finestra, ecc. Il tipo, la scelta tipologica, diventa cioè regola capace di informare l’intero processo progettuale. La guerra aveva spazzato via le tendenze che avevano operato negli anni del fascismo. L’unica corrente che era uscita più forte dalle vicende della guerra era quella organica del realismo. È Aldo Rossi che assume il problema del realismo come tema della sua ricerca teorica prima ancora che di ogni istanza poetica e di linguaggio: “Il carattere dell’architettura realista consiste nell’identificazione del tipico. Il tipico è l’aspetto peculiare dell’architettura cioé la tipologia originariamente condizionata e definita poi dal processo storico. E, di quella tendenza del realismo architettonico Aldo Rossi ne fu il maestro. Ed è il cubo di Cuneo il segno più evidente della della sua ricerca teorica e progettuale dove ebbe inizio la sua tendenza. Nel progetto per Cuneo, non solo era indicata quella continuità con la storia che veniva rivendicata dalla poetica del realismo, ma chiara era anche la prospettiva a venire di una poetica. Il Cubo di Cuneo fu e resta l’emblema di quel decennio a cavallo del 1970, il manifesto-programma che modificò sostanzialmente la cultura architettonica non solo italiana, infatti tutta la cultura architettonica internazionale ne uscì rinnovata.

  

Paura dell’ architettura

In questo capitolo ci si chiede se l’arte, ed in specifico l’architettura, deve essere simbolica, rappresentativa, referenziale di un’ideologia, o deve essere invece autonoma, autoreferenziale, anti-rappresentativa? (Esempio della cappella di Ronchamps:  un linguaggio barocco o moderno ?). L’ autore spiega come il vero problema dell’architettura non è quello di coglierne la valenza simbolica, ma di leggerne invece l’identità. Un’identità che è disciplinare ed etica allo stesso tempo e che non può essere definita con parole più chiare di quelle usate da Carlo Levi, nel saggio del 1942, “Paura della pittura”: “Il colore si staccherà dalle forme, e ognuno degli indissolubili elementi dell’espressione pittorica si isolerà e perderà i legami con gli altri e diventerà oggetto di incomprensibile spavento (...). Per gli uomini, il mondo da cui essi sono assenti perde ogni concretezza (...). La paura dell’uomo, cioè la paura della pittura è il senso della pittura contemporanea. Per sfuggire alla propria natura di uomini, quale sfoggio di ingegni e di eroismo. Per sfuggire alla pittura quali meravigliosi sforzi: mai si sono viste opere così ingegnose, tecniche così raffinate, ricerche così approfondite, tentativi così titanici, fatti soltanto per sfuggire alla pittura”. Ecco, è a partire da una tale visione che si apre la necessità di discorso sull’identità dell’architettura contemporanea, oggi costretta a subire la frantumazione dei propri principi, sempre dissociata da quella concezione manichea che vorrebbe la forma contrapposta all’immagine, la tecnica contrapposta alla poetica, l’uomo contrapposto alla città. Ed è quindi alle stesse parole di Carlo Levi che l’autore vuole affidarsi per sottolineare che mai, come in questi anni, si sono viste opere così ingegnose, tecniche così raffinate, tentativi così titanici, fatti soltanto per sfuggire all’architettura: per la “paura dell’architettura”.

Il rilievo e il progetto

In questo capitolo si cerca di capire il ruolo che ha il disegno, cioè la tecnica e la forma della rappresentazione, all’interno della più ampia questione del progetto. Il disegno viene qui considerato lo strumento di un’analisi e di una lettura intenzionata di quella realtà su cui si intende intervenire progettualmente: il disegno come momento necessario, indispensabile, ma anche sufficiente, attraverso cui si esprime, prende forma e si qualifica l’intervento progettuale stesso. Il disegno è l’argomento attorno a cui è cresciuto e si è sviluppato, non da ora, il dibattito disciplinare dell’architettura: il disegno non solo inteso come strumento operativo, ma anche come momento di analisi e di conoscenza e, infine, il disegno come proposta positiva, come volontà compositiva. Per usare parole più legate al linguaggio del progetto e del mestiere si cerca quindi di comprendere e di definire il significato che ha il disegno da un lato come “rilievo” e dall’altro come “progetto”. Possiamo dire che le scelte rappresentative sono scelte volute, programmate nella scelta dello strumento della rappresentazione. Dunque ogni tipo di rappresentazione, tesa a conoscere un oggetto della nostra indagine, è già di per sé selettiva dei valori che si vogliono conoscere e quindi  ogni forma di conoscenza attraverso la rappresentazione è già una conoscenza programmata, finalizzata, è già un’operazione progettuale. In tal senso possiamo allora dire che il rilievo è già il progetto, proprio perché conoscere un edificio, indagarne alcuni valori formali e alcune qualità presuppone il fatto di privilegiare tali qualità rispetto ad altre e quindi attuare già un’operazione progettuale. Possiamo così testimoniare, proprio attraverso la questione della rappresentazione, come l’analisi e il progetto siano contigui e conseguenti tra loro, come essi siano due momenti complementari di un’unica pratica conoscitiva.

  

La visione di una architettura

Nel saggio “Palladio, la prospettiva e gli antichi” Stefano Ray riprende Rudolf Wittkower laddove analizza il procedimento intellettuale dell’ architettura palladiana. Nella produzione architettonica palladiana il momento progetto-costruzione si configura nel mettere in proiezione prospettica oggetti da realizzarsi prospetticamente in uno spazio fisico prospetticamente misurato. E’ questa la tesi che l’ autore vuole esporre sul ruolo che la prospettiva ha nella costruzione del progetto di architettura proprio in quanto scienza della visione e del controllo geometrico dello spazio. È universalmente risaputo quanto sia stata determinante la visione prospettica brunelleschiana nel dar corpo a quella rivoluzione del pensiero moderno europeo con la nascita dello spazio cartesiano, fondato sulla centralità dell’uomo. Oggi la capacità di immaginare forme non appartiene più all’uomo ma alla macchina, sia essa fotografica o software digitale. Noi non possiamo abitare un grafico cartesiano: tuttavia è proprio nella sua possibilità di restituirci le dimensioni enunciate da una forma prospettica e geometricamente costruita che esso diventa fondamento di una architettura. Questo è appunto il compito disciplinare che l’architettura, da Brunelleschi a Palladio, da Ledoux fino ai nostri giorni, ha sempre affrontato. La centralità della visione quindi, come questione fondante nella conoscenza e nella progettazione dello spazio architettonico è il problema che deve affrontare la vicenda dell’architettura in atto e di quella a venire. Oggi siamo condizionati dall’immagine fotografica, che non riusciamo più a riconoscere la realtà se non passando attraverso l’obiettivo del fotografo. L’architettura dà forma al modello prospettico dell’immagine, la matrice fotografica di un’idea si materializza nella proiezione visiva e fornisce al progetto la regola compositiva, come la luce che occupa e costruisce lo spazio attraverso i tagli dei piani prospettici. È quindi ancora la prospettiva, scienza nuova e antichissima, che, misurando una “visione”, dà corpo e figura allo spazio per trasformarlo in edificio. La prospettiva realizza l’unità tra l’immagine originaria a priori e la forma costruita, tra quella visione che sta all’inizio del progetto e la forma fisica dell’architettura. La prospettiva si allontana quindi dalla funzione simbolica di rappresentazione della realtà per farsi strumento progettuale di congiunzione tra la visione e la costruzione, capace di trasporre in realtà fisica, in un’immagine visiva, descrittiva e fotografica. La prospettiva è la regola e la tecnica di una trasfigurazione dello spazio.

 

Inventio, elocutio, dispositio, memoria, actio

                 

Il discorso sul progetto è già di per sé “progetto”, in quanto comporta la necessità di evidenziare i procedimenti culturali e compositivi, tecnologici e costruttivi che ne stanno all’origine. Se ci poniamo la domanda su cosa sia il progetto, dobbiamo iniziare a decifrare l’ambiguità e la polivalenza di significati che è insita in questa parola, attraverso una sorta di esame etimologico, poiché è nella stessa parola “progetto” che sono contenuti due concetti tra loro contrapposti. Da un lato il progetto è “programma”, nel senso di “registrazione”, di “scrittura” attraverso cui vengono indicati i modi e i mezzi per la realizzazione di un prodotto, esso è il “dispositivo” per l’esecuzione e il controllo del procedimento stesso dell’esecuzione, è la descrizione di una “procedura” e l’indicazione di un metodo e dei passaggi operativi finalizzati al risultato della realizzazione di un’idea. Questa ipotesi etimologica unisce l’idea del progetto a un fondamento “produttivo”, in quanto è la parola stessa a creare una vicinanza di significati tra progetto e prodotto, a fornire quindi quest’idea di un controllo sul processo esecutivo, di razionalizzare ciò che deve avvenire, di prevederlo nel modo più dettagliato e completo possibile, e quindi di concepire il progetto come processo, come una sorta di enunciazione del programma produttivo stesso e come verifica “in progress” di un metodo e di una procedura da verificarsi nel suo stesso attuarsi. Dall’altro lato la parola progetto contiene in sé il concetto di “previsione”, di “prefigurazione” di qualcosa che ancora non esiste, di “proiezione” nel futuro, di immaginazione costruttiva, e quindi soprattutto di “utopia”, di immagine a venire, di ipotesi sul futuro, di azzardo e di rischio in quanto enunciazione di un’idea che deve ancora esistere. La qualità del progetto sta anche nella misura di continuità-distanza. Tra noi e l’altro da noi, tra noi e il mondo, e nella capacità che il progetto ha di evidenziare il senso stesso di tale continuità-distanza. Se quindi inizialmente abbiamo affermato che l’architettura deve innanzitutto rendere conto di se stessa, con uguale enfasi dobbiamo ora riconoscere che anche l’architetto, come uomo e individuo nella storia, deve rendere conto di se stesso. È questa una posizione abbastanza rara e impopolare, perché usualmente nella famiglia degli architetti le persone non vogliono rendere conto di se stesse. Ad esse piace render conto di qualcos’altro. E questo render conto di qualcos’altro è usualmente chiamato “oggettività”.

 

L’ immaginazione costruttiva

“Può sembrare non originale, ma è ancora vero che problemi e atteggiamenti intellettuali critici sorgono dallo stupore e dalla meraviglia”. È a partire da questa affermazione del filosofo Aldo Gargani che l’ autore vuole fissare nelle parole il senso di quell’atteggiamento creativo che il fare architettura assume come necessità della propria consapevole azione. Dopo una serie di considerazioni l’ autore afferma che, come nelle scienze fisiche e biologiche è entrata in crisi la preesistenza di un piano eterno o immanente, sovrastorico, che garantiva l’armonia del tutto verso un utopico obbiettivo di onniscienza, così nel mondo della conoscenza estetica e della creatività progettuale è entrata in crisi la concezione universalistica del soggetto creativo, assoluto produttore di immagini, di forme e di bellezza. È entrata in crisi l’idea trascendente della genialità creatrice, e con essa, è entrata in crisi l’idea di libertà creativa. Tutto ciò forse non potrà configurarsi come la costruzione di un’epistemologia dell’architettura (dell’abitare e del costruire), ma avrà raggiunto il suo scopo se sarà in grado di fornire una suggestione attiva per chi cerca, attraverso l’architettura, l’emozione della conoscenza.

   

Utopia e realtà della tecnica

La questione della tecnica è  la questione fondamentale del progetto, quella che alcuni indicano come il momento etico del fare architettura, perché attraverso di essa si può riportare il dibattito sull’architettura da una dimensione puramente speculativa alla sua reale natura, che sta proprio in quella unità di tekne e di poiesis, di poetica e del fare, quella unità di mestiere e di sperimentalismo, di coerenza tecnologica e di immaginazione costruttiva, che sola ci può guidare a riconoscere la verità di un edificio e dell’architettura. Oggi invece si travisa spesso su questo termine: attribuendo alla tecnica il significato di innovazione, tout cour, di ricerca di nuovi prodotti, e di materiali inusuali e inaspettati; considerando l’innovazione fine a se stessa e la ricerca esasperata del nuovo come unico fine della tecnologia. Oggi però l’ aspetto della questione tecnologica riguarda l’ economia: non ci sarebbe ricerca e innovazione tecnologica se non fosse motivata dal principio dell’economia degli sforzi e dalla migliore prestazione a parità di costi. Aldo Rossi affermava che nel lavoro si è sempre attenuto al mestiere, al principio disciplinare di ogni arte o tecnica che infine ha capito essere la stessa cosa. È una visione concisa e definitiva che ci rimanda a un’altra altrettanto limpida citazione di Mies van der Rohe: “La nostra vera speranza è che esse, l’architettura e la tecnologia, concrescano, in modo che un giorno l’una sia espressione dell’altra”.

 

IL colossale, il cantiere, la fabbrica

Vitruvio nel Libro I del “De Architettura”, dice: “L’architettura nasce dalla fabrica e dalla razionalizzazione di essa. La fabrica è il luogo della continua, insistita meditazione sui modi di operare; ossia essa è la pratica, che è manualità, ed è anche razionalizzazione, cioè il rendere ragione di qualunque genere di cose preposte alla forma dell’opera”. In questo passaggio dalla immaginazione alla realizzazione avviene un passaggio di scala, un salto anche percettivo, una trasformazione produttiva. L’ autore afferma, come disse Arturo Martini della scultura, che l’architettura è una lingua morta, proprio perché appare improponibile l’architetto come tecnicoartista che unifichi in sè una capacità prefiguratrice oltre alla conoscenza di tutte le necessarie tecniche costruttive, o dobbiamo piuttosto affermare che l’architettura ha cambiato di scala, assumendo una dimensione “colossale”, non solo nel senso quantitativo ma anche qualitativo. Un’immagine unificata del corpo umano in scala al vero è producibile conservando contemporaneamente sia la memoria del materiale sia quella dell’“unità” concettuale. Quando invece si passa alla scala colossale, dieci o venti volte la grandezza naturale, viene immediatamente richiesta una completa serie di operazioni strettamente materiali che tuttavia modificano sostanzialmente la produzione dell’opera rendendola non più opera di scultura ma opera architettonica e, appunto, colossale. Il colosso è immagine di un’immagine, è l’architettura dell’architettura, e in quanto tale è frammento di un’unità irreversibilmente dispersa: la totalizzante unitarietà del colosso non può essere ricomposta, la nostalgia del colossale sta nella sua frammentazione nella sua impossibile riunificazione. Come non è possibile riunificare l’idea di città, di famiglia, di patria, così nell’immagine del colosso si evidenzia l’immagine stessa dell’architettura, come l’immagine di un’idea e di una forma irrimediabilmente perduta.

   

Il mattone originario

Questo libro termina il suo corso nel riconoscere che la natura ha un ruolo primario anche in un’esperienza artistica  qual è quella dell’architettura, e la tecnologia stessa se vuole percorrere le strade dell’innovazione e della ricerca, non può trarre ispirazione più proficua di quella che viene posta sotto gli occhi degli uomini dalla struttura del mondo, dalla forma dell’universo, dalle cellule degli organismi viventi fino alle stellari geometrie delle galassie. Possiamo parlare di architettura della natura che non ha ricordo in quanto semplicemente esiste, ed è per tutti, senza gerarchie, come la vita stessa. L’architettura della natura non si evolve, non si può misurare in termini di altezza, lunghezza, larghezza; essa semplicemente è, agisce simultaneamente, e la sua creatività si trasforma e si adatta attraverso la nascita, la crescita, la morte e la coesistenza tra le diversità. Goethe cercava nella natura il principio della forma archetipa e originaria (Urform) che diventava il principio di tutta la materia organica, in conformità del quale ha luogo ogni possibile processo generativo, costruttivo e di crescita. “La natura – afferma J.W. von Goethe – non ha né centro né guscio, ma tutto si avvicenda. Guarda tu stesso e vedrai se puoi essere centro o guscio”. Inseguire la verità e la necessità di un tale “mattone archetipo” è allora l’obiettivo più alto su cui come architetti ci siamo cimentati, convinti come siamo che nell’osservazione della natura gli ideologismi linguistici e dialettici si annullano per definirsi in un unico atto di affermazione, in una dichiarazione di resistenza di fronte al vuoto incombente del nulla.

Architettura ad esempio

I progetti, afferma l’ autore,  nascono dalla messa a punto di un tema, un concept, capace di informare il progetto fin dall’inizio e di guidarne poi le scelte anche nelle fasi delle successive definizioni. Ciò che l’ autore vuole raccontarci è il fatto che l’architetto, inizia sempre la sua azione compositiva proprio da un’idea, da una sorta di immagine, per poi tradurla nel disegno e nella costruzione. Scriveva Aldo Rossi in un intervista del 1995 (Dialoghi di architettura, Alinea ed. Firenze 1995, pag. 116): “Senza un’idea di fondo non si può avanzare nell’architettura; penso altresì che questo discorso non sia valido solo per l’architettura: nemmeno nei migliori progetti aeronautici si va avanti senza un riferimento iniziale. La mia architettura nasce sempre e comunque da una visione generale. Questa prima immagine è quella che compare subito nei miei primi schizzi; difficilmente poi modifico sostanzialmente questa prima idea iniziale: da essa si sviluppa tutta la progettazione. Gli antichi narravano che Minerva nacque dalla testa di Giove già completamente armata: l’idea iniziale dei miei progetti contempla già la soluzione di molti problemi non solo di ordine funzionale e distributivo, ma anche di natura tecnologica e costruttiva.” Ecco, cosa sia questa idea iniziale su cui si innesta e da cui nasce il progetto di architettura è il vero compito che noi dobbiamo quotidianamente affrontare nel nostro lavoro, è la vera questione compositiva, quella che l’ autore stesso ha cercato di percorrere nella sua vicenda progettuale e di esprimere nelle pagine di questo libro, talvolta attribuendo un’interpretazione fin troppo personale ai riferimenti di Aldo Rossi.