BIBLIOTECA CONDIVISA   

> ELENCO LIBRI

 

 

 

Descrizione: 9788842098409.jpg

titolo

APOCALYPSE TOWN - Cronache della fine della civiltà urbana                               

 

editore

EDITORI LATERZA

 

luogo

BARI

 

anno

2012

 

 

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

 

 

Titolo originale: Alessandro Coppola, APOCALYPSE TOWN - Cronache della fine della civiltà urbana, Editori Laterza

 

 

 

Argomento e tematiche affrontate

Descrizione: 9788842098409.jpg

Il libro parla del collasso socio-economico di alcune città americane e dei loro tentativi di ripresa. Un viaggio dalle praterie urbane di Youngstown, dove l'amministrazione comunale si è ormai ridotta a pianificare con zelo l'autodistruzione della città, all'industria del riciclo e della decostruzione di Buffalo, in cui attivisti visionari smontano con dovizia e con amore ciò che resta della città; dai deserti alimentari di Detroit e Philadelphia, dove sono scomparsi negozi e supermercati e gli abitanti si organizzano con geniali intraprese agricole, agli esperimenti di Cleveland dove fra le macerie della città sta prendendo forma un nuovo paesaggio de-urbanizzato. Alessandro Coppola racconta territori e popolazioni di un'America che non conosciamo, storie di persone che inventano nuovi modi di vita, perché da quelle parti sono in molti «a credere che il trovarsi ai margini dei grandi flussi dell'economia globale non sia più il problema da risolvere, ma la grande occasione da non sprecare».

 

  

Giudizio Complessivo: 9 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Andrea Chiesa

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 3 a.a.2014/2015

 

Descrizione: coppola.jpg

Autore Alessandro Coppola

 

Alessandro Coppola svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, dove insegna presso la Scuola di Architettura e Società. È stato International Fellow in Urban Studies presso la Johns Hopkins University di Baltimora. Oltre che per riviste scientifiche e disciplinari, ha scritto per "il manifesto", "l'Unità", "Aspenia", "Rassegna Sindacale" e "Lo Straniero".

 

Alessandro Coppola

 

Contenuto

 

Il libro analizza il collasso socio economico di alcune città americane che, sviluppatesi e arricchitesi grazie a potenti industrie, hanno vissuto, con la chiusura delle fabbriche, l'inizio di un vero e proprio crollo finanziaro, seguito da un rapido spopolamento e dall'abbandono di interi quartieri cittadini. Uno scenario surreale, catastrofico, analizzato attraverso testimonianze e interviste a coloro che, in quelle città, vivono ancora e ancora sperano nella loro rinascita. Tanti tentativi di ripresa, alcuni con ottimi risultati, altri senza alcun beneficio tuttora visibile. Uno sguardo su un'America consumista che coscientemente lascia morire le sue città che non hanno più alcun valore nella sua vorace economia. La storia di città scintillanti oggi ridotte in monumentali depositi di materie prime, da riciclare e rileggere.

CAPITOLI

Capitolo 1 - L'agonia della città giovane

 

Case abbandonate , infestate da erba alta e piante rampicanti che ne soffocano i resti. Strade deserte e silenziose attraversate soltanto da qualche coniglio e cervo. Grattacieli vuoti che si stagliano in lontananza e sembrano sorgere da boschi cittadini. Non si tratta di uno scenario fantascientifico o un paesaggio post-atomico, quelle descritte sono le rovine della città di Yongstown, uno degli ex poli industriali ed economici della cosiddetta Rust Belt, la cintura della ruggine, un tempo Steel Belt, cintura dell'acciaio. La promessa dell'acciaio viene ormai da lontano, dal lontano 1802. Nel corso dell'800 la città sviluppò un colossale apparato industriale fino ad essere definita nel 1927 la capitale nazionale dell'acciaio: la " Ruhr d'America".

Insieme alle industrie cresceva la popolazione, insieme alla popolazione crescevano i quartieri residenziali, per molto tempo "universi" autosufficienti, multietnici e multirazziali. Negli anni Cinquanta però il benessere inizia a sgretolarsi e mentre i proventi dell'acciaio calano, la città si illude ancora con il nuovo piano regolatore di creare strade e nuovi quartieri per i futuri operai. Trascorrono due decenni, ma la popolazione a calare. Gli anni Settanta sono durissimi per l'industria dell'acciaio americana e il 19 Settembre del 1977 si giunge al Black Monday, il "lunedì nero" in cui una delle acciaierie più potenti della città annuncia la chiusura del suo stabilimento. E' solo uno dei tanti Black Mondays  che priveranno Youngstown del suo benessere industriale. Gli effetti della liquidazione sono così devastanti da utilizzare una nuova categoria interpretativa: la "Depressione regionale". Con la disoccupazione le famiglie abbandonano la città , mentre con il moltiplicarsi delle abitazioni vuote il mercato immobiliare precipita e gli incendi dolosi crescono. Gli anni novanta vedono crescere omicidi, crimine e corruzione politica. E così mentre i progetti di reindustrializzazione si dimostrano irrealistici, l'alternativa al totale collasso economico e demografico si presenta paradossalmente  dalla criminalità dilagante nella città. Fra il 1992 e il 1997 vengono costruite quattro nuovi prigioni e i giornali annunciano con sarcasmo che "le barre d'acciaio sono tornate a far parte dell'economia della valle". E così gli istituti di reclusione generano posti di lavoro e gettiti fiscali, ma il tutto a caro prezzo, rendendo la città "territorio d'elezione" e di sporchi affari di privatizzazione. Negli anni successivi le carceri crescono, ma il loro sovraffollamento e l'inesperienza del personale generano rivolte e omicidi. Gli incentivi pubblici e privati svaniscono così ancora una volta, ma le carceri rimangono nella città, infettandone il suburbio.  

Capitolo 2 - L'assassinio della città

 

Partendo dagli studi del Census Bureau  che calcola i movimenti migratori della popolazione americana l'autore analizza il cambiamento demografico e socio economico che ha portato alla morte di morte città americane del nord, come Youngstown.

Primo movimento:dalla Rust Belt alla Sun Belt

Nel corso del XX secolo l'America è diventata sempre più meridionale, sempre più occidentale, sempre più pacifica- spostando quindi il baricentro demografico, culturale e anche politco dalla Rust Belt verso la Sun Belt. Eppure l'egemonia del Nord era rimasta a lungo indiscussa. Attorno ad un core produttivo si sviluppava una grande fringe dipendente da essa. Ancora negli anni Quaranta nel core si addensava il potere scientifico, tecnologico ed industriale, mentre nel resto del paese, la fringe, appariva ancora un'urbanizzazione debolissima e un'economia in una condizione di oggettiva dipendenza da quella del Nord. Quattro decenni dopo, invece, le parti erano state ormai invertite; Mentre le città del vecchio Nord affonderanno riducendosi allo stato di campagne post-urbane, quelle della Sun Belt prenderanno il volo trasformando paesoni rurali in grandi metropoli, seppure di un tipo radicalmente nuovo. Quali le ragioni di tale fenomeno? Il clima mite, il basso costo della terra, la costruzione della rete autostradale  e lo sviluppo dei collegamenti aerei che hanno contribuito alla rottura dell'isolamento dell'America fringe. Oltre a questo bisogna considerare anche interventi statali, come i ruolo giocato dai lavori pubblici del New Deal al fine di rendere accessibili i vantaggi del Sud e dell'Ovest. A mutare sarà così la stessa geografia produttiva del paese.  Il vecchio cuore produttivo si deindustrializza, mentre nella Rust Belt si sviluppano imprese più leggere e flessibili. La classe operaia diviene la meglio pagata del mondo e anche la pressione fiscale risulta nettamente minore rispetto  le morenti città del Nord.

Secondo movimento: dall'Inner city al Suburbio

Dal dopoguerra in avanti saranno decine di milioni gli Americani pronti a rinunciare alla città. Prima ancora che l'America verso Sud e verso Ovest, gli abitanti delle sue città prendevano a migrare in massa verso il nuovo suburbio in costruzione. Nel 1970 l'America era già diventata una nazione suburbana. Questo secondo movimento, probabilmente ancor più importante del primo, ispirerà la cultura e le modalità di organizzazione dello spazio. Le storiche Inner City del vecchio core si pagheranno a pagare così un prezzo doppio: oltre al primo movimento che le stava uccidendo, dovranno cedere abitanti, attività economiche, gettiti fiscali ai loro suburbi in espansione, come in una crisi emorragica senza fine. A cambiare in modo drammatico sarà anche la loro composizione sociale, e ancor più quella raziale. Fino agli anni 60 la great- migration spingerà milioni di afro-americani verso le morenti città industriali del Nordest, che ben presto li lascerà disoccupati. L'avvicendamento di massa fra bianchi in fuga verso il suburbio e afroamericani in arrivo darà vita ad una prima ondata di città dette majority-minority.

Capitolo 3 - Eutanasia o resurrezione?

 

Dopo aver ascoltato promesse di resurrezione per quasi trent'anni da parte di politici corrotti o bugiardi, la cittadinanza di Youngstown capisce che l'unico metodo per uscire dalla crisi sia intervenire con le loro forze. Nel 2002, si da il via al nuovo piano strategico della città. Fra grandi assemblee cittadine e riunioni di vicinato, dal 2002 al 2005 più di 500 persone si ritrovano a partecipare, seppur in modo diverso all'elaborazione del piano. I principi partoriti da tanto lavoro saranno semplici: accettare la drastica riduzione della popolazione, arrendersi alla fine dell'acciaio, investire in nuove attività economiche innovative, migliorare la qualità della vita e allargare la partecipazione dei residenti. Il tutto per una Youngstown che si vuole cleaner and greener, più verde e più pulita. L' idea più potente è quella di sanare le ferite della città con la cura del cosiddetto Smart shrinkage, ossia una forma di decrescita programmata con abilità e intelligenza. Governare una grande città con pochi abitanti , soprattutto se irrazionalmente dispersi sul suo territorio, è paradossalmente più costoso di governare una città con molti abitanti. Questo perché una città che si restringe non si trasforma in campagna, ma rimane ancora dominata da una cultura urbana, che però è priva dei mezzi finanziari e organizzativi per soddisfarne i diritti. La gestione di questi quartieri rimane tuttavia un diritto irrealizzabile finanziariamente e questo comporterà in un futuro prossimo il declino inevitabile di tali zone. L'idea per una migliore gestione della città è quindi quella di ripopolare i pochi quartieri il cui numero di residenti è ancora tale da permetterne la sopravvivenza. lasciando che invece tutti gli altri siano restituiti alla natura. Ma come spostare i residenti dei quartieri condannati a quelli da salvare? La strada dell'abbandono programmato di intere aree della città rimane secondo molti politicamente irrealizzabile. Una possibile strada sembra essere quella di approvare iniziative che non vadano contro la direzione dettata dallo Smart shrinkage. Ma se la relocation, come si è dimostrato in questi anni, non funziona, le possibilità sembrano solo due:  quella di procedere con una sorta di terapia shock (la semplice interruzione dell'erogazione dei servizi) o quella della "semplice attesa". Se la prima sembra irrealizzabile per via dell'opposizione dei residenti, la seconda appare già in via di realizzazione per l'avvicendarsi delle generazioni e l'abbandono delle case da parte di coloro che ereditano una proprietà in un quartiere a minore densità. E così la recente bolla immobiliare che ha colpito pesantemente anche Youngstown ha dato il via a questa forma di autodistruzione  programmata, puntando tutto sulla demolizione. E così una parte crescente del bilancio della città è così dedicata alla sua efficiente autodistruzione. Nasce così il vuoto, un vuoto che tuttavia rappresenta una delle più promettenti riserve di creatività di cui dispone Youngstown. Le idee sono tante: da quella di creare orti urbani a quella di vere e proprie fattorie urbane, regalare i lotti vuoti a chi c vive accanto a quella di riconsegnare il territorio a quegli ecosistemi paludosi che un tempo dominavano gran parte della valle: stagni al posto di case.

 

Capitolo 4 - La città che riciclò se stessa

 

La capitale della decostruzione è Buffalo, un santuario della vecchia America industriale. La sua storia sembra l'incarnazione perfetta di un'epoca industriale ormai remota.  Quella in cui a fare la ricchezza della città erano acqua, acciaio, carbone. Nel 1881 qui, per la prima volta nel paese, arrivò l'illuminazione pubblica. Le fabbriche si espandevano e l'aristocrazia industriale investiva senza risparmio nella rappresentazione di sé; Così, nella Buffalo di oggi,fra quartieri dilaniati dall'abbandono resistono ancora capolavori dell'architettura. Tuttavia, questa bellezza non è bastata a salvare la città. Anche qui dagli anni Cinquanta il destino è stato senza scampo. La privazione dei molti flussi commerciali che la solcavano, il collasso economico, il white flight (la fuga dei bianchi) hanno fatto di Buffalo la seconda città più povera d'America, superata solo da Detroit. E' stata però la bellezza dell'architettura, resa ancor più struggente dal tappeto di rovine dal quale emerge, ad ispirare la nascita di Buffalo Reuse. Questa non si oppone alla distruzione di parte della città (anche a Buffalo le case costano pochissimo e quindi si demolisce), ma semplicemente propone una via più ecosostenibile alla distruzione. L'idea è semplice: demolire è uno spreco, demolire senza riciclare un crimine. Così si applica la decostruzione, vale a dire un processo complesso e minuzioso prima di smontaggio, poi di riciclo di quello che c'è da salvare. E così Buffalo è diventata un immenso giacimento di materiale riciclabile. Si arriva a riciclare fino al 50% di materiale per ogni abitazione, spogliata dei propri beni in cinque/sei settimane. Quello che si riesce a rimuover e è poi immesso nel mercato.

Capitolo 5 - Combattere lo "shrinkage"

 

Baltimore era una città di fumo. I suoi erano fumi manifatturieri ma ancor più portuali. Le merci arrivavano qui dall'Ohio e dall'Illinois e prendevano il largo verso il mercato mondiale. Tuttavia Baltimore è un porto senza mare e una baia lunghissima la separa dall'atlantico. Assieme ai fumi del porto infatti c'erano anche quelle delle fabbriche e durante la Seconda guerra mondiale la città era stata perfino onorata del sigillo di "arsenale della democrazia". Ma vinta la guerra e celebrata la vittoria, l'arsenale si è giorno dopo giorno trasformato in un cimitero. Fabbriche che chiudono, bianchi che scappano, rivolte razziali, esplosione del crimine, case abbandonate e povertà dilagante. Tuttavia qualcosa la rende profondamente diversa dalle altre città industriali al collasso: Baltimore non solo ha provato a risorgere, ma ci è riuscita. Tutto è incominciato alla fine degli anni Cinquanta; La città declina, negozi e grandi magazzini chiudono e i valori immobiliari precipitano. Mentre afroamericani avanzano, si fa un grande piano: uffici avveniristici, appartamenti per la classe media, una bretella autostradale e qualche attrazione culturale, segno di una città che vuole prendere le redini del proprio destino. Nel 1971, viene eletto un nuovo sindaco, mentre in città una serie di leader religiosi, accademici, uomini d'affari e politici promuovono una fiera cittadina. Nel 1973 la fiera viene realizzata nell'area portuale della città, o meglio quanto ne resta. I moli sono ormai ridotti a fantasmi di ciò che erano, eppure l'idea di organizzarvi la fiera ha un successo imprevisto: arrivano due milioni di visitatori e al sindaco viene un'idea:  fare della fiera l'economia della città, non per un giorno ma per tutto l'anno; Trasformare Baltimore in una festival city, per rincorrere il suo improbabile destino turistico e reinventarla in modo radicale. I giganti dell'industria immobiliare sbarcano quidni nella città e danno vita a padiglioni sull'acqua pieni di ristoranti, negozi e attrazioni. Il redevelopment  è più di un destino, diventa l'identità stessa di Baltimore, ciò che la tiene in vita. E la cura funziona, la fiera attira sempre più persone, il mercato immobiliare attorno alla baia impazzisce facendo aumentare di dieci volte il prezzo medio. Baltimore è quindi riuscita a vincere dove le altre hanno fallito? Il miracolo è compiuto, Baltimore ha una nuova economia, nuova occupazione, nuova immagine, eppure non vanno a Baltimore, ma si fermano nella parte fieristica, che dell'intera città è solo una piccola porzione, nulla più che una vetrina. Perché oltrepassando il confine, c'è la Baltimore di sempre.  La fiera funziona infatti come una sofisticata "maschera", come ogni maschera intrattiene e distrae ma se la maschera si rompe ad apparire sarà la faccia terribile della miseria di Baltimore. Una realtà urbana ormai scissa in modo violento e irreparabile. Perché oltre le attrazioni turistiche, la città vive nel pieno di un'emergenza sanitaria e sociale con circa il 10% dei residenti in condizioni di dipendenza da alcol e droghe, una incidenza doppia rispetto registrata a livello nazionale.

Capitolo 6 - Il ghetto ha fame, anzi mangia male

 

Com'è la vita nell'Inner city di una città in crisi? Nelle Inner City della Rust Belt non è facile vivere. Vivere in un "ghetto urbano" costa paradossalmente di più che vivere in un quartiere di classe media. Ancora una volta a imporsi sono i mondi alternativi: middle class da una parte e underclass dall'altra. Da una lato una famiglia abbiente che vive in un suburbio dove abbondano sportelli bancari e punti vendita, dall'altro una famiglia a basso reddito che vive ai confini della Inner city di una città in crisi, dove per molte banche e catene  non è conveniente essere presenti. Così , con il tempo,  dalle città in crisi sono scappati anche supermercati e istituti bancari. Questo succede perchè molti dei residenti Dell'Inner city, seppure vi fosse in giro qualche sportello non potrebbero usufruire ai suoi servizi. Così, un'operazione banale come incassare un assegno diventa costosissima spesso con tassi di interesse chiesti da check-cashers del 5%. Il presso aumenta anche per le assicurazioni a causa del territorial rating, un sistema che tiene conto del rischio territoriale nella definizione dei premi assicurativi. Inoltre anche le bollette energetiche risulteranno più alte per via delle case vecchie scarsamente isolate. Un insieme di fattori che generano una imprevista "tassa sulla povertà" : ingiusta, nascosta e difficile da aggirare. Insieme a questi problemi si legano quelli alimentari. Nei "ghetti urbani" infatti l'offerta rimane frammentata e senza qualità. Nel generoso mercato della miseria urbana prolificano infatti i grandi fast food che qui hanno tutto da guadagnare. Infatti chi vive nel ghetto e non ha la possibilità di raggiungere un supermercato di qualità a chilometri di distanza, è qui che si nutre. Ed è qui che nutre i suoi figli. Di frutta e verdura nessuna traccia, solo Mc Donald's che con pochi dollari riempiono lo stomaco ci chi vive il sogno americano come un incubo.

   

Capitolo 7 - La rinascita dell'agricoltura urbana

 

Quella di coltivare di creare orti urbani per sfamare la città è una delle più antiche idee americane. Seppure per ragioni diverse, nelle grandi metropoli americane si è sempre coltivato e sono sempre stati allevati animali. A metà del XIX secolo, New York produceva gran parte del latte che consumava e Detroit iniziava a sperimentare le prime coltivazioni urbane, che ne avrebbero ben presto resa una delle capitali mondiali.  Con la crisi del 1929, ancora una volta gli orti risponderanno del bisogno di dare un'occupazione a chi l'aveva persa e migliorarne l'alimentazione. Nel 1934, la Federal Emergency Relief Administration riportava la presenza di oltre un milione e ottocentomila orti. Numeri che erano  destinati a crescere con l'avvento dei victory gardens della Seconda guerra mondiale. Ciò nonostante, finita la guerra e tornata la prosperità, l'agricoltura urbana diventerà sempre più marginale. Nei suburbi degli anni Cinquanta e Sessanta infatti, la natura era solo un concetto, e la sua realtà doveva essere tenuta sotto stretto controllo. Ma questa cultura del distanziamento nei confronti del cibo era destinata a ridimensionarsi e paradossalmente, quelle stesse città svuotate e impoverite dall'ascesa del suburbio si riempiranno ben presto di orti e fattorie urbane. Se la campagna si urbanizzava, la città si ruralizzava. Con l'avvento della crisi urbana, nella città si scriverà una nuova pagina della grande tradizione americana del coltivare quello che si mangia, pur abitando ora nei quartieri meno affollati di grandi metropoli in declino. Il più chiaro esempio dell'evoluzione storica degli orti urbani è la città di New York dove l'agricoltura urbana sta conoscendo una nuova fase di crescita, soprattutto laddove la pressione del mercato immobiliare è minore e dove i segni della crisi degli anni Settanta sono ancora evidenti.

 

Capitolo 8 - Un nuovo metabolismo urbano

 

Oggi, l'agricoltura è invocata per curare molti mali: dall'epidemia dell'obesità e diabete al cronicizzarsi dei food  deserts, dalla crisi delle città della Rust Belt alla caduta dei valori immobiliari nei quartieri in declino.  Così si è sviluppata una vera e propria corsa alla riforma della normativa urbanistica, come ad esempio le città di Seattle, San Francisco, New York. E ci si aspetta  che un quadro normativo più favorevole, possa accelerarne ulteriormente la già forte crescita. L'agricoltura urbana è vista in settori crescenti dell'opinione pubblica come una delle principali linee d'offensiva contro lo strapotere dell'industria alimentare. Tra i molti studiosi che si sono dedicati a questo tema, Michael Pollan è divenuto il profeta di una rivoluzione alimentare. Prima di tutto, sostiene Pollan, l'attuale panorama alimentare non è l'esito del libero mercato, ma di decenni di incentivi diretti e indiretti da parte del governo federale affinché l'agricoltura utilizzasse sempre meno energia umana e solare e sempre più energia proveniente dai combustibili fossili. Certamente, su lungo periodo, i risultati sociali di una politica volta alla produzione di calorie a buon mercato sono imponenti. Sono invece gli esisti ambientali e sanitari a suggerire che una nuova rivoluzione agricola dovrebbe concentrarsi non solo sulla quantità, ma anche sulla qualità e varietà delle calorie che l'agricoltura americana produce.  Questo nuovo tipo agricoltura tuttavia è però complicato ed ha bisogno di molta più manodopera specializzata. E se i buoni posti di lavoro distrutti dal declino dell'industria ricomparissero nelle nuove campagne da coltivare post-petrolio?  E' questa  la domanda che si sono posti in molti nelle rovine della Rust Belt. Ma, mentre New York si è salvata  proprio grazie a questa nuova agricoltura, città come Cleveland o Detroit continuano a galleggiare nel mare di degrado e abbandono nel quale sono state abbandonate senza rendersi conto che le ricette di Pollan potrebbero essere sperimentate su vasta scala al fine di salvare il destino di città ormai apparentemente perdute. 

 

Capitolo 9 - Da un'utopia all'altra

 

Il decennio appena  trascorso è stato un altro decennio perduto per la Rust Belt. In alcuni casi, la perdita di posti di lavoro è stata disastrosa e la grande recessione che ha colpito l'economia americana degli ultimi anni, ha aggredito molte economie urbane sul versante immobiliare, lasciando dietro di sé nuove macerie. Tutto questo ha spinto molte amministrazione ad immaginare un modo diverso di  governare la crisi delle loro città. Pianificare il declino ne comprimerebbe i costi, oggi insostenibili. Oggi, in molte citt della Rust Belt, l'effetto più visibile dell'arrestarsi dello sviluppo è l'imporsi di un processo di de-urbanizzazione che produce una caduta verticale dei livelli di densità, edilizia e umana. Oggi il suburbio pare aver vinto su queste Inner City, non solo accerchiandole, ma anche disossandole dall'interno. Uno dei modelli che le amministrazioni comunali della Rust Belt intendono perseguire è proprio quella della loro de-urbanizzazione. Quello che è stato definito il New Suburbanism sta cambiando il volto di molte città. Una delle strade che l'amministrazioni stanno battendo è quella del "privatizzare" l'abbandono, dando la possibilità a chi rimane di appropriarsi della terra lasciata da altri. La de-urbanizzazione non è però la sola strada possibile. Alternativa alla strategia della dispersione è quella della densificazione programmata. Il modello più ricorrente per lo urban shrinkage è quello elaborato per la città di Berlino da urbanisti e architetti diretti da Oswald Ungers. "La riduzione demografica non può essere lasciata al caso" Con la loro idea di "città nella città" gli architetti non proponevano di "riparare la città" colmandone i vuoti, ma occorreva fare di Berlino in "arcipelago urbano". Lo sviluppo futuro della città dipendeva dall'utilizzo delle forze dello shrinkage. " la riduzione della popolazione di Berlino - scriveva Ungers - potrebbe offrire una straordinaria opportunità per trasformare quelle che non soddisfano più le domande sociali, tecniche e strutturali". Mentre la strategia della de-urbanizzazione sembra voler sciogliere le Inner City declinanti, quella della densificazione pare voler riaffermare il valore di un'urbanità perduta. Si è affermata tuttavia l'idea che le città della Rust Belt possano riconquistare il loro posto nel mondo offrendosi come modelli di sostenibilità ambientale e creatività sociale. Una visione di città che consumino il più possibile quanto producono e riutilizzino quanto consumano. E così la Rust Belt urbana diviene una nuova frontiera. Un territorio da ricolonizzare, per gettare i semi di una civiltà che faccia di un nuovo rapporto con il mondo naturale il migliore pretesto per una diversa relazione fra il genere umano.