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titolo |
APOCALYPSE TOWN - Cronache della fine della civiltà urbana |
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editore |
EDITORI LATERZA |
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luogo |
BARI |
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anno |
2012 |
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lingua |
ITALIANO |
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Titolo originale: Alessandro Coppola, APOCALYPSE TOWN - Cronache
della fine della civiltà urbana, Editori Laterza |
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Argomento e tematiche affrontate |
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Il libro parla del collasso socio-economico di alcune città
americane e dei loro tentativi di ripresa. Un viaggio dalle praterie urbane
di Youngstown, dove l'amministrazione comunale si è ormai ridotta a
pianificare con zelo l'autodistruzione della città, all'industria del riciclo
e della decostruzione di Buffalo, in cui attivisti visionari smontano con
dovizia e con amore ciò che resta della città; dai deserti alimentari di
Detroit e Philadelphia, dove sono scomparsi negozi e supermercati e gli
abitanti si organizzano con geniali intraprese agricole, agli esperimenti di
Cleveland dove fra le macerie della città sta prendendo forma un nuovo
paesaggio de-urbanizzato. Alessandro Coppola racconta territori e popolazioni
di un'America che non conosciamo, storie di persone che inventano nuovi modi
di vita, perché da quelle parti sono in molti «a credere che il trovarsi ai
margini dei grandi flussi dell'economia globale non sia più il problema da
risolvere, ma la grande occasione da non sprecare». |
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Giudizio
Complessivo: 9 (scala 1-10) |
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Scheda compilata da: Andrea Chiesa |
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Corso di Architettura e Composizione Architettonica 3
a.a.2014/2015 |
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Autore Alessandro Coppola |
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Alessandro Coppola svolge attività di ricerca presso il
Dipartimento di Architettura e Pianificazione del Politecnico di Milano, dove
insegna presso la Scuola di Architettura e Società. È stato International Fellow in Urban Studies presso
la Johns Hopkins University di Baltimora. Oltre che
per riviste scientifiche e disciplinari, ha scritto per "il
manifesto", "l'Unità", "Aspenia",
"Rassegna Sindacale" e "Lo Straniero". |
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Alessandro Coppola |
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Contenuto |
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Il libro analizza il collasso socio economico di alcune
città americane che, sviluppatesi e arricchitesi grazie a potenti industrie, hanno
vissuto, con la chiusura delle fabbriche, l'inizio di un vero e proprio
crollo finanziaro, seguito da un rapido spopolamento e dall'abbandono di
interi quartieri cittadini. Uno scenario surreale, catastrofico, analizzato
attraverso testimonianze e interviste a coloro che, in quelle città, vivono
ancora e ancora sperano nella loro rinascita. Tanti tentativi di ripresa,
alcuni con ottimi risultati, altri senza alcun beneficio tuttora visibile.
Uno sguardo su un'America consumista che coscientemente lascia morire le sue
città che non hanno più alcun valore nella sua vorace economia. La storia di
città scintillanti oggi ridotte in monumentali depositi di materie prime, da
riciclare e rileggere. |
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CAPITOLI |
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Capitolo 1 - L'agonia della città giovane |
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Case abbandonate , infestate da erba alta e piante
rampicanti che ne soffocano i resti. Strade deserte e silenziose attraversate
soltanto da qualche coniglio e cervo. Grattacieli vuoti che si stagliano in
lontananza e sembrano sorgere da boschi cittadini. Non si tratta di uno
scenario fantascientifico o un paesaggio post-atomico, quelle descritte sono
le rovine della città di Yongstown, uno degli ex
poli industriali ed economici della cosiddetta Rust Belt, la cintura della ruggine, un
tempo Steel Belt,
cintura dell'acciaio. La promessa dell'acciaio viene ormai da lontano, dal
lontano 1802. Nel corso dell'800 la città sviluppò un colossale apparato
industriale fino ad essere definita nel 1927 la capitale nazionale
dell'acciaio: la " Ruhr d'America". Insieme alle industrie cresceva la popolazione, insieme
alla popolazione crescevano i quartieri residenziali, per molto tempo
"universi" autosufficienti, multietnici e multirazziali. Negli anni
Cinquanta però il benessere inizia a sgretolarsi e mentre i proventi
dell'acciaio calano, la città si illude ancora con il nuovo piano regolatore
di creare strade e nuovi quartieri per i futuri operai. Trascorrono due
decenni, ma la popolazione a calare. Gli anni Settanta sono durissimi per
l'industria dell'acciaio americana e il 19 Settembre del 1977 si giunge al Black Monday,
il "lunedì nero" in cui una delle acciaierie più potenti della
città annuncia la chiusura del suo stabilimento. E' solo uno dei tanti Black Mondays che priveranno Youngstown del suo benessere
industriale. Gli effetti della liquidazione sono così devastanti da
utilizzare una nuova categoria interpretativa: la "Depressione
regionale". Con la disoccupazione le famiglie abbandonano la città ,
mentre con il moltiplicarsi delle abitazioni vuote il mercato immobiliare
precipita e gli incendi dolosi crescono. Gli anni novanta vedono crescere
omicidi, crimine e corruzione politica. E così mentre i progetti di
reindustrializzazione si dimostrano irrealistici, l'alternativa al totale
collasso economico e demografico si presenta paradossalmente dalla criminalità dilagante nella città.
Fra il 1992 e il 1997 vengono costruite quattro nuovi prigioni e i giornali
annunciano con sarcasmo che "le barre d'acciaio sono tornate a far parte
dell'economia della valle". E così gli istituti di reclusione generano
posti di lavoro e gettiti fiscali, ma il tutto a caro prezzo, rendendo la
città "territorio d'elezione" e di sporchi affari di
privatizzazione. Negli anni successivi le carceri crescono, ma il loro sovraffollamento
e l'inesperienza del personale generano rivolte e omicidi. Gli incentivi
pubblici e privati svaniscono così ancora una volta, ma le carceri rimangono
nella città, infettandone il suburbio. |
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Capitolo 2 -
L'assassinio della città |
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Partendo dagli studi del Census
Bureau che calcola i movimenti
migratori della popolazione americana l'autore analizza il cambiamento
demografico e socio economico che ha portato alla morte di morte città
americane del nord, come Youngstown. Primo movimento:dalla Rust Belt alla Sun Belt Nel corso del XX secolo l'America è diventata sempre più
meridionale, sempre più occidentale, sempre più pacifica- spostando quindi il baricentro demografico, culturale e
anche politco dalla Rust Belt verso la Sun Belt. Eppure l'egemonia del Nord era
rimasta a lungo indiscussa. Attorno ad un core produttivo si sviluppava una
grande fringe dipendente da essa. Ancora negli anni Quaranta nel core si addensava il potere
scientifico, tecnologico ed industriale, mentre nel resto del paese, la fringe, appariva ancora
un'urbanizzazione debolissima e un'economia in una condizione di oggettiva
dipendenza da quella del Nord. Quattro decenni dopo, invece, le parti erano
state ormai invertite; Mentre le città del vecchio Nord affonderanno
riducendosi allo stato di campagne post-urbane, quelle della Sun Belt
prenderanno il volo trasformando paesoni rurali in grandi metropoli, seppure
di un tipo radicalmente nuovo. Quali le ragioni di tale fenomeno? Il clima
mite, il basso costo della terra, la costruzione della rete autostradale e lo sviluppo dei collegamenti aerei che
hanno contribuito alla rottura dell'isolamento dell'America fringe. Oltre a
questo bisogna considerare anche interventi statali, come i ruolo giocato dai
lavori pubblici del New Deal al fine di rendere accessibili i vantaggi del
Sud e dell'Ovest. A mutare sarà così la stessa geografia produttiva del
paese. Il vecchio cuore produttivo si
deindustrializza, mentre nella Rust Belt si sviluppano imprese più leggere e flessibili. La
classe operaia diviene la meglio pagata del mondo e anche la pressione
fiscale risulta nettamente minore rispetto
le morenti città del Nord. Secondo movimento: dall'Inner city al Suburbio Dal dopoguerra in avanti saranno decine di milioni gli
Americani pronti a rinunciare alla città. Prima ancora che l'America verso
Sud e verso Ovest, gli abitanti delle sue città prendevano a migrare in massa
verso il nuovo suburbio in costruzione. Nel 1970 l'America era già diventata
una nazione suburbana. Questo secondo movimento, probabilmente ancor più
importante del primo, ispirerà la cultura e le modalità di organizzazione
dello spazio. Le storiche Inner City
del vecchio core si pagheranno a
pagare così un prezzo doppio: oltre al primo movimento che le stava uccidendo,
dovranno cedere abitanti, attività economiche, gettiti fiscali ai loro
suburbi in espansione, come in una crisi emorragica senza fine. A cambiare in
modo drammatico sarà anche la loro composizione sociale, e ancor più quella
raziale. Fino agli anni 60 la great- migration
spingerà milioni di afro-americani verso le morenti città industriali del
Nordest, che ben presto li lascerà disoccupati. L'avvicendamento di massa fra
bianchi in fuga verso il suburbio e afroamericani in arrivo darà vita ad una
prima ondata di città dette majority-minority. |
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Capitolo 3 -
Eutanasia o resurrezione? |
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Dopo aver ascoltato promesse di resurrezione per quasi
trent'anni da parte di politici corrotti o bugiardi, la cittadinanza di Youngstown
capisce che l'unico metodo per uscire dalla crisi sia intervenire con le loro
forze. Nel 2002, si da il via al nuovo piano strategico della città. Fra
grandi assemblee cittadine e riunioni di vicinato, dal 2002 al 2005 più di
500 persone si ritrovano a partecipare, seppur in modo diverso
all'elaborazione del piano. I principi partoriti da tanto lavoro saranno
semplici: accettare la drastica riduzione della popolazione, arrendersi alla
fine dell'acciaio, investire in nuove attività economiche innovative,
migliorare la qualità della vita e allargare la partecipazione dei residenti.
Il tutto per una Youngstown che si vuole cleaner and greener, più verde e più pulita.
L' idea più potente è quella di sanare le ferite della città con la cura del
cosiddetto Smart shrinkage,
ossia una forma di decrescita programmata con abilità e intelligenza.
Governare una grande città con pochi abitanti , soprattutto se
irrazionalmente dispersi sul suo territorio, è paradossalmente più costoso di
governare una città con molti abitanti. Questo perché una città che si
restringe non si trasforma in campagna, ma rimane ancora dominata da una
cultura urbana, che però è priva dei mezzi finanziari e organizzativi per
soddisfarne i diritti. La gestione di questi quartieri rimane tuttavia un
diritto irrealizzabile finanziariamente e questo comporterà in un futuro
prossimo il declino inevitabile di tali zone. L'idea per una migliore
gestione della città è quindi quella di ripopolare i pochi quartieri il cui
numero di residenti è ancora tale da permetterne la sopravvivenza. lasciando
che invece tutti gli altri siano restituiti alla natura. Ma come spostare i
residenti dei quartieri condannati a quelli da salvare? La strada
dell'abbandono programmato di intere aree della città rimane secondo molti
politicamente irrealizzabile. Una possibile strada sembra essere quella di
approvare iniziative che non vadano contro la direzione dettata dallo Smart shrinkage.
Ma se la relocation, come si è dimostrato in
questi anni, non funziona, le possibilità sembrano solo due: quella di procedere con una sorta di
terapia shock (la semplice interruzione dell'erogazione dei servizi) o quella
della "semplice attesa". Se la prima sembra irrealizzabile per via
dell'opposizione dei residenti, la seconda appare già in via di realizzazione
per l'avvicendarsi delle generazioni e l'abbandono delle case da parte di
coloro che ereditano una proprietà in un quartiere a minore densità. E così
la recente bolla immobiliare che ha colpito pesantemente anche Youngstown ha
dato il via a questa forma di autodistruzione
programmata, puntando tutto sulla demolizione. E così una parte
crescente del bilancio della città è così dedicata alla sua efficiente
autodistruzione. Nasce così il vuoto, un vuoto che tuttavia rappresenta una
delle più promettenti riserve di creatività di cui dispone Youngstown. Le
idee sono tante: da quella di creare orti urbani a quella di vere e proprie
fattorie urbane, regalare i lotti vuoti a chi c vive accanto a quella di
riconsegnare il territorio a quegli ecosistemi paludosi che un tempo
dominavano gran parte della valle: stagni al posto di case. |
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Capitolo 4 -
La città che riciclò se stessa |
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La
capitale della decostruzione è Buffalo, un santuario della vecchia America industriale.
La sua storia sembra l'incarnazione perfetta di un'epoca industriale ormai
remota. Quella in cui a fare la
ricchezza della città erano acqua, acciaio, carbone. Nel 1881 qui, per la
prima volta nel paese, arrivò l'illuminazione pubblica. Le fabbriche si
espandevano e l'aristocrazia industriale investiva senza risparmio nella
rappresentazione di sé; Così, nella Buffalo di oggi,fra quartieri dilaniati
dall'abbandono resistono ancora capolavori dell'architettura. Tuttavia,
questa bellezza non è bastata a salvare la città. Anche qui dagli anni
Cinquanta il destino è stato senza scampo. La privazione dei molti flussi
commerciali che la solcavano, il collasso economico, il white flight (la fuga dei bianchi) hanno
fatto di Buffalo la seconda città più povera d'America, superata solo da
Detroit. E' stata però la bellezza dell'architettura, resa ancor più
struggente dal tappeto di rovine dal quale emerge, ad ispirare la nascita di
Buffalo Reuse. Questa non si oppone alla
distruzione di parte della città (anche a Buffalo le case costano pochissimo
e quindi si demolisce), ma semplicemente propone una via più ecosostenibile
alla distruzione. L'idea è semplice: demolire è uno spreco, demolire senza
riciclare un crimine. Così si applica la decostruzione, vale a dire un
processo complesso e minuzioso prima di smontaggio, poi di riciclo di quello
che c'è da salvare. E così Buffalo è diventata un immenso giacimento di
materiale riciclabile. Si arriva a riciclare fino al 50% di materiale per
ogni abitazione, spogliata dei propri beni in cinque/sei settimane. Quello
che si riesce a rimuover e è poi immesso nel mercato. |
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Capitolo 5 -
Combattere lo "shrinkage" |
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Baltimore era una città di fumo. I suoi erano fumi manifatturieri
ma ancor più portuali. Le merci arrivavano qui dall'Ohio e dall'Illinois e
prendevano il largo verso il mercato mondiale. Tuttavia Baltimore è un porto
senza mare e una baia lunghissima la separa dall'atlantico. Assieme ai fumi
del porto infatti c'erano anche quelle delle fabbriche e durante la Seconda
guerra mondiale la città era stata perfino onorata del sigillo di
"arsenale della democrazia". Ma vinta la guerra e celebrata la
vittoria, l'arsenale si è giorno dopo giorno trasformato in un cimitero.
Fabbriche che chiudono, bianchi che scappano, rivolte razziali, esplosione
del crimine, case abbandonate e povertà dilagante. Tuttavia qualcosa la rende
profondamente diversa dalle altre città industriali al collasso: Baltimore
non solo ha provato a risorgere, ma ci è riuscita. Tutto è incominciato alla
fine degli anni Cinquanta; La città declina, negozi e grandi magazzini
chiudono e i valori immobiliari precipitano. Mentre afroamericani avanzano,
si fa un grande piano: uffici avveniristici, appartamenti per la classe
media, una bretella autostradale e qualche attrazione culturale, segno di una
città che vuole prendere le redini del proprio destino. Nel 1971, viene
eletto un nuovo sindaco, mentre in città una serie di leader religiosi,
accademici, uomini d'affari e politici promuovono una fiera cittadina. Nel
1973 la fiera viene realizzata nell'area portuale della città, o meglio
quanto ne resta. I moli sono ormai ridotti a fantasmi di ciò che erano,
eppure l'idea di organizzarvi la fiera ha un successo imprevisto: arrivano
due milioni di visitatori e al sindaco viene un'idea: fare della fiera l'economia della città,
non per un giorno ma per tutto l'anno; Trasformare Baltimore in una festival city, per rincorrere il suo
improbabile destino turistico e reinventarla in modo radicale. I giganti
dell'industria immobiliare sbarcano quidni nella
città e danno vita a padiglioni sull'acqua pieni di ristoranti, negozi e
attrazioni. Il redevelopment è più di un destino, diventa l'identità
stessa di Baltimore, ciò che la tiene in vita. E la cura funziona, la fiera
attira sempre più persone, il mercato immobiliare attorno alla baia
impazzisce facendo aumentare di dieci volte il prezzo medio. Baltimore è
quindi riuscita a vincere dove le altre hanno fallito? Il miracolo è
compiuto, Baltimore ha una nuova economia, nuova occupazione, nuova immagine,
eppure non vanno a Baltimore, ma si fermano nella parte fieristica, che
dell'intera città è solo una piccola porzione, nulla più che una vetrina.
Perché oltrepassando il confine, c'è la Baltimore di sempre. La fiera funziona infatti come una
sofisticata "maschera", come ogni maschera intrattiene e distrae ma
se la maschera si rompe ad apparire sarà la faccia terribile della miseria di
Baltimore. Una realtà urbana ormai scissa in modo violento e irreparabile.
Perché oltre le attrazioni turistiche, la città vive nel pieno di
un'emergenza sanitaria e sociale con circa il 10% dei residenti in condizioni
di dipendenza da alcol e droghe, una incidenza doppia rispetto registrata a
livello nazionale. |
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Capitolo 6 - Il ghetto ha fame, anzi mangia male |
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Com'è la vita nell'Inner city di una città in crisi? Nelle
Inner City della Rust Belt
non è facile vivere. Vivere in un "ghetto urbano" costa
paradossalmente di più che vivere in un quartiere di classe media. Ancora una
volta a imporsi sono i mondi alternativi: middle class
da una parte e underclass dall'altra. Da una lato una famiglia abbiente che
vive in un suburbio dove abbondano sportelli bancari e punti vendita,
dall'altro una famiglia a basso reddito che vive ai confini della Inner city
di una città in crisi, dove per molte banche e catene non è conveniente essere presenti. Così ,
con il tempo, dalle città in crisi
sono scappati anche supermercati e istituti bancari. Questo succede perchè molti dei residenti Dell'Inner city, seppure vi
fosse in giro qualche sportello non potrebbero usufruire ai suoi servizi.
Così, un'operazione banale come incassare un assegno diventa costosissima
spesso con tassi di interesse chiesti da check-cashers del 5%. Il presso
aumenta anche per le assicurazioni a causa del territorial rating, un sistema che tiene conto del rischio territoriale
nella definizione dei premi assicurativi. Inoltre anche le bollette
energetiche risulteranno più alte per via delle case vecchie scarsamente
isolate. Un insieme di fattori che generano una imprevista "tassa sulla
povertà" : ingiusta, nascosta e difficile da aggirare. Insieme a questi
problemi si legano quelli alimentari. Nei "ghetti urbani" infatti
l'offerta rimane frammentata e senza qualità. Nel generoso mercato della
miseria urbana prolificano infatti i grandi fast food
che qui hanno tutto da guadagnare. Infatti chi vive nel ghetto e non ha la
possibilità di raggiungere un supermercato di qualità a chilometri di
distanza, è qui che si nutre. Ed è qui che nutre i suoi figli. Di frutta e
verdura nessuna traccia, solo Mc Donald's che con
pochi dollari riempiono lo stomaco ci chi vive il sogno americano come un
incubo. |
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Capitolo 7 -
La rinascita dell'agricoltura urbana |
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Quella di coltivare di creare orti urbani per sfamare la
città è una delle più antiche idee americane. Seppure per ragioni diverse,
nelle grandi metropoli americane si è sempre coltivato e sono sempre stati
allevati animali. A metà del XIX secolo, New York produceva gran parte del
latte che consumava e Detroit iniziava a sperimentare le prime coltivazioni
urbane, che ne avrebbero ben presto resa una delle capitali mondiali. Con la crisi del 1929, ancora una volta gli
orti risponderanno del bisogno di dare un'occupazione a chi l'aveva persa e
migliorarne l'alimentazione. Nel 1934, la Federal Emergency Relief Administration riportava la presenza di oltre un
milione e ottocentomila orti. Numeri che erano destinati a crescere con l'avvento dei victory gardens
della Seconda guerra mondiale. Ciò nonostante, finita la guerra e tornata la
prosperità, l'agricoltura urbana diventerà sempre più marginale. Nei suburbi
degli anni Cinquanta e Sessanta infatti, la natura era solo un concetto, e la
sua realtà doveva essere tenuta sotto stretto controllo. Ma questa cultura
del distanziamento nei confronti del cibo era destinata a ridimensionarsi e
paradossalmente, quelle stesse città svuotate e impoverite dall'ascesa del
suburbio si riempiranno ben presto di orti e fattorie urbane. Se la campagna
si urbanizzava, la città si ruralizzava. Con l'avvento della crisi urbana,
nella città si scriverà una nuova pagina della grande tradizione americana
del coltivare quello che si mangia, pur abitando ora nei quartieri meno
affollati di grandi metropoli in declino. Il più chiaro esempio
dell'evoluzione storica degli orti urbani è la città di New York dove
l'agricoltura urbana sta conoscendo una nuova fase di crescita, soprattutto
laddove la pressione del mercato immobiliare è minore e dove i segni della
crisi degli anni Settanta sono ancora evidenti. |
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Capitolo 8 -
Un nuovo metabolismo urbano |
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Oggi, l'agricoltura
è invocata per curare molti mali: dall'epidemia dell'obesità e diabete al cronicizzarsi
dei food deserts, dalla crisi delle città della Rust Belt alla caduta dei
valori immobiliari nei quartieri in declino.
Così si è sviluppata una vera e propria corsa alla riforma della
normativa urbanistica, come ad esempio le città di Seattle, San Francisco,
New York. E ci si aspetta che un
quadro normativo più favorevole, possa accelerarne ulteriormente la già forte
crescita. L'agricoltura urbana è vista in settori crescenti dell'opinione
pubblica come una delle principali linee d'offensiva contro lo strapotere
dell'industria alimentare. Tra i molti studiosi che si sono dedicati a questo
tema, Michael Pollan è divenuto il profeta di una
rivoluzione alimentare. Prima di tutto, sostiene Pollan,
l'attuale panorama alimentare non è l'esito del libero mercato, ma di decenni
di incentivi diretti e indiretti da parte del governo federale affinché
l'agricoltura utilizzasse sempre meno energia umana e solare e sempre più
energia proveniente dai combustibili fossili. Certamente, su lungo periodo, i
risultati sociali di una politica volta alla produzione di calorie a buon
mercato sono imponenti. Sono invece gli esisti ambientali e sanitari a
suggerire che una nuova rivoluzione agricola dovrebbe concentrarsi non solo
sulla quantità, ma anche sulla qualità e varietà delle calorie che
l'agricoltura americana produce.
Questo nuovo tipo agricoltura tuttavia è però complicato ed ha bisogno
di molta più manodopera specializzata. E se i buoni posti di lavoro distrutti
dal declino dell'industria ricomparissero nelle nuove campagne da coltivare
post-petrolio? E' questa la domanda che si sono posti in molti nelle
rovine della Rust Belt.
Ma, mentre New York si è salvata
proprio grazie a questa nuova agricoltura, città come Cleveland o
Detroit continuano a galleggiare nel mare di degrado e abbandono nel quale
sono state abbandonate senza rendersi conto che le ricette di Pollan potrebbero essere sperimentate su vasta scala al
fine di salvare il destino di città ormai apparentemente perdute. |
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Capitolo 9 -
Da un'utopia all'altra |
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Il decennio
appena trascorso è stato un altro
decennio perduto per la Rust Belt.
In alcuni casi, la perdita di posti di lavoro è stata disastrosa e la grande
recessione che ha colpito l'economia americana degli ultimi anni, ha aggredito
molte economie urbane sul versante immobiliare, lasciando dietro di sé nuove
macerie. Tutto questo ha spinto molte amministrazione ad immaginare un modo
diverso di governare la crisi delle
loro città. Pianificare il declino ne comprimerebbe i costi, oggi
insostenibili. Oggi, in molte citt della Rust Belt, l'effetto più
visibile dell'arrestarsi dello sviluppo è l'imporsi di un processo di
de-urbanizzazione che produce una caduta verticale dei livelli di densità,
edilizia e umana. Oggi il suburbio pare aver vinto su queste Inner City, non
solo accerchiandole, ma anche disossandole dall'interno. Uno dei modelli che
le amministrazioni comunali della Rust Belt intendono perseguire è proprio quella della loro
de-urbanizzazione. Quello che è stato definito il New Suburbanism sta cambiando il volto
di molte città. Una delle strade che l'amministrazioni stanno battendo è
quella del "privatizzare" l'abbandono, dando la possibilità a chi
rimane di appropriarsi della terra lasciata da altri. La de-urbanizzazione
non è però la sola strada possibile. Alternativa alla strategia della
dispersione è quella della densificazione
programmata. Il modello più ricorrente per lo urban
shrinkage è quello elaborato per la città di
Berlino da urbanisti e architetti diretti da Oswald Ungers.
"La riduzione demografica non può essere lasciata al caso" Con la
loro idea di "città nella città" gli architetti non proponevano di
"riparare la città" colmandone i vuoti, ma occorreva fare di
Berlino in "arcipelago urbano". Lo sviluppo futuro della città
dipendeva dall'utilizzo delle forze dello shrinkage.
" la riduzione della popolazione di Berlino - scriveva Ungers - potrebbe offrire una straordinaria opportunità
per trasformare quelle che non soddisfano più le domande sociali, tecniche e
strutturali". Mentre la strategia della de-urbanizzazione sembra voler
sciogliere le Inner City declinanti, quella della densificazione
pare voler riaffermare il valore di un'urbanità perduta. Si è affermata
tuttavia l'idea che le città della Rust Belt possano riconquistare il loro posto nel mondo
offrendosi come modelli di sostenibilità ambientale e creatività sociale. Una
visione di città che consumino il più possibile quanto producono e
riutilizzino quanto consumano. E così la Rust Belt urbana diviene una nuova frontiera. Un territorio da
ricolonizzare, per gettare i semi di una civiltà
che faccia di un nuovo rapporto con il mondo naturale il migliore pretesto
per una diversa relazione fra il genere umano. |