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autore

 

CHIARA TOSCANI

titolo

LE FORME DEL VUOTO SPAZI DI TRANSIZIONE DALL’ARCHITETTURA AL PAESAGGIO

editore

MAGGIOLI EDITORE

luogo

SANT’ARCANGELO DI ROMAGNA

anno

2011

 

 

Lingua

 

ITALIANO

 

 

 

 

 

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INTRODUZIONE

Chiara Toscani parla delle “forme del vuoto”, relative alla scala urbana e del paesaggio, le quali permettono di osservare e sperimentare i meccanismi di connessione tra gli oggetti architettonici. La ricerca dell’autrice deriva dalla volontà di analisi sulle figure dello spazio aperto come forma del vuoto, costruito con i volumi architettonici.

Le forme del vuoto contemporaneo includono sia forme spaziali, sia forme che mediano tra il vuoto della città storica e quello continuo del moderno per giungere alla struttura figurale (struttura spaziale).

L’autrice sintetizza le figure spaziali in: ordine figurativo e figurale. Allo stesso tempo individua due modalità principali di relazione dello spazio: ornamentali (spazio-limite, il vuoto blocca la forma artistica e ne definisce i contorni), e plastiche (spazio-ambiente, la forma è libera di esprimersi e forma con il vuoto un sistema dinamico “dimensione nuova, un sistema per sintesi mobili”).

Chiara Toscani cita H. Focillon per spiegare due figure dello spazio. Vuoto-Figura (uffizi – Firenze), “qui la figura generata dello spazio è primaria e rappresenta un elemento attivo della struttura urbana”. La composizione è inclusiva rispetto al tessuto circostante, e rispetto al paesaggio urbano avviene mediante estensione della stessa. Vuoto-Sfondo (Saint-Diè – Le Corbusier), “la continuità della superficie omogenea è prevalente e genera il perfetto sfondo per rivelare la discontinuità e l’isolamento delle singole architetture, che costruiscono un sistema complesso autoreferenziale di corrispondenze geometriche”. Entrambe fanno parte dell’ordine figurativo ed entrambe sono riconducibili allo spazio-limite di H. Focillon.

Il moderno con le correnti neoplastica, costruttivista e futurista hanno tentato di rompere con la staticità di cui parla H. Focillon. Prova di ciò la descrizione che H. F. da dello spazio-ambiente: “favorisce la dispersione dei volumi, il gioco dei vuoti”. Con l’introduzione del vuoto-costruito (figurativo), si introduce un nuovo elemento: la definizione di una superficie costruita che pone l’attenzione sulla materialità del piano. Possiamo poi trovare piano-superficie e piano-abitabile che annullano la dimensione verticale e si propongono come recenti. Ciò dimostra un’attenzione per il vuoto. Vuoto figurale viene definito come il rapporto tra figura e sfondo, quando ci sia un incastro delle singole condizioni e attraverso di esso si possono elaborare composizioni della forma dello spazio. Citando C. Rowe, si offre la conferma di quanto detto attraverso pochè (dispositivo spaziale capace di “coinvolgere, o essere coinvolto dai vuoti adiacenti, di fungere tanto da vuoto quanto da pieno, a seconda delle circostanze”. Infatti il rapporto tra interno/esterno definisce quello tra vuoto/pieno alla scala architettonica, il contorno non è più solo l’involucro il limite separatore che definisce questo rapporto, ma anche il volume o la spazio di connessione.

 

Giudizio Complessivo: 8

Scheda compilata da: Luca Ferrari

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

 

  

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AUTORE

 

Svolge attività di ricerca presso il POLIMI (politecnico di Milano).

Chiara Toscani

 

CAPITOLI

CAPITOLO 2: Le forme del vuoto come strutture spaziali fondative

2.1 Accezione Semantica del termine vuoto

Vuoto, in fisica, indica lo spazio non occupato da materia”, i cui sinonimi sono: intervallo, interstizio, libero, vacante. Spazio e vuoto risultano troppo generici e quindi per descriverne il significato c’è da associarlo a un termine che ne esprima la valenza come “concrezione architettonica”. M. Zardini, nel testo Paesaggi o Ibridi, suggerisce: “La parola vuoto sottolinea l’elemento in sé, isolandolo dal fitto sistema di relazioni a cui è inserito e ne cancella le caratteristiche e le specificità. E’ opportuno sostituire la parola “vuoto” con la parola interstizio o intervallo, con tale termine non indichiamo più il vuoto, ma il vuoto tra le cose o dentro le cose. Un interstizio è uno spazio non isolabile in se stesso: esso acquista un significato proprio per il suo essere intervallo tra elementi diversi, da cui deriva le sue qualità”. L’autrice ritiene più opportuno riferirsi al termine “interspazio”, luogo di concretizzazione dei rapporti intrinseci al tessuto urbano, definiti non solo nella vicinanza dei solidi costruiti, o come tensione di linee di forza, bensì come spazio, dove le potenzialità non si fermano alla scala architettonica, ma si costituiscono al massimo grado in relazioni più ampie dalla scala urbana a quella del paesaggio. Questo termine inoltre esclude la coincidenza semantica tra spazio aperto e luogo pubblico.

2.2 Accezione matematico-filosofica: le differenti densità del vuoto

Chiara Toscani spiega che il vuoto si raffronta anche con la matematica e la filosofia, ne ampia quindi la definizione, come sintesi di queste contaminazioni. Il tutto è riassumibile in alcuni passaggi storici rilevanti.

Il primo rappresentata dalla definizione di vuoto da parte di R. Descortes: definita come spazio sostanza, oggetto denso che può assumere una forma positiva, strutturante e fondativa, rispetto al solido, anche se matericamente meno evidente, ma di pari proprietà estensiva. Definizione che diventa la prima accezione utile all’attribuzione dello spazio aperto come strutturante e dominante, come figura che ordina lo spazio circostante.

Il secondo lo si spiega con le teorie di I. Newton, nelle quali la nozione di spazio subisce un’alterazione, non solo con l’introduzione del concetto di spazio assoluto e relativo (Cartesiano), ma con il ribaltamento stesso dell’idea di vuoto, cioè l’inammissibilità fisica del plenum (spazio-sostanza cartesiano), uno spazio completamente pieno opporrebbe al movimento una resistenza talmente forte da renderlo praticamente impossibile.

Il terzo riguarda gli studi di A. Einstein. Il campo tensione di energia, prende posto alla materia, a pari del rapporto tra soggetto e oggetto, la differenza tra forme e vuoto scompare, perché “non esistendo più alcun elemento distintivo, delimitante fra una particella e l’altra, ma tutte essendo in un fluido, tendono a comunicarsi e interconnettersi e sovrapporsi (…). Il vuoto per i fisici non c’è: il vuoto e il nulla sono il campo quantistico dentro il quale tutto si genera e si distrugge. Si hanno continuamente queste emergenze e dissoluzioni”. In questa dissoluzione, il vuoto tende ad allontanarsi dal non-essere e a coincidere ancora di più con “il magnifico nulla degli orientali, che è in qualche modo la genesi, l’origine del tutto. Ebbene, per i fisici il vuoto è un po’ questo magnifico nulla perché per essi il vuoto è lo stesso campo quantistico; quel campo in cui le particelle si generano, come emergenze e poi rientrano, dissolvendosi, in esso. Allora, evidentemente, una cosa, la forma, non è che il complementare del vuoto, il vuoto non è che il complementare della forma, e tutto questo in una interconnessione continua, in mutamenti continui ed incessanti, inarrestabili”.

2.3 Accezione filosofica: spazio e luogo

L’indagine filosofica di M. Heidegger risulta la migliore. Lo spazio può essere spiegato tramite due definizioni, di differenti approcci. Il primo: contenitore aprioristico, in cui gli oggetti sono posti; un vuoto che precede le cose, e che fa riferimento principalmente all’assunto cartesiano e dove i valori dimensionali e temporali sono determinati a priori. Il secondo fa riferimento ad un approccio esperito dello spazio, in cui non si considerano solo caratteri di posizione dimensionali e geometrici, ma anche altri come il punto di vista dell’osservatore.

Identificare lo spazio è comunque difficile, così come comprenderne l’entità. Heidegger ci viene incontro con: “nella parola spazio parla il fare – o lasciare – spazio”. Vuol dire dare due valenze al “vuoto”: la prima di azione compositiva, cioè riferendolo all’attività architettonica. La seconda di spazialità vuota, in cui il termine viene considerato con un’entità apprezzabile, come una matrice stessa della composizione.

E’ lo spazio vero ad assegnare la misura, quello che disvela il suo proprio essere-proprio”.

Il fare spazio non è solo creare uno spazio delimitato e controllato, ma un luogo che svela la capacità dell’uomo di essere abitante. Heidegger lega lo spazio al luogo, dando a questo un’importante ruolo. Lo spazio non è un mero dato tecnico-scientifico, in un vuoto da saturare o riempire secondo una disposizione illimitata, bensì “è il disporre e accordare le cose tra loro e in relazione all’abitare: nel luogo che il fare spazio dona, le cose si raccolgono nel loro reciproco co-appartenersi. Il proprio del luogo è questa raccolta. Se nel termine spazio risuona il fare-spazio  instaurare luoghi – nel termine luogo parla il disporre-accordare le cose. Queste cose non appartengono a un luogo, ma sono esse stesse il luogo”. Il vuoto è quindi un luogo di relazione, costruito come luogo dell’abitare del percorrere, elemento catalizzatore, caricato di valori condivisi che oltrepassano l’aspetto compositivo. L’autrice pone qui l’attenzione sulla relazione tra luogo e contrada definita come: “il lasciare, l’abbandono di sé come lasciarsi condurre a ciò che non è un volere l’altro da se stesso, è l’aperto dell’essere che la contrada, la permanenza nella vastità dell’essere, raccoglie sebbene  nulla avvenga, ogni cosa nel suo rapporto ad ogni altra, facendola permanere nell’acquietarsi di se stessa”.

Al concetto di luogo, risultato del fare spazio, è legata una serie di relazioni, ed è lo spazio tra queste ad averle create. Il vuoto è quindi fondamentale perché definisce il luogo e accoglie il tutto e lo disvela in parti. La “raccolta di cose” è la molteplicità della realtà, la contrada è la dimensione paesaggistica e territoriale, che si definisce proprio grazie al vuoto; come dice Heidegger. Il fare spazio è quindi indotto dalla presenza del rapporto tra pieno e vuoto, un fuori da un dentro, un luogo che grazie al percorrere del soggetto non si distingue più come “proprio” rispetto ad un “luogo comune” ma fa riferimento all’inseparabilità con “l’orizzontalità spaziale”.

2.4 Accezione architettonica: rapporto figura/sfondo

2.4.1 il contorno come dispositivo di soglia nella costituzione del rapporto pieno/vuoto

Oltre alle accezioni già descritte, importanza assume la parola: forma. Utilizzata per indicare la struttura intrinseca dello spazio in relazione all’architettura. Con l’introduzione della “forma”, il vuoto può essere definito con minor difficoltà: il contorno, come limite tra la condizione vuota e quella solida. Il contorno, può essere definito come dispositivo spaziale di soglia, “intervallo conteso tra opposto fronti” o tra più piani. Inteso come limite, il contorno, è una struttura “bidimensionale”. È il limite che definisce un luogo finito nel quale le cose si riconoscono e costruiscono relazioni. Permette anche il transito, attraverso la sua apertura. Determina le modalità di transizione dimensionale delle forme del vuoto. Inoltre il contorno non è reso instabile dall’intervallo che si configura come una pausa a sé stante. L’intervallo rende possibile il passaggio da un luogo ad un altro, in modo sia fisico che astratto. Se consideriamo il contorno, nelle modalità sopra elencate, come un vuoto gerarchizzato dagli elementi architettonico, meno immediato ci è riconoscere il vuoto quando diventa sfondo rispetto all’oggetto architettonico. Nel rapporto invertito tra figure e sfondo, il contorno acquisisce ed esalta maggiormente la condizione di apertura, che riconduce alle parole con cui M. Heidegger domanda: “che cosa sarà del volume delle figure scolpite che incorporano di volta in volta il luogo? Senza dubbio non avrà il compito di delimitare gli spazi gli uni rispetto agli altri, nei quale le superfici avvolgono un lato interno da un lato esterno”.

2.4.2 il supporto superficie e la sua moltiplicazione come strumento conformativo del vuoto

Quanto detto fino ad ora sul rapporto tra pieno e vuoto ci rivela l’inversione e l’apertura del contorno verso uno spazio più esteso, che le forme del vuoto sono descritte anche da un altro elemento strutturale: il suolo come superficie progettata architettonicamente. Possiamo quindi considerarla come un’entità geometrica bidimensionale, non come progetto di suolo, che ha come traguardo la definizione dell’arredo urbano, ma come conformazione che qualifica la “base” del volume vuoto, dove si svolge l’abitare. Esempio rilevante i “tessuti” di Burle Marx, che a Copacabana disegnano il lungomare. “qui il suolo guadagna la quarta dimensione, quella del tempo, scandita in momenti fatti di pause, accelerazione, distensioni. Nemmeno un metro cubo, non un lezioso catalogo di arredi pubblici, ma elementi di una nuova geografia urbana per cittadini dai comportamenti temporaneamente rilassati”. A questo punto si può aggiungere che non si è limitati all’uso della sola base del volume vuoto, ma possiamo considerare anche le coperture, intesa come traslazione del supporto-superficie. Questa duplicazione può originare spazio libero protetto sotto di sé, senza costruire veri limiti fisici; oppure un piano abitato (figura lecorbusiana della quinta facciata). Nel primo caso lo sguardo ha direzioni precluse e altre no, la luce è controllata e definita. Nel secondo il tetto giardino di Le Corbusier è da considerarsi come un suolo scollato; trasferisce lo spazio abitato del piano terra al livello più alto dell’edificio, liberando la parte sottostante, attraverso i pilotis. La superficie bidimensionale della quota zero è differente dal tetto giardino, il rapporto con il contesto e il paesaggio cambia. La vista verso il basso è preclusa, mentre è esaltata quella verso l’orizzonte. Da superficie bidimensionale, il suolo acquista così una proprio natura e autonomia tridimensionale come l’architettura e con l’architettura. La dinamicità formale e altimetrica di questo suolo permette di intravedere una rinnovata sfumatura dei bordi, che rende interno ed esterno, sopra e sotto come categorie meno definite.

 

CAPITOLO 3: Le forme del vuoto: definizione alla scala urbana

3.1 Vuoti come intervalli a scala urbana

Qui Chiara Toscani lega il vuoto alla sfera urbana. L’attenzione è perciò rivolta verso un attributo dimensionale del progetto architettonico, dove il vuoto diviene l’elemento che definisce il progetto e il suo rapporto con il contesto. “saper disegnare uno spazio aperto, sapere dare valore al vuoto tra gli edifici, fare di esso il protagonista della città, è una sfida importante. (…) Anzitutto una concezione del progetto non più come oggetto isolato il cui massimo valore è quello della novità formale, dell’eccezione, ma un progetto concepito come dialogo con il contesto, in quanto ascolto dell’identità del sito e dei suoi caratteri fisici e sociali. Si tratta, beninteso di un dialogo tra diversi, ma è importante che esse siano proposte guardano all’identità della città esistente”. La scelta di una dimensione urbana non implica obbligatoriamente uno studio legato alla struttura tipologica dell’architettura. La scelta di rivolgere l’attenzione a progetti che comprendono una scala diversa rispetto a quella architettonica, fa riferimento alla necessità di considerare lo spazio come luogo dell’abitare alla dimensione urbana. Importante perciò è fare un salto di scala che superi “la critica della Raumgestauldung”, che privilegia lo spazio interno rispetto a quello esterno. Dobbiamo considerare quindi gli spazi esterni aperti come luoghi di imprescindibile valore.

3.2 Il rapporto figura/figura – dal contorno al pochè

Qui l’autrice afferma che il contorno e il rapporto supporto-superficie sono insufficienti per trattare in maniera completa le figure spaziali, ciò non predispone la sostituzione dei due termini con altri, ma tendono, il primo ad avvicinarsi al concetto di pochè, il secondo assume le condizioni più ampie di struttura configurata dalle tracce visibili e invisibili del contesto e del paesaggio. Il pochè (dal francese pocher = affogare – tasca) si rivela come ci dice C. Rowe in “Collage City” come un ente affogato all’interno di un altro spazio, senza però elidersi reciprocamente. Nel significato più proprio di tasca è interessante scoprire come sia uno spazio che si deforma solo quando contiene degli oggetti e rimane nascosta quando è vuota. Rappresenta la manifestazione di una relazione indiretta tra la struttura e la forma. In architettura quindi è un dispositivo spaziale capace di “essere coinvolto o coinvolgere dai vuoti adiacenti, di fungere tanto da vuoto che da pieno a seconda delle circostanze”. Nel progetto della cattedrale di Pavia, Bramante usa, non teorizzandolo, il pochè, ad esempio. Lo fa introducendo una massa solida aggiuntiva ai pilastri (non strutturale), per articolare lo spazio e creare “un’apacità” allo spazio interno, annullando la coincidenza narrativa tra struttura statica e spazio vuoto. Fino ad ora ci siamo concentrati solo sul pochè come dispositivo all’interno dello spazio architettonico. Grazie alle osservazioni di Robert Venturi le osservazioni fatte possono essere applicate all’intero edificio. L’autrice osserva come venga generata un’ambiguità tra interno ed esterno, nel senso di non corrispondenza, nell’architettura non costruita dall’interno verso l’esterno, ma che si concentra nell’involucro come elemento focale che assorbe le tensioni di entrambi gli spazi. Per spiegare ciò che R. Venturi afferma si può citare la cappella di Ronchamp di Le Corbusier. “La vecchia tradizione dello spazio interno racchiuso e contrastante, che vorrei analizzare adesso, è stata anche riconosciuta da alcuno maestri del movimento moderno, anche se non è posto in grande rilievo dagli storici”. I muri di Ronchampstupidamente ma utilmente grossi” racchiudono uno spazio sacro e il loro spessore variabile li configura come interstizi, che definiscono una differenziazione dello spazio interno rispetto a quello esterno, il primo protetto, il secondo aperto verso il paesaggio. I fori vetrati, dimensionalmente differenti costruiscono uno spazio inaspettato. La luce inoltra lavora con l’involucro, che da questo viene trasfigurata. L’involucro diviene quindi luogo di trasformazione e costruzione; sintesi ed equilibrio tra le due dimensioni dell’abitare, quella esterna e interna dell’edificio. Lo stesso involucro sembra accogliere le curve del terreno su cui poggia, rapportandosi fortemente con l’involucro. “Progettare dall’esterno verso l’interno, come dall’interno verso l’esterno, produce delle tensioni necessarie che aiutano a fare architettura. Se l’esterno si differenzia dall’interno, il muro punto di transizione, diviene fatto architettonico: l’architettura si ha quando si incontrano forze interne ed esterne d’uso e spazio. Tali forza, interne ed ambientali, sono generali e particolari, principali e secondarie. L’architettura, parete fra interno ed esterno, diviene la registrazione spaziale di questa risoluzione e del suo dramma. E, riconoscendo la differenza tra interno ed esterno, l’architettura apre ancora una volta le porte ad un modo di pensare più legato a principi urbanistici” o meglio di scala urbana. Tutto ciò suggerisce altri due contributi legati al concetto di pochè: il primo che consente il passaggio alla scala urbana fatta da C. Rowe, di abitabilità di questi spazi; il secondo riguarda l’attributo di complessità, che fornisce il concetto di pochè all’architettura, costruendo figure complementari e non entità singole. C. Rowe aggiunge inoltre “Ma se il pochè, inteso come il segno lasciato sulla pianta della struttura tradizionale, funge da separazione fra gli spazi principali dell’edificio, se è una matrice solida che inquadra una quantità di eventi spaziali maggiori, non è difficile riconoscere che il pochè riguarda anche il contesto nel senso che, dato che dipende da un campo percettivo, l’edificio stesso può diventare un tipo di pochè, un solido che per certi scopi facilita la lettura degli spazi adiacenti”. Ricoleggandociora al discorso sulla scala urbana si può dire che considerarla vorrebbe dire non porre più l’accento sull’articolazione tipologica degli spazi interni tra gli edifici, ma porlo sui rapporto morfologici tra l’edificio e gli spazi aperti esterni, interpretando la dialettica tra architettura e contesto, valutando l’intercambiabilità degli elementi della coppia dialettica sfondo-figura. A conclusione si possano elencare una serie di caratteristiche fondamentali delle forme del vuoto a scala urbana:

·        Il concetto di ambiguità legato ad una caratteristica composita del sistema architettonico;

·        Il valore del rapporto tra sfondo-figura come dialettica su cui si instaura la differenziazione delle interazioni spaziali tra vuoto e pieno;

·        La possibilità che questo avvenga non omologando i termini della composizione architettonica urbana, ma riscoprendo la complementarietà degli elementi in gioco, spazi aperti ed edificato, come figure di eguale rilevanza strutturale.

3.3 Il paesaggio come paradigma di spazialità complessa

Il paesaggio, prima ancora di diventare vera e propria rappresentazione in senso figurativo è luogo della mente, modo di pensare il reale”. Prosegue nel testo “il paesaggio e l’estetica” di Rosario Assunto, che da una definizione di paesaggio, spiegando la relazione tra parte e tutto, finito e infinito e il ruolo del vuoto come apertura: “il paesaggio è uno spazio e non occupa spazio”, questa definizione è molto puntuale dato che ci permette di comprendere come il paesaggio sia spazio e non oggetto nello spazio, ed è lo spazio stesso che si costituisce ad oggetto di esperienza e giudizio. “Il paesaggio è spazio, ma non è soltanto spazio: perché il concetto di paesaggio include in sé note che non sono proprie del concetto di spazio in quanto tale. (…) un interno è spazio, anche esteticamente, ma non è paesaggio”. Il paesaggio è quindi uno spazio non chiuso, ma caratterizzato da “una finitezza aperta”, cioè riconoscibile e percepibile ad una scala territoriale. “Lo spazio si costituisce paesaggio (…) in cui l’infinità e la finitezza si congiungono, passando l’una dall’altra: sicché la finitezza, aprendosi, diventa infinita per la continuità, che in essa viene ad instaurarsi”. Detto ciò risulta evidente come sia il vuoto a prescindere dal fatto che sia unitario o no, a costituire l’elemento di connessione del paesaggio. I vuoti possono adoperarsi a “canali” lungo i quali l’osservatore si muove normalmente, occasionalmente o potenzialmente. Chiara Toscani diche che se vedessimo il vuoto come risorsa, allora la reciprocità delle diverse dimensioni nel progetto architettonico diverrebbe l’elemento più importante di questi spazi. Con la descrizione geografica dell’ottocento l’uomo non si occupa in maniera attiva della conoscenza del territorio. Dagli anni sessanta e settanta si sviluppano due interpretazioni di questi studi: il primo di carattere visivo-descrittivo e la seconda sulle teorie fenomenologiche-percettive. La prima associa al termine di paesaggio quello di territorio esteso, composto da tracce geografiche visibili ed invisibili, come “materia operabile per l’architettura per la costruzione di una geografia volontaria, che si offra come immagine significante dell’ambiente in cui ci muoviamo”. La seconda acquisisce il termine paesaggio come struttura metaforica che riflette le caratteristiche di eterogeneità e complessità spaziale, inserendole in un’unità riconoscibile secondo mappe differenziate. Il paesaggio è quindi una condizione compositiva di complessità. “Labirinti e dedali sono al tempo stesso paesaggio e architettura”.

 

CAPITOLO 4: Le forme del vuoto: vuoto figurativo e figurale

4.1 Definizione di vuoto figurativo

Tutto ciò che è stato detto fino ad ora può essere distinto in vuoto figurativo (include le forme del vuoto come figura, come sfondo e vuoto-costruito), o vuoto figurale. L’ordine figurativo in architettura può indicare una composizione dello spazio determinata da una netta gerarchia compositiva. Possiamo inoltre analizzare il vuoto-figura e il vuoto-sfondo, contenuti nella sfera figurativa. Il primo è governato dallo spazio aperto, distinto nettamente dal tessuto urbano. Il secondo è il pieno che acquista importanza rispetto ai vuoti neutri ed omogenei. Entrambe però risultano statiche in quanto basate su una vista prospettiva. Oltra ai due ordini già elencati, c’è il vuoto costruito, che sarebbe potuto essere incluso negli altri due, ma la netta definizione materica e la prevalenza della superficie come suolo costruito, lo definiscono come ordine a se stante.

4.2 Definizione di vuoto figurale

Ciò che viene definito come figurale, secondo J.-F. Lyotard, genera composizioni unisituazionali, cioè che si realizzano solo in un determinato contesto e non in altri. Il figurativo realizza opposizione di termini, figure riconoscibile. Il figurale da valore specifico ad ogni segno e relazione senza annullare la riconoscibilità. Dunque è da intendersi come un caso particolare del figurativo, utilizzato come “operatore figurale” maggiormente per descrivere le poetiche artistiche del novecento. F. Bacon fa un passo avanti spiegando come si produce il figurale. Parte dalla decostruzione del rapporto tra sfondo e figura: “E’ come se avesse due vie possibili per sfuggire al figurativo: verso la forma pura, per astrazione; oppure verso il puro figurale, per astrazione o isolamento. Se il pittore ha cara la Figura, se prende la seconda via, sarà dunque per opporre il figurale al figurativo. Isolare la figura sarà la condizione prima. Il figurativo implica infatti il rapporto tra un’immagine e un oggetto che si presume esso voglia illustrare; ma implica anche il rapporto tra un’immagine e altre immagini in un insieme composto, il quale attribuisce precisamente a ciascuna il proprio oggetto. La narrazione è il correlato dell’illustrazione. (…) a riempire il quadro non sarà né il paesaggio, come correlato della figura, né uno sfondo da cui sorgerebbe la forma, né un elemento informale, un chiaroscuro, uno spessore di colore per i giochi d’ombra, una stesura per la variazione. (ma piuttosto) i due procedimenti, pulitura locale e tratto asignificante, appartengono ad un sistema originale che non è più quello del paesaggio, né dell’informale o del fondo. Il resto del quadro, infatti, è sistematicamente occupato da grandi campiture di colore vivido, uniforme e immobile. Sottili e dure, esse hanno una finzione strutturante, spazializzante. Però non sono sotto la figura, né dietro o al di là. Stanno rigorosamente accanto, o piuttosto tutt’intorno e vengono percepite, come una figura medesima, da una visione ravvicinata, tattile o aptica. A questo punto, nel paesaggio da una figura alle campiture viene meno ogni relazione di profondità o di lontananza. (…) Se le campiture fanno da sfondo, è dunque in virtù della stretta correlazione con le figure: correlazione di due settori su uno stesso piano comune ravvicinato. Questa correlazione, questa connessione, anch’essa è prodotta dal luogo, (…) dal contorno. (…) Questo sistema, questa coesistenza di due settori uno accanto all’altro a chiudere lo spazio, produrre uno spazio assolutamente chiuso e in movimento”. Tutto ciò è applicabile in pittura, il problema sorge in architettura. Una soluzione potrebbe essere dettata dal concetto di pochè, riconducibile alla trasparenza fenomenica di C. Rowe. Rowe usa la “trasparenza” sia in pittura che in architettura, qui come modalità che genera ambiguità tra sfondo e figura attraverso astrazione e dinamicità. A differenza della pittura però che usa il colore, l’architettura usa gli spazi tridimensionali. “Lo spazio si struttura, si sostanzia, si articola. (…) Non c’è alcuna traccia di alcun desiderio di fare a meno di nette distinzioni. i piani di Le Corbusier sono come coltelli per affettare e misurare lo spazio. Se potessimo attribuire allo spazio le proprietà dell’acqua, il suo edificio sarebbe come una diga grazie alla quale lo spazio è contenuto, arginato, traforato, incanalato e, da ultimo, disciolto”. Gli effetti visibili sono smepre figurativi, quindi lo spazio figurativo sarà percepibile nella sua unità locale. Mentre gli effetti figurali sono “rendere il visibile”, che “ non deve far vedere le cose ma renderle visibili” (Paul Klee).

 

CAPITOLO 5: Gli ordini spaziali e le operazioni compositive: vuoto figurativo

5.1 Definizione di vuoto-figura

Con il termine vuoto-figura l’autrice identifica uno spazio urbano aperto, la cui forma ha un carattere fondativo e strutturante, definito da una geometria precisa e una dimensione riconoscibile. R. Arnheim ne descrive la percezione spaziale adoperando “tensioni vettoriali”, che dal centro dello spazio si diramano verso le pareti perimetrali. “Una piazza circolare non solo pone in risalto la sua identità grazie all’ininterrotta coerenza de suo contorno, ma fissa anche con irresistibile precisione il proprio centro, e quindi segna l’asse del proprio sistema vettoriale: il suo campo di forze si espande dal centro in tutte le direzioni, ed è confermato dalla concavità delle facciate degli edifici perimetrali. La convessità della sua forma la designa come figura dominante, mentre i palazzi concavi arretrano sotto l’impatto delle forze avanzanti dal centro. (…) Tutto ciò che è spaziale si espande. Lo spazio cavo della piazza si espande con la forza dei suoi poteri vettoriali, ma gli edifici che la circondano possiedono anch’essi una loro forza di espansione, sicché possono tenerlo sotto controllo. Sotto il profilo dinamico la portata di una piazza non è semplicemente determinata dalla sua area geometrica, ma dall’interazione fra espansione centrifuga e vincoli circostanti. L’equilibrio che ne risulta rispecchia l’esatto rapporto tra i poteri delle parti contendenti”.  Questa figura può generarsi solo utilizzando l’enclave (spazio statico) e l’armatura (luogo di transito). Oriol Bohigas esprime molto bene le modalità applicative di questo spazio urbano: “Tutto ciò vuol dire, come ho già accennato che la città dovrebbe essere progettata partendo dallo spazio pubblico – cioè dal vuoto – e non dalla massa costruita degli edifici. (…) E la miglior architetture è stata quella che ha dato la priorità alla struttura urbana, ricreandola ex novo o modificandola secondo nuovi parametri. Quando ci riferiamo agli stili non proponiamo a priori nessuno stile formale specifico. (…) per un cittadino normale la cosa più intelligente sono le tipologie formali che durante molti secoli si sono utilizzate in tutte le città: le strade definite linearmente, le piazze centripete o centrifughe, i crocevia significativi”.

5.1.1 L’inclusione come operazione elementare di composizione morfologica

L’inclusione permettere la costruzione di un vuoto predominante rispetto al pieno. C’è da imporre una sostanziale differenza tra inclusione e sottrazione. La prima comprende tutti i progetti di costruzione del vuoto-figura, la seconda invece avviene solo all’interno di un tessuto esistente.

Successivamente si sono distinte due forme del vuoto: il tipo architettonico e il tipo urbano. Con il primo si indentificano tutte le strutture urbane costruite partendo da un vuoto figurativamente riconoscibile e riconducibile ad una tipologia “architettonica” dello spazio. Con il secondo si identificano gli spazio dove la costruzione del vuoto avviene attraverso una ricucitura con il contesto adiacente.

Tipi architettonici del vuoto-figura

Le places royales parigine mantengono una figura indipendente dalla tipologia e dalla morfologia edilizia del contesto, questo perché vengono usate come propulsori di nuovi tessuti edilizi ai confini della città chiusa. La loro struttura tipologica si basa sul tema del recinto, che determina la costruzione di un “interno” urbano definito, o attraverso la costruzione di un portico.

La scansione non è rispettata al di là della linea del porticato: la larghezza dei corpi di fabbrica è molto varia e la regolarità risulta solamente dalla facciata”.

Il contorno si mostra sempre più attivo e in particolar modo attraverso il portico costruisce una relazione molto stretta con l’estensione della piazza. Vi è un passaggio tra pubblico e privato, dettato da un confine più o meno graduato. In Francia quindi si genera lo “spazio-sostanza” cartesiano, che esprime un’uniformità architettonica, alla quale però corrisponde anche una coerenza funzionale e programmatica. Come afferma Leonardo Benevolo, l’indipendenza strutturale compositiva delle piazze francesi, assume una visione istantanea e controllata dello spazio, dove la relazione scalare con il tessuto urbano è determinata prioritariamente dalla dimensione del vuoto, che diventa l’elemento da cui partire per nuove espansioni urbane. La cosa interessante è notare come le places royales sfocino tutte in un disegno planimetrico generale del settecento del Patte. Risulta interessante per due motivi: il primo poiché riporta in un’unica immagine, una sorta di catalogo di forme del vuoto (vuoto-figura), in seconda istanza, questo disegno rappresenta un momento di passaggio ad un’altra visione filosofico-scientifica dello spazio e ad una diversa immagine delle forme del vuoto.  A questo punto la prospettiva da elemento di controllo diventa strumento per controllare un punto di fuga infinito.

Il vuoto è luogo dove gli oggetti sono collocati attraverso reciproche relazioni di distanza.

Tipi urbani del vuoto-figura

Un esempio è Piazza del Campo a Siena. Se la piazze francesi adoperavano un unico sistema di occupazione del suolo, a Siena la forma del vuoto è da cercare nella chiarezza dell’operazione inclusiva dello spazio interno al tessuto urbano storicamente medievale, reso ancora più marcato da ciò che Bernardo Secchi denomina “progetto di suolo” . Egli dice: “(…) lo spazio aperto della città medievale stabilisce con l’edificio, attraverso specifici dispositivi, rapporti di grande varietà e complessità. Nel suo disegno dettato da una fondamentale economia di mezzi espressivi, si riconosce una costante attenzione alla soluzione dei problemi tecnici di dettaglio: come far si che le acquee scorrano correttamente, come utilizzare un impercettibile dislivello, come utilizzare materiali adeguati”.

5.1.2 L’addizione e l’intersezione come operazioni complesse di composizione morfologica

L’operazione di inclusione, se estesa come addizione o intersezione, può originare una dimensione spaziale più complessa e dinamica. Un esempio quasi archetipo potrebbe essere Villa Adriana. Qui ogni recinto rappresenta uno spazio finito collegato agli altri da una regola prossemica.

Tipi architettonici del vuoto-figura

Il principio di addizione però può essere individuato anche ad una scala intermedia, che si configura come estensione dell’operazione di inclusione a formare un’unica sequenza composta di spazi contigui, come nel sistema di piazze di Nancy (Francia). Qui anche se gli spazi siano riconoscibili per le forme definite  e per i volumi edificati chiusi e compatti, tutto il sistema concorre a costruire una struttura unitaria. I contorni sembrano adoperarsi a diaframmi verso gli spazi successivi che come limiti inclusivi. Un altro esempio potrebbe essere Place du Peryou a Montpellier, primo progetto di spazio aperto fuori dalle mura, dove il “piano” del paesaggio assume il ruolo di contorno e definizione di un fronte. Qui il contorno si rompe portando la nuova dimensione del paesaggio all’interno dello spazio “recintato”. Apertura che permette l’espansione urbana. Gli esempi sopra citati operano per addizione e non modificano il “modulo” originario, se non nella dimensione. In un intervento a Bath di John Wood viene introdotta una dinamicità più complessa estesa all’infinito, per mezzo di scorci costruiti come vedute trasversali e d’angolo e improvvisi cambi di forma e direzione dello spazio; tutto ciò costruito per intersezione.

In ognuno di questi esempi vi è la possibilità di aprirsi secondo diverse modalità verso una spazialità più ampia, verso il paesaggio.

Tipi urbani del vuoto-figura

L’estensione del principio inclusivo può generare due fenomeni: uno additivo, come Londra, dove gli squares definiscono un paesaggio urbano costruito da composizioni ritmiche aperte. Ogni square corrisponde alla sottrazione di un isolato residenziale. L’altro per contiguità degli spazi a formare vuoti urbani molto ampi, come Trieste, all’interno del borgo teresiano, il cui piano opera attraverso un’espansione a scacchiera del tessuto edilizio, da cui vengono sottratti la piazza centrale e il canale navigabile. Un esempio emblematico è Piazza S. Marco a Venezia. Anche se ha subito diverse opere di demolizione e ricostruzione, manipolazione e contaminazione; tutto questo ha allontanato il progetto da un gesto unitario. La sovrapposizione delle tre piazze, Piazza e Piazzetta S. Marco e la Piazzetta dei Leoni, costruiscono un complesso rapporto con i volumi adiacenti e con il paesaggio della laguna. Definiscono un sistema unitario di oggetti contigui. Manfredo Tafuri parla di “oggetti trovati”, ossia di un gioco di montaggio sapiente di architetture, coordinate con diversi interventi (interventi nuovi e controllo delle preesistenze), che definiscono relazioni e proporzioni, così come una stratificazione di visuali verso la laguna.

5.2 Definizione di vuoto-sfondo

Lo sfondo è indotto a porsi posteriormente alla figura, e sempre in rapporto a quest’ultima risulta privo di contorni, dal momento che continua al di là senza interruzioni. Non avendo confini, lo sfondo non ha forma, ma solo alcune generiche proprietà spaziali e strutturali, come la bassa densità. (…) Lo spazio è pervaso da vettori, i quali, sebbene siano modificati nel loro comportamento dalle distanze e dalle estensioni possibili sono generati esclusivamente dagli oggetti che interagiscono con le forze analoghe prodotte dai corpi adiacenti”.

Il ruolo del vuoto come sfondo rende evidente la poetica dell’oggetto architettonico come entità a se stante, isolato. A differenza del vuoto-figura, che accetta differenziazioni più o meno percepibili a seconda della pregnanza geometrica, la forma del vuoto come sfondo appiana le differenze a mostra un carattere di genericità mancante alla tipologia architettonica o urbana del vuoto-figura. Lo sfondo, parafrasando René Thom, “funziona come filtro che globalizza e in larga misura trasforma profondamente gli effetti locali dei dettagli contenuti”. Il vuoto come sfondo introduce un’apertura verso una dimensione più ampia.

Inoltre se nel vuoto-figura le misure erano dettate da proporzioni geometriche tra alzato e spazio planimetrico, nel Moderno questa attenzione è diventata anche “igienista”, cioè, ad esempio, attraverso la distribuzione degli spazi e degli edifici a determinate distanze, tutto ciò dimostrabile con la Carta d’Atene o gli schemi di W. Gropius. Tutto questo per cercare una “salubrità” dell’edificio, con l’asse eliotermico e secondo un modello riproducibile all’infinito.

5.2.1 La dislocazione come operazione di composizione morfologica

Il vuoto-sfondo opera a differenza del vuoto-figura per dislocazione degli oggetti architettonici. Un esempio utile per spiegare quanto detto potrebbe essere il campus a Chicago dell’IIT di Mies Van der Rohe. L’insediamento, al tempo del progetto, era in una zona periferica, gli edifici qui si inserivano all’interno del lotto rettangolare con un ordine preciso e chiaro. Il sistema dei rapporti tra gli edifici è individuato da un’organizzazione simmetrica rispetto alla 33° strada. La stereometria dei volumi e la perfezione dell’uso dei materiali diventano lo strumento perfetto per rendere più lieve il rapporto con la superficie, tutta a verde, e attraversata solo da percorsi lineari. Nel 1940 con il piano definitivo si predispone: un gruppo di edifici, disposti simmetricamente a formare uno spazio aperto e rettangolare, una “piazza” d’ingresso, ai cui lati si distribuiscono altri edifici disposti in modo più ricco a formare un sistema più complesso e articolato. Una griglia geometrica 7x7 mt. distribuisce gli spazi aperti, dimensionati in altezza con sottomultipli di 3,5 mt. il principio insediativo del campus, si frappone tra un ordine compositivo dei volumi edificati rispetto ai vuoti e dalla volontà formale e linguistica di Mies che intende costruire un luogo come “frammento di spazio concettuale”. Qui inoltre l’iter progettuale è caratterizzato da una ponderata ricerca di equilibrio tra i volumi e lo spazio definito, per costruire una materialità spaziale e una corretta misura delle proporzioni. E’ pur vero che ci siano dei coni ottici privilegiati, ma altrettanti nuovi, molteplici spazialità dettate dalla dispersione dei blocchi. Altri esempi citabili sono i redents dei primi progetti urbanistici di Le Corbusier, che Saint-Dié, che codificano compositivamente una definitiva rottura dei confini spaziali per decretare una lettura dinamica dello spazio, che derivava dalle nuove scoperte scientifiche della relatività e sulla relazione tra spazio e tempo, anche se lo spazio, come dice H. Focillon, risulta ancora in parte bloccato e non innesca un processo figurale specifico di altri progetti.

5.3 Definizione di vuoto-costruito

Potremmo definirlo come una composizione formale del vuoto come dato in sé autonomo, anche se unito ad altri manufatti edilizi. Questa forma del vuoto può essere ricondotta al linguaggio contemporaneo e a precedenti moderni, ma è anche possibile rintracciarla in progetti dove la costruzione del vuoto avviene per mezzo di dispositivi che definiscono uno spazio a “volume zero”. Tutti gli esempi che si potrebbero citare hanno un punto in comune, si compongono attraverso una figura definita, ma rendono evidente il valore costruttivo del suolo rispetto all’edificio. Prendere il suolo e renderlo sfondo, introduce una tensione verso ciò che viene definito vuoto figurale.

5.3.1 La costruzione del suolo come operazione di composizione morfologica

La costruzione del suolo può avvenire attraverso caratteri bidimensionali o tridimensionali, operando quindi con l’architettura adiacente o in sezione. Questa operazione consente una valorizzazione materica e abitativa del suolo, più che una differenziazione strutturale-morfologica tra il vuoto-figura e il vuoto-sfondo, questo perché l’oggetto architettonico continua ad avere il ruolo di protagonista rispetto al piano, anche se il suolo acquisisce valori formali, funzionali e simbolici. Un esempio caratteristico di quanto detto fino ad ora è il progetto di Chandigarh di Le Corbusier , in particolare l’insieme del Capitol, che include l’edificio del Parlamento, del Segretariato, il palazzo del Governatore e dell’Alta Corte di Giustizia. Dice Manfredo Tafuri: “i tre grandi desideranti, che si lanciano appelli a distanza. La loro separazione è forzata, la riunione impossibile. La tensione che sprigiona dal loro inattingibile colloquio indica lo spazio che li separa come luogo in cui cercare la chiave del loro linguaggio”. Qui lo spazio aperto diventa sistema funzionale per relazioni più ampie. Tra il segretariato e l’alta corte di giustizia vi sono 630 metri occupati dall’acqua, con la stessa logica il movimento del terreno e i muri inclinati creano una tensione fortissima con il paesaggi circostante. Si possono riconoscere, infatti, diversi livelli: quello del manto erboso, quello della pavimentazione che accoglie spazi più ampi e altri lineari che si susseguono secondo due assi, a questi altri percorsi che uniscono e collegano le varie zone. L. Quadroni dice al riguardo: “Chandigarhè infatti la sintesi ideale di quel lungo viaggio attraverso figure dell’architettura in cui trova lenta e progressiva attuazione quella che L. Benevolo chiama suggestivamente “cattura dell’infinito” dell’epoca moderna e che va dall’estetica del sublime dei cenotafi newtoniani di E. Boullée all’IT di Mies: e a partire dall’opera-testamento di Chandigarh si delineano i compiti della città contemporanea che iscrivendosi nelle derive del moderno è chiamata a traslare i temi e le figure proprie dello spazio vuoto quelli più attuali dello spazio aperto”.

 

CAPITOLO 6: Gli ordini spaziali e le operazioni compositive: vuoto-figurale

Parlare di ordine figurale non vuol dire attribuire una particolare configurazione geometrica, bidimensionale o tridimensionale ai vuoti, ma indagare sull’equilibrio tra vuoto e pieno, figura e sfondo. Importante è ricordare come il figurale sia estratto dal figurativo e quindi non consiste in una categoria a se stante, ma parte dalla decostruzione di dispositivi formali e compositivi appartenenti al figurativo. E’ possibile distinguere due ordini di spazialità figurale: uno opera attraverso un’operazione figurale totale, nella quale non c’è quasi più distinzione formale e materica tra figura e sfondo, l’altro opera invece attraverso spostamenti minimi e segni astratti, pur mantenendo una distinzione percettiva tra i due elementi. Il primo esplica la possibilità di un approccio tendente ad un’invenzione figurale totale; il secondo pensa il paesaggio come un continuo costruito o naturale e fa riferimento ad esso come uno sfondo sul quale si deposita l’intervento, come figura per rapporto ad esso. Riguardo al secondo V. Gregotti afferma: “Non si dà architettura senza modificazione dell’esistente, ma l’interesse che circonda da qualche anno la nozione di modificazione non è però fondato su una considerazione tanto ovvia se per modificazione si intende la presa di coscienza dell’importanza dell’esistente, come materiale strutturale e non come semplice sfondo, all’interno del processo di progettazione”. Al riguardo del progetto citato nel capitolo precedente si possono fare una serie di annotazioni sintetiche, utili per comprendere l’ordine compositivo figurale contemporaneo:

 

- Il carattere pluritestuale della configurazione dello spazio aperto in relazione agli edifici: i parterres verdi piani e geometrici; i movimenti del terreno più morbidi e sinuosi; gli specchi d’acqua; le pavimentazione differenziate per livelli, sia sotto la quota di calpestio a includere una dimensione contemplativa dei monumenti, sia sopra per osservare il panorama e l’architettura.

- Il rapporto con il paesaggio e il contesto che, a differenza dai piani urbanistici degli anni venti, entra a far parte del progetto: la costruzione degli assi di percorrenza in base alla vista verso l’Himalaya; la struttura compositiva, materica e di dettaglio degli edifici che tiene conto del clima e delle valenze mistico-simboliche del luogo.

 

M. Wigley tenta di spiegare come il rapporto con il luogo di Le Corbusier sia un “contorto atteggiamento”: “La costruzione non assume semplicemente la sua identità dal luogo, ma piuttosto le condizioni uniche del luogo, reso artificiale, ridefiniscono proprio quella costruzione che l’ha reso artificiale. La costruzione diventa così figlia del luogo che ha creato. E una volta in più una tale genealogia involuta non rappresenta l’unico dilemma dell’architettura moderna”. Tutto ciò rimanda al progetto per il Palazzo della Società delle Nazioni, che rimanda a due considerazioni. La prima è quanto dice lo stesso Le Corbusier, secondo cui gli edifici devono essere disposti “secondo il punto di vista di un giardiniere del paesaggio che pensa a quel luogo come a una meraviglia. (…) Le Corbusier tocca il luogo in maniera così stretta da collocarsi in mezzo alla foresta senza che neppure un cespuglio venga disturbato. Per il tocco minimo non intende soltanto disturbo minimo alla terra, ma anche che ogni finestra si apra su una scena pastorale”. Il secondo elemento fa riferimento a quanto C. Rowe dice di questo progetto per spiegare il concetto di trasparenza fenomenica: “ lo spazio si struttura, si sostanzia, si articola. (…) Se potessimo attribuire allo spazio le proprietà dell’acqua, il suo edificio sarebbe come una diga grazie alla quale lo spazio è contenuto, arginato, traforato, incanalato e, da ultimo, disciolto”.

In sintesi l’ordine figurale si compone di: una complessità pluritestuale delle articolazioni strutturale del sistema architettonico, un’ambiguità del rapporto tra figura e sfondo, come rapporto tra vuoti e pieni, contesto e architettura; una molteplicità ed eterogeneità degli elementi; una fruibilità del soggetto secondo una spazialità in cui è immerso in modo attivo; un’obliquità dei dispositivi spaziali; una processualità e apertura dell’opera.

6.1 Operazioni minime e astratte di composizione morfologica

A ciò corrispondono i progetti che, attraverso una volontà di “astrazione” e l’utilizzo di segni minimi e geometrie elementari, costruiscono una reciprocità e ambiguità essenziale all’ordine figurale. “L’architettura non deve essere affrontata come una grammatica, come un sistema di articolazione minimo, bensì come un testo, di cui fanno parte, in maniera difficilmente scindibile, l’edificio, il paesaggio, il tessuto urbano, l’intera dimensione territoriale”. La citazione di U. Eco rimanda al contesto. In tutto questo c’è da aggiungere che da quando il cubismo frantuma l’oggetto inserendo la percezione del tempo, anche lo spazio subisce una metamorfosi: lo sfondo non si presenta più come superficie netta ma partecipa alla scomposizione geometrica dell’intero dipinto. Lo spazio non è più un fattore che armonizza ma è “un elemento come tutti gli altri presente e concreto che si deforma e si scompone come le figure, d’altra parte avendo abolito la prospettiva, vale a dire l’unico modo prima conosciuto di rappresentare lo spazio vuoto, e volendo affermare la continuità fra figura e sfondo, lo spazio subisce lo stesso processo di scomposizione geometrica la stessa costruzione strutturale delle altre immagini con la caratteristica però che tale processo diviene ancora più concettuale ed astratto”. La rivoluzione introdotta dal cubismo rende perciò possibile la costruzione di uno spazio solido e la sostituzione del vuoto in una presenza riconoscibile, trasformata da sfondo in figura sostanziale. Questa inversione definisce il momento fondante di costruzione teorica dell’ordine figurale. A. Siza e J.N. Baldeweg fondano questo processo di astrazione e composizione figurale per mezzo di spazi e segni architettonici studiando anche la specificità del luogo in cui verranno posti. Baldeweg lavora con il vuoto attraverso il superamento dei limiti delle figure dirigendo l’attenzione verso lo “spazio complementare” che circoscrive le cose, per collocarli poi in una “geometria di intersezioni, di fughe e di interposizioni”. Siza invece produce un disegno caratterizzato “da una serie di risonanze che progressivamente funzionino come parte di un tutto, che mantengano le identità delle ragioni della loro origine contestuale, ma nello stesso tempo si organizzino in sequenze, percorsi, soste calcolate, che si alleino per scarti discreti verso un processo di diversità necessarie non ostentate, di scrittura degli spazi e delle forme del progetto”. R. Moneo afferma che “(…) in Siza, godiamo del carattere “potenziale” delle sue opere. Queste, infatti, richiedono di essere completate da coloro che vi si avvicinano: le opere acquisiscono tale condizione solo attraverso la fruizione”. Lo stesso Siza dice che: “(…) Credo che oggi si tenda spesso a considerare il rapporto tra gli oggetti più che l’oggetto architettonico in sé, e per questo diventa importante studiare il rapporto tra le parte della città e del paesaggio. Quindi si parla di paesaggio perché il rapporto che si considera è quello dell’insieme del paesaggio, costruito e naturale, che entra a far parte dei materiali dell’architettura. (…) L’architettura può essere considerata parte di una massa continua, di un tessuto, e allora non si aggiunge, ma si “immerge” nel paesaggio, oppure può avere un ruolo urbano importante e in questo caso deve cambiare molto il paesaggio. Ma comunque dal mio punto di vista l’architettura è sempre gestita dal paesaggio, anche quando non se ne ha consapevolezza. C’è un’altra cosa fondamentale del paesaggio che è sempre latente in ogni soluzione progettuale: la topografia. Il progetto varia molto a seconda che si presti attenzione ad essa oppure no: una parte consapevole del progetto può affrontarla per opposizione, e quindi il risultato sarà una forte trasformazione, oppure la contrario il può lavorare per immersione”. L’effetto dell’inversione sfondo-figura, verso un rapporto figura-figura porta ad includere anche la dimensione paesaggistica, che diventa prima di tutto dimensione conoscitiva oltre che definizione compositiva di costruzione dello spazio nel quale è intrinseca l’esperienza del tempo. Anche l’idea di paesaggio, non come sfondo ma come figura, subisce una grande trasformazione. Diviene paradigma di complessità e spazialità percettiva, dove il rapporto fra la parte e il tutto e la simultaneità dei vari elementi acquista un’importanza non trascurabile. Il vuoto, qui, è il luogo di relazione in grado di “assorbire, riflettere come il paesaggio la fenomenologia dell’esistenza all’interno delle proprie facoltà formatrici”.

6.2 Operazioni complesse di composizione morfologica

L’ordine spaziale figurale può svilupparsi secondo un approccio che implica operazioni di tipo complesso, riassunte come processi di deformazione. Nel primo approccio la percolazione degli spazi costruisce intervalli aperti e chiusi utilizzando il poché come “solido abitato tra due vuoti adiacenti”. Ciò produce una spazialità totalmente corporea e fenomenica dove si realizza l’annullamento del rapporto sfondo-figura verso una dialettica figura-figura, in modo da costruire relazioni di continuità tra interno ed esterno verso il paesaggio. Inoltre il linguaggio informale insieme associato alla nascita di softwares di progettazione ha permesso di definire forme architettoniche che non solo ricordano i disegni espressionisti del novecento, ma realizzano forme in divenire, senza distinzione qualitativa tra il vuoto e la forma. U. Boccioni dice: “le forme si generano, evolvendo dall’una all’altra ed espandendosi nello spazio, sino a confondersi. Si instaura in pratica una reciprocità tra oggetto e spazio, (…) come componenti di un unico sistema”. Tra gli esempi che si potrebbero citare si possono riscontrare due aspetti interessanti: un reale superamento della spazialità che affonda le sue radici nella prospettiva rinascimentale che, non scompare, ma è estesa e avvolta all’infinito, costituita dalla non coincidenza tra struttura e involucro, in modo tale da definire una corporeità e fruibilità del soggetto all’interno di spazialità molteplici e che non impone un’unica modalità d’uso. L’altra, la scala architettonica e scala paesaggistica iniziano a confondersi e confrontarsi verso un sistema unisituazionale e contestuale, in cui “l’intervento architettonico, non (è) più articolato in compartimenti linguistici corrispondenti a singole circoscrizioni scalari, ma indipendente da queste, riferito a una sola organizzazione strutturale”.

Lo spazio sarà non più l’esito di un volume scatola, la risultante di una forma circoscritta di piani; sarà invece una dimensione in cui confluiscono e interagiscono una molteplicità di eventi che, nel fondersi intimamente l’uno con l’altro, si risolvono reciprocamente, determinando appunto un insieme spazio-temporale, una dimensione inserita nel flusso costante del divenire”.