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autore

FRANCO PURINI

titolo

L’ ARCHITETTURA DIDATTICA

editore

GANGEMI EDITORE

luogo

REGGIO CALABRIA

anno

MARZO 1980

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

 

 

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Argomento e tematiche affrontate

Nel libro si accenna al problema del disegno di architettura. L’ autore, si limita a suggerire agli studenti un accorgimento empirico per valutare un disegno di architettura. Se questo ha la capacità di “evocare un mondo”, se attraverso di esso è possibile respirare un mito, allora è un buon disegno. Disegnare architetture, significa anche disegnare paesaggi per l’ architettura. Il volume raccoglie le lezioni tenute dal professor Franco Purini presso l’ Istituto Universitario Statale di Architettura di Reggio Calabria dal 1977 nei corsi di Composizione Architettonica del terzo anno ( ed è per questo motivo che ho cercato di attenermi il più possibile al testo ). Inoltre, il libro, si propone come uno spaccato dei problemi che nascono dal rapporto tra l’ architettura e la sua didattica.

 

Giudizio Complessivo: 6 ( scala 1-10 )

Scheda compilata da: Borreca Mattia

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

      

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Autore

È fra i principali esponenti del neorazionalismo italiano e in particolare della cosiddetta architettura disegnata. Attraverso i suoi scritti e, soprattutto, i suoi disegni ha notevolmente influenzato l'ambiente internazionale. Con l'intensa attività progettuale, sempre segnata da grande sperimentalità, ha indagato sul rapporto tra progetto e rappresentazione, città e architettura, architettura e paesaggio. Dopo la laurea (1971) ha collaborato con M. Sacripanti e successivamente con V. Gregotti. La sua attività didattica lo ha visto impegnato, dal 1977, nell'insegnamento del disegno e della composizione architettonica in diverse università italiane; dal1981 al 1994 è stato professore ordinario di disegno e rilievo presso “La Sapienza” a Roma,  e nel 1987/88 presso il Politecnico di Milano. Nel 1996 ha aperto uno studio a Roma con L. Thermes, dando origine ad un lungo e produttivo sodalizio segnato da una intensa attività progettuale.

  

CAPITOLI

NOVE TESI

L’ architettura e il suo fine. Il fine primo dell’ architettura è quello di esprimere, per mezzo del suo fine secondo, il costruire, il senso dell’ abitare dell’ uomo sulla terra. La funzionalità, la stabilità e l’ economicità degli edifici non saranno considerati dei fimi ma dei semplici mezzi per arrivare alla bellezza intesa come il più alto dei contributi che l’ architettura può dare alla questione sociale. Proporzionamenti, ordini, schemi costruttivi chiari, armonie scalari, l’ uso della modularità non come semplice strumento di unificazione ma come mezzo per riferire ad un principio formale egemone tutte le parti del manufatto, riferimenti alla figura umana come principio primo e segno dell’ essere uomo nello spazio, tracciati assiali e simmetrici come procedimenti per riconoscere la figura umana stessa e la sua centralità, costituiranno gli elementi della composizione. La bellezza dell’ architettura non è altro che, ricordando una analoga definizione di Stendhal della bellezza, “una promessa di felicità”. È qui che va posta la questione del nuovo come necessità ineliminabile dell’ architettura come, del resto, di qualsiasi altra forma d’ arte.

Architettura e pluralismo politico. Il pluralismo del nostro tempo è destinato ad avere grandi e positivi riflessi sull’ architettura. Il pluralismo, infatti, nel momento in cui si avvierà a cancellare la possibilità di imporre punti di vista personali come riflesso di egemonie politiche, creerà una soggettività nuova, più acuta  e motivata.

L’ architettura come fatto sociale. Occorre prima di tutto dire che il massimo contributo che l’ architettura può dare alla società è la creazione di un bell’ edificio. Non può esistere un architettura sociale o antisociale, mentre esiste un uso sociale o antisociale degli edifici.

Architettura e sociologia. Il rapporto tra architettura e sociologia non può che essere il discorso sociologico sull’ architettura e cioè la riduzione ad una discorsività sociale della doppia condizione entro la quale si muove l’ architettura. L’ architettura non è genericamente figlia di una realtà, ma è concretamente figlia di un padre reale e limitato che sarà sempre un architetto.

Lo spazio collettivo. Lo spazio collettivo deve essere considerato come il luogo di quella conflittualità urbana che h ala capacità di farsi riconoscere come fenomeno spaziale. Lo spazio collettivo storico del teatro, ad esempio, costituiva il modello di uno scambio, la cui intensità era paradigmatica della stessa idea di città. I veri spazi collettivi della città moderna, sono invece oggi la prigione e la fabbrica, luoghi dove il massimo scambio collettivo si realizza per il tramite di una coercizione. Lo spazio collettivo proposto in termini generici, e cioè come luogo di incontro, di comunicazione, di festa, di assemblea, si dimostra come l’ ultimo ricatto esercitato contro le reali possibilità di capovolgere uno schema lineare di incontri sociali. Un vero spazio collettivo può essere allora solo un “non spazio”, un vuoto da conquistare contro altre classi e altri ceti.

Architettura e partecipazione. Il problema tra architettura ed esercitazione costituisce un problema nobile quando non lo si voglia risolvere attraverso la svendita della progettualità in una pratica di consultazione continua con la base e di finto coinvolgimento decisionale. “Non siamo stati noi ad inventare l’ architettura moderna ed il suo voler essere funzionale alla produzione ed al consumo” ci dice Franco Purini. Delle molte motivazioni che stanno alla base delle filosofie partecipative occorre sottolinearne due. La prima si configura come tentativo di ricercare attraverso gli utenti il rinnovamento di un ruolo professionale che non ha più un destino in quanto la delega sulla quale si sosteneva è stata ritirata dalla borghesia stessa che ne garantiva l’ efficacia; la seconda si propone di ritrovare nuovi stimoli progettuali nella spontaneità popolare, intesa come il deposito inesauribile di una incorrotta creatività alla quale fare ricorso quasi per un bagno rigeneratore.

Architettura e urbanistica. Mai come oggi l’ architettura e l’ urbanistica si volgono le spalle. L’ urbanistica alla disperata ricerca di un fondamento di se come scienza reagisce alla degradazione della città affinando e moltiplicando artificiosamente i propri strumenti costruiti su modelli interpretativi astratti , i quali si frantumano immancabilmente a confronto con i fenomeni reali. L’ architettura conduce una battaglia per una qualità spesso altrettanto astratta, mentre viene smentita ogni giorno la sua necessità. L’ urbanistica paga il  prezzo della sua origine difensiva e vincolistica, l’ architettura sconta la sua illusione di poter parlare con il potere dopo che per cento lunghi anni ha cercato di fabbricarsi un linguaggio per un incontro che si è rivelato impossibile. L’ architettura moderna ha rinunciato a formulare domande, ha solo cercato di rispondere. L’ urbanistica deve convincersi che il suo scopo non è produrre piani e processi, ma di nuovo pietre. E cioè, case, strade, piazze, monumenti.

Passato e futuro. In qualsiasi segno architettonico il passato e il futuro sono strutturalmente presenti e ne costituiscono insieme la memoria.

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IL PROGETTO

“Progettare in una città obbliga infatti a rimettere in circolo la nostra personale memoria delle cose assieme alla memoria che la città ha di se”, ci viene detto da Franco Purini all’interno del suo libro. La nozione di tempo sorregge in toto quella di progetto, e Purini ci suggerisce quella che secondo lui è la più accessibile: il progetto è l’ideazione per lo più accompagnata da uno studio relativo alle possibilità di attuazione ed esecuzione (dizionario della  lingua italiana di Devoto e Oli a pag. 1795). Tematica che ci viene riproposta e che la possiamo ritrovare nelle parole “attuazione ed esecuzione”.

Il progetto può essere inteso come l’organizzazione nel tempo di una serie di operazioni coordinate tra di loro per ottenere un risultato. Ciò significa, ad esempio, che nell’arco temporale che intercorre tra ideazione ed esecuzione, alcune condizioni debbano permanere immutate nel tempo, mentre altre no. Da ciò possiamo dedurre, quindi, che il tempo del progetto si sovrappone al tempo della situazione reale che il progetto stesso si appresta a modificare. Anche in passato, il progetto si inquadrava in una nozione di tempo: dalle pagine vitruviane in cui si illustrava il procedimento di formalizzazione degli edifici, alla progettazione medievale delle cattedrali, più organizzata. Ciò che diversifica in modo fondamentale i processi progettuali dalla nozione di progetto inserita in un’idea di tempo è la scoperta che questa dimensione si proietta circolarmente su tutto il reale che quindi risulta formato da segmenti temporali a cui corrispondono azioni e trasformazioni concatenate. Il progetto da forma ed organizza le azioni concrete, ma nello stesso tempo da precise indicazioni sul tipo di trasformazioni che l’edificio stesso potrà subire. Sintetizzando, Purini, suddivide il progetto in due tempi: 1) coincide con la progettazione e costruzione del manufatto; 2) controlla e scandisce le lente trasformazioni alla quale l’uso lo sottopone dal suo apparire nella città. A questo proposito la lezione muratoriana sulla tipologia, ha cercato di annullare la distanza tra questi due tempi. Al tempo di formazione dei tipi edilizi ha risposto con tempo accelerato nell’ipotesi di trovare una concordanza di fase tra processo di trasformazione e struttura dell’edificio. In realtà, in termini più generici, il problema tipologico nell’architettura è incomprensibile se lo si colloca al di fuori di un quadro temporale. In conclusione al suo discorso Franco Purini ci spiega come la parola “progetto”  ha sempre significato la proposizione di qualcosa di nuovo o, semplicemente, il nuovo. Da qualche anno il progetto si è volto al recupero del tempo perduto dai manufatti prima esclusi da una città che voleva precedere il proprio tempo e oggi richiamati, attraverso il riuso, a ristabilire il tempo di una città più giusta o forse semplicemente più cauta nel consegnare al passato alcune parti di se stessa.

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UN INTERPRETAZIONE DEL CONCETTO DI AREA IN ARCHITETTURA

L’Alberti considera l’area una delle sei parti in cui si articola una costruzione; si tenterà ora di sviluppare ulteriormente questa indicazione attraverso l’ipotesi che a ciascun edificio, qualsiasi sia il suo inserimento reale, corrisponda una sola area virtuale come espressione del paesaggio ideale cui tutte le architetture sembrano tendere.

L’area può essere anche intesa come fantasma di curve di livello che nessun segno riconduce alla loro solidità e alla loro terrestre individualità.

Non esiste pensiero spaziale che non nasca dall’idea di margine e da quella più articolata di sistemi di margine, e cioè di recinto. Lo spazio delimitato, chiuso, definito è uno dei principi primi per l’intelligibilità della struttura del mondo fisico. Attraverso di esso si stabiliscono alcune fondamentali differenze qualificative nella continuità dello spazio: interno/esterno, vicino/lontano, dentro/fuori, sopra/sotto. Un recinto istituisce nello spazio aperto un principio di riconoscibilità “una cosa altra da se”, un insieme di stanze permette tra queste di stabilire gerarchie posizionali, di riferire lo spazio interno dell’una a quello delle altre, di considerare alcuni spazi più interni di quelli contigui proprio perché circondati da questi.

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IL PROBLEMA DELLA COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA

Franco Purini in apertura di capitolo ci pone un quesito: “perché la fase ideativa non  costituisce, come sembrerebbe logico, non solo l’oggetto di ricerche appassionate ma addirittura l’area problematica per eccellenza?”.

Le risposte, evidentemente, sono molteplici, ma si può comunque provare a darne alcune. L’architettura è sopraffatta dal suo destino utilitario e la considerazione dei suoi contenuti d’uso assume di necessità un ruolo preminente. Poi esiste la convinzione radicata che l’immaginazione sia un fatto insondabile e misterioso. Un’altra ragione è costituita dalla diffusa convinzione che il pensiero formale intervenga alla fine del processo progettuale e non all’inizio. La causa principale del vuoto attorno al problema delle tecniche d’invenzione risiede nella estrema difficoltà a studiare la fase iniziale della progettazione; c’è un momento, di questa fase, in cui lo sforzo creativo consiste in uno stato psicologico prossimo all’ossessione.

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LA COMPOSIZIONE ARCHITETTONICA NEL SUO RAPPORTO CON ALCUNE TECNICHE DI INVENZIONE

Le tecniche che verranno esposte in questo capitolo sono sette: l’associazione concettuale tra elementi diversi; la riduzione dell’archetipo; la semplificazione e schematizzazione dei sistemi di appoggio sul terreno; le operazioni sulla geometria semplice dei volumi puri e dei tralicci elementari; la manipolazione degli elementi usuali; lo straniamento e la disarticolazione. Nell’elenco delle tecniche sarà risultata certamente evidente la mancanza di un riferimento alla nozione di tipologia, ma questa assenza risulta essere premeditata.

1)     La prima tecnica è l’associazione concettuale tra elementi diversi. Questa consiste nel far reagire coppie di elementi apparentemente definiti ed autonomi. Un esempio particolarmente evidente riguarda l’associazione tra i concetti di muro e di finestra. La finestra può essere definita come una bucatura su una superficie. A partire da questa definizione si può lavorare sulla dimensione bidimensionale della bucatura, ingrandendola, e su quella tridimensionale del muro, ispessendolo. Il risultato è una spessa lamina muraria che può accogliere cale e percorsi, traversata da aperture tridimensionali.

2)     E’ stata definita riduzione dell’archetipo la seconda tecnica. Questa somiglia ad un viaggio a ritroso nel tempo e nello spazio alla ricerca dei caratteri primitivi degli elementi. Il viaggio si svolge in due direzioni: verso un origine ipotetica del singolo oggetto e verso sistemi generatori delle composizioni architettoniche, gli archetipi che si possono riassumere nella foresta e nella rupe isolata. La considerazione degli archetipi ci fa intravvedere nella progettazione l’inconfrontabilità dell’evoluzione dell’architettura con il nostro orizzonte pratico “l’archetipo ci costringe in un angolo della nostra coscienza a misurarci con l’impossibilità di interiorizzare l’intera esigenza che ci spinge al progetto”.

3)     La terza tecnica è definita come la semplificazione e schematizzazione dei sistemi di appoggio al terreno, e se sulla semplificazione ogni spiegazione è superflua, non è così per la schematizzazione. Schematizzare gli appoggi, e cioè ridurli alla disposizione su di un basamento  e alla costruzione di un volume costruito su colonne , equivale ad evocare la posizione giacente a quella eretta. Il basamento costituisce il prologo dell’edificio ed è anche l’incrocio degli assi orizzontali che si prolungano all’esterno con l’asse verticale che inchioda la costruzione al terreno. Il secondo tipo di appoggio sviluppa la posizione eretta e il tema della “foresta”. Foresta di colonne come nel progetto di Giuseppe Samonà per gli ufficio del parlamento a Roma.

4)     Sulla quarta tecnica è immediato rendersi conto che la variazione geometrica su di un volume primario ha più effetto della complicazione di un volume già di per se articolato.

5)     Anche la quinta tecnica è immediatamente comprensibile essendo per di più analoga alla precedente. La scelta di lavorare su elementi noti, usuali, significa operare spostamenti su ciò che potremmo definire una riduzione statistica alle caratteristiche comuni.

6)     La sesta tecnica, analoga alla precedente, è lo “straniamento”. Secondo la definizione di Sklovskij questo significa “descrivere un oggetto come se lo si vedesse per la prima volta”. Ma cosa significa straniamento in architettura?...Significa due cose, la prima consiste nel progettare elementi come se si usassero per la prima volta e ciò comporta, e questo è il secondo significato, porsi quando si progetta al di fuori della pratica disciplinare. Ciò non è un paradosso: occorre evitare che la pratica del progetto si costituisca come un bagaglio tecnico autonomo dalla coscienza.

7)      La disarticolazione, invece, corrisponde al separare tutto ciò che è unito fino ad arrivare a cellule non più separabili. Questa tecnica è applicabile a tutti i problemi della progettazione, compreso quelli tipologici. Il procedimento disgiuntivo permette di liberare le vocazioni autonome delle parti di un sistema.

 

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UNA PROSPETTIVA PER  L’ ABITARE

La città si divide in zone riconoscibili e diverse a seconda della loro funzione e comincia ad esprimere, contro la precedente unità edilizia, una separazione formale basata sull’identificazione di edifici ciascuno dei quali corrisponde ad una azione urbana. Gli edifici pubblici elencati minuziosamente dal Milizia (Principi di architettura civile, illustrazioni e commento dell’Arch. Giovanni Antolini, Milano 1847), denunciano la rottura dell’unità urbana e la sua irreversibile frammentazione. Come nodi monumentali questi edifici ridisegneranno sui vecchi tessuti un nuovo ordine che si imporrà attraverso un disegno per capisaldi, per rettifili, per fondali che nella compostezza e nell’omogeneità neoclassica, ereditata  dalla grande tradizione dell’urbanistica barocca ,troveranno la loro misura. L’elemento che differenzia profondamente la città moderna da quella precedente consiste nella omogeneità tipologica di quest’ultima. Le differenze spaziali interne alla città antica, anche se notevoli, si sviluppavano, se così si può dire, da uno stesso tronco tipologico e formale. Le città si modificavano con lentezza, inoltre non erano divise in zone funzionali interconnesse da cui una qualità irripetibile dello spazio urbano.

Le proposte sulla residenza nel nostro secolo, possono essere suddivise in 3 grandi categorie, che potrebbero essere definite come la “metafora totale”,  “l’utensile esatto”, o “la macchina per abitare”, e “la casa realistica”. L’area della metafora totale include tutte le alternative in cui un forte utopismo formale e organizzativo si proietta sull’intero organismo urbano. La casa collettiva proposta dagli architetti sovietici , all’interno della tematica dei condensatori sociali, è forse l’emblema di questa direzione di ricerca. L’utensile esatto è una definizione che riguarda quelle proposte come l’unitè lecorbusiana che si collocano in una posizione intermedia tra utopismo sociale e analisi realistica dei modi di produzione della città. La categoria della casa realistica comprende tutte quelle realizzazioni, come le Hofe e le Siedlungen, che cercano di cogliere il senso delle trasformazioni reali rinunciando ad ogni proiezione futuribile e a qualsiasi ampliamento del tema (si contrappongono come fortezze operaie alla città borghese in un rapporto didatticamente esatto).

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L’ARCHITETTURA DIDATTICA

L’architettura tende a produrre fatti duraturi che traversano il tempo di alcune vite umane. A causa di questa permanenza, qualsiasi manufatto, anche se non potrà che risultare radicato nello stile dell’epoca che lo ha visto nascere, dovrà anche adeguarsi alla scena preesistente senza  invadenze o sopraffazioni. La ricerca architettonica oscillerà continuamente tra i sogni di  astratte ma affascinanti purezze laugeriane e gli opposti abbandoni  all’impeto della immaginazione personale che cerca di farsi carico dell’intera tradizione dell’architettura per farle traversare il deserto della ripetizione, del conformismo edilizio. La definizione dell’architettura come arte collettiva sembra apparentemente  scontrarsi  con le istanze pluralistiche che, provenendo oggi dalle classi sociali e dai gruppi, anche tra loro in opposizione, interni a quest’ultime,  rivendicano la necessità di rappresentarsi  nella città senza deleghe e unanimismi  ma portando in questa  il segno della propria figura di soggetti storici. Questa contraddizione non è reale : in ciascuna delle sezioni della società  nelle quali si manifestano queste esigenze, ma anche nella società nel suo insieme, la tensione verso un’architettura  riconoscibile nel suo rapporto con la città non può che crescere come effetto di quella complessa razionalità storica che costituisce la struttura di qualsiasi forma dell’abitare. Possiamo sostenere che le forme sulle quali  occorre operare sono in qualche modo quelle più diffuse nella  memoria di ciascuno di noi. L’elemento banale si propone allora come il più complesso detonatore in grado di far scattare il meccanismo della creazione architettonica. Molti sostengono di no, affermando che l’architettura non ha significati  verbali ma solo contenuti  autonomi riferiti alla sua realtà tridimensionale e geometrica. Ha scritto a questo proposito Galvano della Volpe : “L’architettura esprime idee, valori, con un sistema di segni tridimensionali - geometrici : con un linguaggio, cioè, costituito dalle misure adatte all’istituzione di ordini visibili mediante la ripetizione di  masse similari …..”. Il segno architettonico è “insieme agli altri segni figurativi e a quello musicale, non convenzionale nel preciso senso che è convenzionale, sappiamo, il segno linguistico …”. L’architettura come arte collettiva  nella pluralità deve fare i conti con il  problema di una nuova retorica architettonica,  problema non certo ignorato dal Movimento Moderno ma d questo abbondantemente mistificato. La retorica del nuovo ha costruito la sua totalità sulla pretesa di una naturalità evolutiva del mondo sostenuta dal procedere lineare del progresso industriale. Necessità di una nuova retorica per l’architettura, necessità quindi della metafora come figura retorica per eccellenza dell’architettura. Esistono tre tipi di metafora in architettura i quali  procedono verso una profondità progressivamente maggiore.  Il primo tipo è quello che potremmo definire della metafora “diretta” e “verbale”. Secondo tipo di metafora quello che potremmo definire  della metafora !”verbale indiretta”. Il terzo tipo di metafora, il più interno agli elementi  propri dell’architettura, potrebbe essere definito quello della metafora “non verbale o autonoma”. Il disegno di architettura ha sofferto di una dura repressione nel corso di tutta la storia dell’architettura moderna.  Mies van der Rohe ha scritto : “Accanto alla formazione scientifica gli studenti devono imparare innanzitutto a disegnare, in modo da dominare la tecnica del mezzo espressivo ed addestrare l’occhio e la mano. Mediante esercizi bisogna trasmettere loro il senso della proporzione, della struttura, della forma e  del materiale, chiarire le loro connessioni e le loro possibilità espressive”. Il problema del disegno come mezzo di esplorazione non solo del progetto, ma anche dell’intero territorio dell’architettura è una riscoperta recente della generazione di architetti che ha oggi tra i 35 ed i 40 anni. Costoro non disegnano semplicemente perché non hanno la possibilità di costruire  per davvero, ma disegnano per esplorare la possibilità  conoscitive dell’architettura, le quali non sono riducibili al solo momento progettuale  “concreto”. L’architettura didattica è quell’architettura che sa insegnare alla città la propria  necessità mentre sa adeguare  continuamente la propria natura alle trasformazioni sociali. Ma è anche l’architettura che apprende dalla città stessa il proprio limite e cioè il suo essere strumento e non fine,  utensile umano circoscritto e parziale, inchiodato al  proprio tempo ma costretto a smentirlo nell’obbligo della durata.

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UNITÀ E DIVISIONE

Uno degli enigmi più coinvolgenti tra quelli che ci vengono proposti dalla vicenda dell’ architettura moderna e che ha attraversato la ricerca di tutti i suoi protagonisti con ben poche eccezioni, consiste senza dubbio nell’ ossessione per la differenziazione degli edifici a partire dalla loro funzione. L’ edificio deve mostrare ciò che è senza possibilità di interpretazioni ambigue; tra essere ed apparire non può esistere scarto alcuno. Il problema è capire perché la casa è stata distrutta in quanto principio unico e sufficiente della complessità urbana e a questo è stata sostituita una pluralità di principi specialistici incapaci di stabilire tra di loro i rapporti organici proprio perché generati da logiche tra di esse irriducibili. Due processi contrapposti quindi: nella città antica l’ articolazione dell’ unità, nella città moderna la differenziazione come principio; la prima sviluppa il molteplice da uno stesso materiale, la seconda insegue un’ impossibile unità a partire dalla sua preliminare distruzione.

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