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Autore

ANTONIO MONESTIROLI

Titolo

LA RAGIONE DEGLI EDIFICI, la scuola di Milano e oltre

Editore

CHRISTIAN MARINOTTI EDIZIONI s.r.l.

Luogo

MILANO

Anno

2010

 

 

Lingua

ITALIANO

 

 

Prima edizione

 

 

 

Descrizione: http://www.postmediabooks.it/2004/13/coverPARALLAX.jpg

Argomento e tematiche affrontate

“La ragione degli edifici” è un saggio di Antonio Monestiroli, che tratta temi di grande importanza; in particolare concentra gran parte dell’attenzione sul significato che un edificio deve portare con se sin dalla fase progettuale e mostrare una volta costruito, in modo tale che le persone lo riconoscano.

Una prima parte introduttiva spiega la problematica della distinzione tra complessità e semplificazione in architettura. Con l’aiuto di esempi dati dalla storia contemporanea e non, come Le Corbusier, riesce a definire questi due elementi e le loro relazioni e ricadute che hanno avuto nell’architettura del Novecento.

Successivamente il saggio entra nella sua seconda parte dove l’autore propone esempi di architetti del Novecento, nello specifico architetti che hanno fatto parte della Scuola di Milano; ogni capitolo dal secondo all’ottavo sono destinati ad un architetto e al suo modo di fare architettura: Franco Albini, Ignazio Gardella, Adalberto Libera, Ernesto Nathan Rogers, Asnago e Vender, Giorgio Grassi e infine Aldo Rossi. Per ognuno di essi Monestiroli ne illustra prima il pensiero e il modo di relazionarsi al progetto e successivamente ne presenta alcuni progetti.

Gli ultimi due capitoli, invece, si possono raggruppare nella terza parte del libro. Il nono affronta un discorso sulla realtà e sulle forme necessarie a rappresentarla al meglio, arrivando alla conclusione che un edificio debba esprimere e soprattutto far conoscere la ragione per cui è stato costruito e l’unico modo per fare ciò è partendo da un’analisi attenta sulla realtà. L’ultimo capitolo, infine, presenta una serie di progetti dello stesso autore come testimonianza ed esempio degli argomenti trattati nel corso dei capitoli.

 

Giudizio Complessivo: 8

Scheda compilata da: Jacopo Ferrara

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

  

 

Descrizione: http://virginiamodern.files.wordpress.com/2011/05/steven-holl.jpg?w=615&h=421

Autore

 

Antonio Monestiroli, nato a Milano nel 1940, si è laureato in architettura al Politecnico di Milano nel 1965 con Franco Albini. Dal 1968 al 1972 è stato assistente e collaboratore di Aldo Rossi. Dal 1970 ha insegnato Composizione architettonica alla facoltà di Architettura del Politecnico di Milano e dal 1997 alla facoltà di Architettura Civile. Ha insegnato alla Facoltà di Architettura dell'Università "G. d'Annunzio" di Chieti/Pescara e all'Istituto Universitario di Architettura di Venezia (IUAV). Nel 1979 è stato Visiting Professor alla Syracuse

 University

 a New York, nel 2004 al Dipartimento di Architettura della Delft University of Techology. Dal 1988 al 1994 è stato Direttore del Dipartimento di Progettazione dell'Architettura del Politecnico di Milano. Dal 2000 al 2008 è stato Preside della Facoltà di Architettura Civile del Politecnico di Milano e contemporaneamente, dal 2007, insegna Teorie dell’architettura contemporanea presso la stessa Facoltà.  Nel 2010 gli è stata conferita la Laurea Honoris Causa dal Politecnico di Cracovia e, infine, dal 2011 è Professore Emerito di Composizione Architettonica al Politecnico di Milano.

Antonio Monestiroli

 

Contenuto

Il libro di Antonio Monestiroli “La ragione degli edifici” è un saggio che concentra la sua attenzione sul tema della finalità degli edifici di architettura, tema affrontato da sempre, ma in particolare durante il Novecento. Inizia dal trattare la questione di complessità/semplificazione in architettura, cercando di darne delle definizioni e spiegarne il conflitto che scaturisce da questi due termini; conflitto risolvibile solo cercando, durante lo svolgimento di un progetto, la vera ragione di tutte le cose.  Come lo scrittore stesso afferma nella “premessa” il libro può essere suddiviso in tre parti: una prima di introduzione al tema, puramente teorica, nella quale si affronta la diatriba tra complessità/semplificazione e che occupa essenzialmente il primo capitolo; una seconda nella quale vengo presentati degli esempi, sempre in coerenza con il tema affrontato, di protagonisti dell’architettura del Novecento (da Albini, Gardella, Rossi…), e una terza parte finale dove si affronta la nozione di realtà, intesa come fulcro del progetto di architettura.

 

CAPITOLI

Capitolo 1 - “Complessità e semplificazione nell’architettura contemporanea”

Come già anticipato la prima parte, che occupa tutto il primo capitolo, sviluppa considerazioni riguardo il dualismo complessità- semplificazione nell’architettura, cioè quella contrapposizione che vede come protagonisti il mondo dei fenomeni e la loro riduzione all’essenziale. In altre parole viene introdotto il passaggio dal complesso al semplice. Come primo testo-esempio a riguardo, Monestiroli cita Le Corbusier, che in “Vers une architecture” si pone per primo il problema di come rinnovare l’architettura trovando risposta in un ritorno alle origini, eliminando tutto lo stile ottocentesco, pesante ed eccessivo. “L’architettura è pura concezione dello spirito”affermava a gran voce il Maestro francese, vedendo nell’architettura la finalità della commozione, ossia attraverso quello che lui chiama ordine fatale, ordine delle cose che porta con sé l’esperienza vissuta, un oggetto, come anche un edificio, può suscitare emozioni. Monestiroli a riguardo cita anche Diderot, secondo il quale il bello è una “questione di rapporti”, di proporzioni come l’ordine fatale, che sottolineano il significato di una forma. In sintesi si deve progettare forme in funzione della finalità, producendo forme in cui ci si possa riconoscere. Per poter raggiungere questo obiettivo, lo scrittore individua come fondamentale il processo razionale, cioè solo usando la ragione si può sostituire alla vecchia concezione accademica quella moderna basata sulla conoscenza, una ragione che fa comprendere significati, propri della nostra esistenza e riconoscibili attraverso le forme. A tal proposito viene introdotto anche il lavoro di Aldo Rossi, che individua due tipi di ragione: una che crea manufatti che rispondono alla sola funzionalità e una che invece riconosce le emozioni che un opera suscita. L’emozione, quindi, è il fine dell’architettura, non una vera e propria novità perché già con l’Espressionismo si era affrontato questo tema.

Ma come è possibile suscitare emozioni?

Il razionalismo, come più in generale il Movimento Moderno, predica un abbandono dello stile ottocentesco, in quanto pesante ed eccessivo, quindi apparentemente attuando un processo di semplificazione delle forme. È qui, infatti, che inizia la parte principale di questo capitolo. Come si è detto il Movimento Moderno chiede una semplificazione, ma intesa come “modo della conoscenza di un nucleo emozionale che la contiene e la rappresenta in ogni grande opera”, cioè un processo che dà la possibilità di venire a conoscenza della reale qualità di un’opera. Quindi Monestiroli e il Movimento Moderno trattano di una semplificazione non come negazione della complessità, ma come conoscenza delle sue qualità.

 Il Movimento Moderno ha avuto una visione tipicamente legata al pensiero classico, che ha sviluppato una teoria della progettazione intesa come punto d’incontro tra i fini dell’architettura e i modi di costruzione, ma questa visione non è stata portata avanti nel tempo, facendo si progetto e costruzione perdono importanza. Il progetto non ha più un’identità e si traduce come riproduzione della realtà, così che ogni utopia viene abbandonata. Proseguendo Monestiroli afferma che oggi è diventato più importante il modo di costruzione che ciò che in realtà si costruisce, proprio perché la costruzione ha perso il suo valore globale, abbandonando la complessità del progetto.

Un altro elemento che ha definito la crisi del Movimento moderno è il rapporto architettura-città, rapporto modificato dal secondo dopoguerra diventando una sovrapposizione di realtà, che però non ha legami con l’architettura.

Come conclusione a questo primo capitolo Monestiroli illustra le due posizioni sull’architettura sorte nel Novecento: una che vede l’architettura come conoscenza della realtà, l’altra, antitetica alla prima, che vede necessario adeguarsi alla realtà nel suo continuo mutare. Questi due modi di vedere l’architettura creano contrapposizioni, superabili solo, secondo lo scrittore, adottando un procedimento che non fa perdere la ricchezza del reale, non limitandosi solo ad una presa di coscienza della sua manifestazione.

 

Capitolo 2 – “Franco Albini, un caposcuola dell’architettura razionale”

Nel secondo capitolo l’autore comincia ad illustrare una serie di maestri della Scuola di Milano iniziando con Franco Albini. Come prima cosa lo presenta come un “caposcuola”, cioè il fondatore di quella che è conosciuta come la Scuola di Milano. Nel capoluogo lombardo è sempre stata presente l’idea che la ragione sia non solo un mezzo per arrivare alla felicità, ma anche uno strumento per dare un significato ai nostri sentimenti e conoscere la realtà; ma anche l’arte, secondo Banfi, maestro  di Albini, è un mezzo di conoscenza del reale e quindi arte e realtà non devono essere separate. Si andava, quindi, formando quell’idea che fosse la ragione il fondamento di tutte le cose e Albini ne era cosciente e nasceva dentro di lui quella volontà di cercare la verità in tutte le cose. In stretto legame con questo concetto c’è anche la convinzione che per conoscere la verità un progetto, in architettura,  debba sempre partire dall’analisi e dallo studio del tema, considerato come il tramite tra architettura e realtà.

“Conoscere il tema” diventa quindi sinonimo di “conoscere la realtà”. Albini lavora molto su questo aspetto, lo studio del tema è sempre stato un elemento importante in tutti i suoi progetti testimoniato dalle molteplici prove fatte per ognuno dei suoi progetti per trovare la soluzione migliore, sempre però cosciente del fatto che non è possibile vivere secondo ragione. Un altro elemento caratterizzante il lavoro di Albini è la questione tipologica. Il tipo, infatti, non è altro che la traduzione in forma del tema e, quindi, fortemente legato al tema (per i razionalisti il tema ha suscitato delle soluzioni, che, con il passare del tempo, hanno evidenziato delle caratteristiche comuni creando così il tipo).

Albini, infine, si distingue dagli altri esponenti della Scuola di Milano per il suo interesse per il tema della costruzione, in particolare la costruzione degli interni. A tal proposito Monestiroli porta come esempio la casa di Albini: piccolo appartamento occupato in gran parte dal soggiorno. Apparentemente non è altro che un appartamento come gli altri, con quadri e arredi tipici, ma la cosa su cui l’autore si sofferma di più è la libreria di casa Albini: una sorta di tensostruttura senza appoggio a terra in legno e vetro posizionata al centro del soggiorno. La libreria costruiva lo spazio intorno a sé essendo l’elemento più importante della stanza, che subito catturava l’attenzione. I libri staccati dal suolo quasi sospesi creavano un’atmosfera di perfetto equilibrio. In questo esempio la costruzione fa sì che siano i libri i veri protagonisti dello spazio, facendo passare la struttura in secondo piano.

Questa è la filosofia di Franco Albini, filosofia applicata per tutti i suoi progetti. Il carattere di un suo edificio, ma così come per ogni edificio, non è altro che il risultato dello studio del tema passando dalla costruzione. Un ulteriore esempio che riporta l’autore è la Rinascente di Roma, edificio per cui Albini è maggiormente ricordato. Da una attenta analisi non è altro frutto del lavoro sul tema del magazzino, arricchito da una struttura leggibile dall’esterno e chiuso da un involucro che è movimentato da elementi sporgenti, che racchiudono gli impianti.

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                                 Franco Albini, Libreria                              Franco Albini, Rinascente, Roma

  

Capitolo 3 – “Ignazio Gardella compie cent’anni”

Nel terzo capitolo Monestiroli introduce un altro maestro: Ignazio Gardella. Lo scrittore si rifà ad una conversazione avuta proprio con Gardella, nella quale il maestro gli ha spiegato le caratteristiche dei suoi progetti e del suo modo di lavorare. Gardella afferma che per poter spiegare un progetto è necessario che il progetto stesso contenga dei concetti descrivibili a parole.

Nel Novecento era presente l’idea di una necessaria compartecipazione tra ragione e bellezza; idea che Gardella fa propria in modo più profondo, ossia come rapporto tra bellezza e verità delle cose, verità da ricercare. I razionalisti pensavano che la ragione degli edifici fosse da ricercare nella loro funzione, ma l’edificio con il passare del tempo va oltre la sua funzione; con il tempo, infatti, resiste la natura, ossia il carattere dell’edificio. Per cui Gardella prende in considerazione questo aspetto, considerando l’architettura strettamente legata all’architettura. Afferma, infatti, che l’eleganza è un fattore di scelte, cioè si devono sempre fare scelte per avere soluzioni adatte allo scopo.

Gardella era un razionalista, poneva la ragione prima di tutto, così da rendere ogni progetto una sorta di avventura della quale non si sapeva in finale. Dal suo approfondito studio sul progetto ne risultavano delle scelte dettate dalla razione, che metteva in evidenza con le forme piuttosto che con i materiali o con i colori.

Gardella trova soluzioni nuove, cerca la verità delle cose.

A questo punto l’autore fa un esempio, uno solo, perché racchiude tutto il pensiero e il modo di progettare di Gardella, descritto sopra: Casa Borsalino ad Alessandria. È una palazzina nata per gli impiegati della fabbrica Borsalino. Si trova in una zona periferica di Alessandria: il fronte nord è quello più urbano, mentre quello sud, più assolato, è quello rivolto verso la campagna. Gardella parte dal rifiuto del blocco razionalista perché “troppo schematico”, per dare vita ad una forma differente e più espressiva. È composta da quattro alloggi per otto piani di altezza. Gardella è come se partisse da un parallelepipedo e iniziasse a eliminare e scavare il suo volume da quello di partenza. I quattro appartamenti sono infatti chiaramente distinguibili dall’esterno per la forma  dell’edificio: sono tre blocchi uniti da due corpi scale; il blocco centrale è leggermente piegato nella sua metà, facendo appunto notare che in una metà c’è un appartamento e nella seconda un altro. Gardella studia ogni particolare, concentrando grande attenzione nelle due testate della palazzina. Tutto è progettato; anche il posizionamento: tutti i locali, infatti, hanno un affaccio verso la campagna (a sud), il soggiorno con doppio affaccio. Il tetto è un tetto piano con un importante sbalzo (due metri). Le finestre sono aperture da pavimento a soffitto, con degli oscuranti che scorrono su dei binari e quindi si ha la possibilità di poterle posizionare a piacimento, dando una certa libertà alla composizione della facciata.

Ne risulta un edificio nobile ed elegante, pur essendo nato come residenza per operai.

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Ignazio Gardella, Residenze Borsalino, Alessandria

  

Capitolo 4 – “L’architettura come magnificenza. Adalberto Libera”

Adalberto Libera è il quarto architetto di cui parla Monestiroli nel suo saggio; architetto di Trento che ha scelto di lavorare a Roma, città già ricca di architetture storiche e moderne. Libera ha un modo di vedere l’architetture molto realista, cioè è animato da un realismo che dà un significato all’architettura. Ha fatto parte del Gruppo 7 e successivamente del MIAR (Movimento Italiano Architettura Razionale), schierando si quindi dalla “parte” dei razionalisti.

Lui, come del resto gran parte dei razionalisti, vedeva l’architettura come costruzione del mondo, affidando alla ragione il compito di costruire un’architettura nella quale riconoscere la cultura del proprio tempo. Trovandosi a Roma si confronta con l’architettura antica, a cui Libera ne riconosceva la grandezza e la riconosceva come modello. Per farlo ci potevano essere diverse strade: o, come i razionalisti, rifondando tutti i principi in maniera radicale o, come gli storicisti, che pensavano che per poter aspirare al modello antico bastava rimanere nelle forme antiche semplificandole.

Libera, da parte sua,  aveva individuato un elemento irrinunciabile e sempre presente nelle architetture antiche: la magnificenza, intesa come parte integrante dell’architettura. Quindi, Libera rifonda l’architettura mettendo in evidenza il suo fine ultimo, ossia costruire il mondo attraverso forme che rappresentassero i suoi significati. “Le opere migliori sono quelle che, rifiutando ogni storicismo e ogni tecnicismo, si pongono il problema della rappresentazione della ragione per cui sono costruite”. Quindi, la magnificenza di cui parlava Libera non sta nelle forme, ma nel motivo per cui un edificio viene costruito. Libera concentra il suo lavoro sul tema della magnificenza, studiando in ogni occasione un tipo edilizo che la poteva contenere nel migliore dei modi.

A Roma Libera si innamora del Pantheon e per tutto il corso del suo lavoro cercherà di realizzare un’architettura di quel livello, facendo proprio il tema del luogo d’incontro di un gran numero di persone sotto un unico tetto (auditorium/aula/tempio).

Gli esempi che l’autore fa riguardo Libera sono un edificio a pianta centrale e il progetto per la risistemazione del mausoleo di Augusto.  Il secondo è un impianto in cui la parte centrale, che racchiude l’aula vera e propria, emerge da un volume più basso, una sorta di basamento, che contiene tutti i servizi necessari all’aula. L’ula prende luce dall’alto. È un progetto nel quale Libera inserisce elementi storici ed elementi tecnici (i committenti spesso facevano questo tipo di richieste); costruisce, infatti, un portico anteriore e uno posteriore: il primo si rifà alla storia citando il pronao dei templi, il secondo, invece, alle forme tecniche, avendo i pilastri in ferro. L’opera rimane incompiuta perché lo stesso Libera afferma di non essere riuscito a trovare le forme della costruzione.

Nella conclusione del capitolo Monestiroli cita un’altra opera di Libera: Casa Malaperte a Capri. È una piccola casa nella quale la magnificenza sta nel luogo in cui sorge: la casa, infatti, sorge a strapiombo su uno dei versanti della scogliera dell’isola campana.

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Adalberto Libera, Progetto per il Mausoleo di Augusto, Roma                    Adalberto Libera, Casa Malaparte, Capri

  

Capitolo 5 – “Ernesto Nathan Rogers. L’architettura come esperienza.”

Nel quinto capitolo Monestiroli affronta un quinto esponente della scuola di Milano: Ernesto Nathan Rogers. L’autore lo introduce parlado di un suo libro che gli era stato regalato quando era ancora bambino (“Esperienza di architettura”), libro apparentemente filosofico e storico con riferimenti all’architettura. Ma Rogers era proprio così: nel trattare argomenti partiva sempre da lontano. Vedeva l’architettura come parte integrante della nostra vita e delle nostre capacità di conoscere il mondo: basava quindi tutto il suo pensiero sull’esperienza, intesa come legame tra le forme e la vita stessa che produce. Prima di Rogers si insegnava la storia dell’architettura e le tecniche delle costruzioni, due macrosistemi che compongono l’architettura, ma si tralasciava quello che era il legame tra forma e vita, introdotto da Rogers. Secondo il Maestro, infatti, la storia e la tecnica hanno senso solo se animate da una loro ragione d’essere, da una loro natura, che le lega al tempo. La natura, la tecnica e la storia sono ,quindi, i tre punti cardinali del pensiero di Rogers.

L’archietettura è, quindi, intesa come un fenomeno, un qualcosa che si manifesta all’esperienza e le è strettamente legata. Conoscendo la qualità di un edificio si può arrivare a definirne la sua costruzione e a sua volta la qualità svela la natura dell’edificio per mezzo della forma. Rogers, quindi, cosciente dell’importanza della forma, ne attua uno studio sistematico e attento.

Inizia la professione nei BBPR (Gian Luigi Banfi, Lodovico Belgioioso, Enrico Peresutti) che cercano di risolvere il problema del loro tempo, già individuato da Pagano e Persico tempo prima, di individuare e creare uno stile. Già nel periodo fascista si cercava un linguaggio comune, ma probabilmente il subito successivo Movimento Razionalista italiano è il momento in cui si è sviluppata una vera e propria tendenza. In italia non c’era nessun edificio che provenisse dall’influenza di un maestro europeo, quindi si cercava qualcosa di nuovo, che poteva solo venire dai gruppi che in quel tempo lavoravano a Milano e a Roma; e questo qualcosa di nuovo era una tendenza ad opporsi al formalismo cercando la vera ragione delle forme d’architettura.

Rogers, prima di altri, capisce all’interno del razionalismo, italiano o europeo che sia, vive una forte contraddizione: infatti, capisce che il metodo delle scelte fatte secondo ragione non coincide con tutti quelli edifici che portano il nome di “architetture razionaliste”. La contraddizione sta, quindi, nel fatto di usare il razionalismo come scelta linguistica e la vera e propria architettura razionale. Per cui per Rogers non esiste separazione tra architettura organica e architettura razionale: i loro esponenti , che sia Adolf Loos, Franck Lloyd Wright, Mies Van Der Rohe hanno in comune la coscienza dello scopo per il quale un edificio è costruito.

Un’altra caratteristica importate di Rogers è l’importanza che dà al metodo, al centro del quale sta l’idea di unità, un’unità delle conoscenze di architettura, negazione di ogni sepazazione tra forma e funzione, forma e struttura, struttura e decoro. Il progetto ogni volta si costruisce ripercorrendo tutte le fasi di cui è composto.

Prima di trattare di un’opera di Rogers, Monestiroli affronta un ultimo tema che caratterizza l’architetto: il suo rapporto con tradizione e storia. Per Rogers la tradizione non è altro che “un’esperienza allargata”, ossia e un riprodursi delle esperienze di tutti noi nel tempo, tutte collegate tra loro. La storia, invece, è un qualcosa di più oggettivo: tutte le azioni che noi svolgamo nel nostro tempo hanno una loro ricaduta, lasciano una sorta di traccia, dando vita così alla storia. Per rogers il passato ha senso solo se legato al presente.

Verso la conclusione del capitolo l’autore porta come esempio uno dei simboli dell’architetto, anzi uno dei simboli della città di Milano: la Torre Velasca, firmata, oltre che da Rogers, dai tre altri componenti del gruppo dei BBPR, citati precedentemente. La Torre è il perfetto esempio di armonia tra forma e struttura; quest’ultima gioca un ruolo fondaentale in tutta l’opera: è la vera artefice della forma della torre. Il progetto ha infatti il suo punto forte quando la struttura si mostra al pubblico uscendo all’estreno dell’edificio. È l’elemento che lega i due volumi di cui è compostra la torre. Importante per questa torre è stata l’insegnamento di August Perret, padre del cemento armato, e il legame con il luogo in cui sorge: non dimentichiamo che la tipologia a torre offre la possibilità di cambiare il profilo di una città, soprattutto se vista da lontano.

Nell’ultima parte del capitolo Monestiroli fa una roeta di “bilancio” su quanto fatto da Rogers e soprattutto dai suoi allievi, che hanno dato un contributo importante alla teoria dell’architettura come esperienze, introdotta da Rogers. Il loro operato è quello di sviluppare un progetto per una realtà migliore, obiettivo che dovrebbero avere tutti gli architetti.

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E.N.Rogers “Esperienza dell’architettura”                                        BBPR, Torre Velasca, Milano

  

Capitolo 6 – “Asnago e Vender. La ricerca delle forme proprie.”

Il sesto capitolo si apre con l’individuazione di un dibattito italiano tra “novecentisti” e “razionalisti” sul linguaggio, anziché sull’architettura, che ha fatto perdere di vista la costruzione e gli altri temi forti dell’architettura, impedendo una crescita della ricerca. I “novecentisti” hanno usato forma storiche che intento evocativo, mentre i “razionalisti” hanno usato forma più moderne, con lo stesso intento, ma entrambi sono accomunati da un’indifferenza verso il linguaggio.

Asnago e Vender, protagonisti di questo capitolo, ne sono usciti facendo una scelta che li ha caratterizzati e ne ha fatto degli architetti riusciti: decidono, infatti, di non schierarsi in questo dibattito, di starne fuori, cercando una via di uscita da questa diatriba. La loro ricerca punte verso la definizione delle forme proprie. A tal proposito l’autore cita subito due esempi: la casa in via Euripide a Milano e le case coloniche a Torrevecchia Pia, la prima in città la seconda in campagna, ma accomunate da forme fuori dagli schemi figurativi del tempo. Il risultato è di forme molto semplici. L’obiettivo dei due architetti è quello di ricercare una norma allacostruzione della città speculativa.

Il problema a cui vogliono trovare la soluzione i due architetti è ,infatti, che nella città speculativa i regolamenti edilizi hanno abbandonato ogni norma architettonica, quando invece per creare una città ordinata servirebbe una normativa che dividesse per tipologie gli elementi urbani e ne regolasse i rapporti. Ne risente, quindi, tutta l’edilizia borghese, più legata all’architetto, che però, non rendendosi conto del problema, si attiene ai regolamenti d’igiene, al mercato degli alloggi e dei materiali trascurando il fine dell’architettura.

Asnago e Vender, nonostante le difficoltà, cercano di agire in senso opposto, cercando di stabilire i caratteri propri di ciò che costruiscono. Ne sono esempio la casa in Via Euripide 1, che affronta il discorso del tipo , ma soprattutto la casa in Via Albricci 8, alta otto piani e divisa in due parti una per le residenze una per gli uffici. Una parte ha la funzione di basamento per l’altra e il passaggio da una parte all’altra è trattato con estrema semplicita e ridotto ai minimi temini. Un altro edificio significatico è quello in Via Velasca: anche qui si distingue la presenza del basamento. La finestra cerca sempre più luce, diventando sempre più grande.

 La cosa più importante è la conoscenza di ciò che si sta costruendo e la rappresentazione di ciò che essa è; in questo modo l’architettura torna ad essere oggetto di conoscenza lasciando per un attimo in disparte il dibattito di cui si è parlato all’inizio.

Un altro esempio a cui fa riferimento monestiroli in questo capitolo è l’edificio in Via Lanzone: è un edificio per uffici alto tre piani. La costruzione è ridotta alla definizione del suo volume  e alla disposizione di ampie portefinestre che ne definiscono il carattere. Rivestito in marmo, tutto è affidato alla forma, alla disposizione delle aperture e alla semplicità di ogni elemento.

Il capitolo si conclude con una riflessione su i due architetti: architetti della semplicità, ma di grande importanza soprattutto in relazione al tempo in cui hanno lavorato. L’architettura è arte di costruire e loro lo ricordano attraverso il realismo e la semplicità dei loro edifici, perché lo scopo è sempre quello di conoscere la ragione degli edifici attraverso gli elementi che la compongono e dei loro reciproci rapporti.

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Asnago e Vender, casa Via Euripide           Asnago e Vender, casa Via Albricci        Asnago e Vender, casa Via Velasca

   

Capitolo 7 – “Teoria e progetto nell’architettura di Giorgio Grassi.”

Il settimo capitolo è dedicato alla figura di Giorgio Grassi, personaggio innovativo perché porta nella città contemporanea delle forme che sono in netto contrasto con questa e con le proposte che hanno nella città contemporanea il loro fine espressivo. Il motivo di questo contrasto viene da una scelta teorica, cioè cercare le regole dell’architettura nell’architettura stessa. Così Grassi crea delle forme che vanno al di là dell’attualità, ma al tempo stesso non sono forme richiamate dalla storia.

Monestiroli afferma che ci sono due tendenze nel campo dell’architettura: una che considera l’architettura al di fuori del contesto dell’utile (quindi negativa) e una che attribuisce all’architettura facoltà espressive. Grassi, insieme ad Aldo Rossi, riesce a riscoprire la reale attualità dell’architettura. È cosciente del fatto che l’architettura ha una realtà consolidata nella storia, realtà famigliare, ma che è necessario riscoprire per tornare a conoscere l’architettura.

L’architettura, quindi, per Grassi, non deve essere re-inventata, basta solo riscoprire quella realtà. La ricerca di questa realtà porta Grassi a trovarla in quella che è chiamata “tendenza classica”; l’epoca classica è infatti caratterizzata da architetture tutte legate l’una all’altra da un aspetto comune: costruire delle forme corrispondenti alla vita degli uomini. Questo è il fine dell’opera classica, ma è anche l’unico modo grazie al quale si considera il proprio lavoro una parte imprescendibile della realtà, una realtà che, come nel caso di quella classica, è conoscibile solo attraverso un’analisi delle opere, della loro forma e dei suoi obiettivi.

Un’alternativa a questa visione è il suo completo opposto: un’architettura che nega il suo obiettivo di bellezza e divide forma e contenuto.

Ancora prima che nei suoi progetti, Grassi studia un’alternativa alla città brutta analizzando e creando un manuale di tutte quelle architetture della storia che possono essere la soluzione al problema: case di Tessenow, la casa Rufer di Loos, i quartieri di Oud, la città di Hilberseimer e altre.

Grassi ha un’idea di architettura diversa dal solito: per lui tutto è architettura, lo sono edifici realizzati e quelli ideati lo sono le teorie e i principi. Grassi nel suo scritto “La costruzione logica dell’architettura”, si ricollega a tutte quelle architetture individuate precedentemente, considerandole architetture della città che definiscono il mondo in forme a cui lui fa riferimento nel suo lavoro.

Il capitolo poi tratta del rapporto di Grassi con la storia, un rapporto al di là di ogni tipo di imitazione, un rapporto stabilito sulle forme proprie dell’architettura che vengono riconfermate.

Poi l’autore passa ad una questione più complicata: citando una frase di Leon Battista Alberti, secondo cui la città è una grande casa e la casa a sua volta è una piccola città, si tratta, con l’aiuto dell’operato di Grassi, delle relazioni che ci possono essere all’interno di una città. Per Grassi, come un edificio è caratterizzato da elementi, come muri finestre, colonne, che ne fanno riconoscere la complessità, anche le città manifesta la sua complessità attraverso le tipologie edilizie. In particolare i rapporti casa-strada, architettura-spazio pubblico generano sistemi formali unitari e permanenti nel tempo in cui i tipi architettonici diventano l’elemento di principale riconoscimento.

Si tratta quindi di un’analisi attraverso elementi primari e sistemi architettonici, che non rimangono uguali nel tempo, ma mutano la loro forma ogni volta che si riaffermano. Quindi la ricerca di elementi che possono costituire una troria dell’architettura non può portare a elementi con forme definite una volta per tutte, ma porta ad individuare gli elementi comuni presenti in ognuno di essi. È quindi un processo di generalizzazione della realtà dell’architettura.

Nell’ultima parte del capitolo Monestiroli afferma che, analizzando i progetti di Grassi, ci si rende conto di come questo processo progettuale sia preso alla lettera.

  

Capitolo 8 – “Forme realiste e popolari. Ricordando Aldo Rossi”

L’ottavo capitolo è uno dei più brevi, pur trattando di una personalità non semplice da descrivere in poche pagine: Aldo Rossi. L’autore lo introduce facendo riferimanto all’esperienza personale, avendolo conosciuto già alla sua tesi di laurea, ma che già gli ha fatto capire quanto fosse lontano dai suoi punti di vista dell’architettura. Il giovane Monestiroli usciva dall’università, Rossi era già un architetto avviato; la differenza tra i due stava nel modo di trattare forma e funzione: lo studente alle prime armi è ancora in difficoltà su questi temi, mentre Rossi, come dice l’autore, aveva il dono di trasformare la funzione in poesia.

Il punto principale del lavoro di Rossi era, infatti, dare senso a ciò che progettava e metterlo in scena per mezzo della forma. Una delle parole chiave del suo pensiero era lo spettacolo: tutto era spettacolo per Rossi, dalla vita quotidiana alla realtà esterna, e questo spettacono andava espresso in ogni progetto. Da questo aspetto ne deriva che tutte le forme d’arte, che siano architettura, pittura, cinema o scultura, sono legate l’una all’altra. La realtà è spettacolo, realtà in cui la gente si riconosce e si stupisce. E lo stesso Rossi ha questa grande capacità di stupirsi ed è forse questo che lo ha reso l’architetto che tutti conosciamo.

La sua architettura è, quindi, legata a questo modo di vedere la realtà, che considera testimonianza del passato e realtà in cui ci si deve confrontare perché luogo della tradizione e in cui, come già detto prima, le persone si riconoscono.

Si può quindi definire quella di Rossi un’architettura civile, tutto il suo lavoro è un impegno civile, cosa che oggi si è andata un po’ perdendo; è un’architettura che individua i valori del luogo e li mette in scena con forme realiste e popolari. Queste sono forme, seppur semplici, in cui le persone riescono a individuare quei valori che caratterizzano una comunità. Gli stessi elementi dell’architettura hanno forme che esprimono la loro identità, che sono riconoscibili.

L’abilità di Rossi sta proprio in questo: disegna e costruisce l’architettura con elementi e forme riconoscibili.

  

Capitolo 9 – “Lo stupore delle cose elementari”

Il libro si avvia verso la conclusione e nel nono capitolo l’autore entra nella terza parte del suo saggio affrontando un tema di particolare interesse: una discussione sulla realtà e sulle forme necessarie per rappresentarla, che poi, secondo Monestiroli, sono quelle più semplici e che garantiscono di capire la ragione degli edifici.

Il discorso parte del presupposto che la realtà non è altro che tutto ciò che si può osservare, ma è una realtà che non dipende da noi, una realtà dalla quale siamo leggermente distaccati. Questo distacco è importante perché è l’unico modo in cui è possibile conoscere questa realtà, di collocarla nel tempo e di coglierne gli aspetti rilevanti. La reltà, quindi, è tutto, dal mondo costruito alle istituzioni, ma la domanda che si pone l’autore è se è possibile e in che modo legare il progetto d’architettura alla realtà. La risposta sta nel saper guardare la realtà non con semplicità, ma la si deve guardare cone se ogni volta fosse la prima, in modo tale che ogni suo apetto ci susciti un senso di meraviglia e di stupore. Ed ecco la parola chiave del capitolo: stupore, inteso come uno studio della realtà, come diceva Marx, che distingue ciò che è da ciò che appare (apparenza ed essenza). Alla fine, quindi, il rapporto con la realtà è dato, non da uno studio acritico, ma da uno studio approfondito e dato dalla conoscenza, che porta in luce tutti gli aspetti complicati della realtà.

L’obiettivo è, di conseguenza, rappresentare, attraverso le forme dell’architettura, la ragione degli edifici: se si deve costruire un museo, una casa o un teatro che sono centri delle attività principali della realtà, si devono costruire con forme che ne risaltino questo apetto e quindi, ancora una volta, la loro essenza. Ed è questo aspetto che, secondo l’autore, oggi manca nei progetti: quando si progetterà accordando l’architettura alla conoscenza e alla realtà allora nascerà un’architettura in cui tutti riusciranno a capirne il senso, la ragione e rispecchiarvi la propria vita.

Nella parte conclusiva del capitolo Monestiroli cita e spiega cinque progetti che secondo lui possiedono una bellezza insuperabile:

1.     Ledoux, Casa per un commesso (1793)

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2.     Tessenow, Casa operaia, Hellerau (1911)

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3.     Loos, Casa Moller, Vienna (1928)

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4.     Le Corbusier, Ville Savoye, Poissy (1929)

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5.     Mies Van Der Rohe, Padiglione di Barcellona (1929)

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Capitolo 10 – “Il tetto e il recinto II. Descrizione di alcuni progetti recenti.”

L’ultimo capitolo è la presentazione di una serie di progetti dello stesso autore per dare una testimonianza e esempi pratici degli argomenti trattati.

·       Cimitero di Voghera, 1995= progetto finito nel 2003, è un edificio a corte i cui lati sono composti da due volumi di altezze diverse; il più basso sporge rispetto all’altro creando più piani ed è ricoperto da mille lapidi bianche per tutto il suo percorso. Le lapidi riflettono la luce del sole e assieme ad uno specchio d’acqua rendono la corte molto più grande di quella che è. L’ossario è in una posizione eccentrica e crea una rottura della simmetria, concentrando l’attenzione verso quel luogo.

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·       Planetario e Museo della Scienza, Cosenza, 2001 =  è un edificio destinato alla cultura scientifica. L’edificio è stato costruito in modo tale da rendere spettacolare l’attività che vi si svolge all’interno e per avere un’esperienza più diretta con i fenomeni celesti. L’idea su cui si basa il progetto è quella di realizzare un modello del sistema solare inserito all’interno dello spazio del museo come se fossero sospesi nel vuoto. Il planetario è posizionato nella parte centrale assomiglia ad un pianeta fuori scala rispetto al modello del sistema solare. Gli spazi interni sono molto luminosi dal momento che la struttura è conposta da un telaio in ferro e delle ampie vetrate.

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·       Biblioteca e mediateca, Pescara, 2004/2009 = i temi principali del progetto sono il tetto e il recinto. Un tetto dove radunare un’intera collettività e un recionto per individuare il luogo della riunione. Il tetto contiene sotto di sé altri edifici con differenti funzioni. Il tutto è costruito in acciaio, materiale leggero e lunico in grado di poter costruire un simile progetto. Sotto il tetto più grande se ne trova uno più piccolo. In pianta è un susseguirsi di recinti: un primo di colonne a sezione circolare sorregge il tetto più grande, poi c’è un secondo recinto di pilastri rettangolari che invece sorregge il secondo tetto più basso, il terzo è quello che delimita il perimetro della biblioteca e infine un quarto ed ultimo recinto che individua l’area della biblioteca vera e propria.

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·       Chiesa al quartiere Gallaratese, Milano, 1989 = è una chiesa basata su impianto tipologico che è composto da due parti: una prima parte scoparta che rappresenterebbe il sagrato e una parte coperta che invece indivisua la chiesa vera e propria. La chiesa quindi, ha due accessi consecutivi e fa del recinto l’elemento generatore della forma. La facciata principale della chiesa è evidenziata da un doppio ordine di colonne metalliche. Un altro elemento importante è la luce: entra da molte parti e dà gerarchia ai luoghi e agli spazi che compongono la chiesa.

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·       Chiesa di Santa Maria di Loreto, Bergamo, 2000 = è una chiesa che ha una pianta a croce, tipica per quanto riguarda gli edifici sacri, ma in questo progetto intesa in maniera diversa: i due elementi che si incrociano infatti, individuano il luogo centrale del presbiterio, luogo di ritrovo e dove si celebrano le funzioni. La pianta è formata da quattro muri a L rivestiti internamente ed esternamente in pietra, ma non delimitano solo il recinto del luogo, bensì definiscono le direzioni da cui si accede a quel luogo. La chiesa è coperta da un tetto piano con un grande lucernario nella parte di incrocio, che illumina la parte sossostante del presbiterio, la parte più importante. La chiesa è circondata su sue lati da un edificio a L, che ospita le funzioni complementari a quella della chiesa stessa.

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·       Chiesa di San Carlo Borromeo, Roma, 2005 = la chiesa si colloca iin un quartiere periferico di Roma, luogo difficile perché non molto caratteristico, per cui i progettisti hanno deciso di fare in modo che la chiesa fosse identificabile da lontano. Infatti la chiesa presenta un’alta torre che non ospita il campanile, ma che contiene il presbiterio. Questa torre serve anche da pozzo di luce per illuminare lo spazio sottostante.

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·       Aula civica (2003) e loggia civica(2005), Fidenza = sono due edifici legati alla collettività: l’aula civica, che si troca all’interno del centro storico della città, e la loggia civica in una parte a nord, ma comunque nel centro storico, sono edifici per incontri e manifestazioni di vario genere. L’aula civica, per la sua vicinanza a edifici di pregio, è caratterizzata da due muri alti laterali che ne individuano l’accesso. La loggia, invece, è costruita in acciaio con pilastri e un tetto piano, anch’esso in acciaio. La loggia appoggia su un basamento definito da una serie di blocchi rivestiti in pietra.

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·       Edifici a torre, Brescia, 2005 = le due torri sono intese nel vero e proprio senso dal termine, come sovrapposizione di parti. Gli edifici però non sono solo scomponibili orizzontalmente secondo i piani, ma anche verticalmente; infatti, i due corpi scale, per edificio,  lasciati aperti dividono l’intero volume in altre tre parti. Le due parti più piccole sono esattamente la metà di quella più grossa centrale.

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·       Progetto urbano a Pioltello 1998-2009 = è un complesso formato da tre edifici: una stazione ferroviaria, un edificio commerciale e uno residenziale. Questi sono inseriti su un’area triangolare in modo tale da creare un sistema di dua piazze comunicanti, una pavimentata e una trattata a verde. La stazione è caratterizzata da un vuoto a tutt’altezza che individua l’accesso. Il centro commerciale, invece, presenta due travi d’acciaio molto lunghe che percorrono tutta la lunghezza dell’edificio e ripiegandosi alle estremità, definiscono l’ingresso e l’uscita dell’edficiio. Il complesso è concluo con l’edificio residenziale alto otto piani.

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