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autore

RAFAEL MONEO

titolo

INQUETUDINE TEORICA E STRATEGIA PROGETTUALE NELL’OPERA DI OTTO ARCHITETTI CONTEMPORANEI

editore

MONDADORI ELECTA SPA

luogo

MILANO

anno

2005

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

Titolo originale: Rafael Moneo, Inquietud Teorica y Estrategia Proyectual, ACTAR D, Barcelona 2004

 

 

 

Argomento e tematiche affrontate

L’autore ritiene che le scuole di architettura debbano seguire lo scenario contemporaneo, ossia quegli architetti su cui ancora non sono stati scritti manuali ed è per questo che esamina l’architettura di 8 “archistar”. Ogni architetto venne trattato dallo scrittore durante le sue lezioni presso l’Harvard Graduate School of Design in modo critico; il termine strategia richiama i meccanismi, i procedimenti e gli strumenti formali ricorrenti nell’opera degli architetti attuali. Si è deciso di studiare architetti influenti nell’ultimo trentennio del Novecento, le cui opere sono diventate subito dei veri e propri successi e capolavori.

Il primo preso in considerazione è James Stirling perché la sua figura offriva la connessione tra l’eredità delle avanguardie e la complessità avvenuta successivamente a queste. Venturi e Rossi ebbero molto successo negli anni sessanta e settanta, mostrando come il costruito sia in opposizione con la norma e la singolarità. L’anteporre la teoria alla pratica ha reso Peter Eisenman uno degli architetti più influenti nel panorama americano. Gli anni ottanta sono caratterizzati dalle opere di Siza e Gehry, che si rifanno ad un’architettura più pratica utilizzando forme e materiali innovativi, sorprendenti e in grado di renderli celebri in pochissimo tempo, liberandosi del doversi raffrontare col contesto. In seguito Rem Koolhaas vuole che gli architetti recuperino la razionalità implicita nell’architettura, staccandosi anch’egli dal contesto. In fine Herzog e De Mauron con il loro uso delle forme solide elementari.

 

Giudizio Complessivo: 9

Scheda compilata da: Matteo Martini

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

 

Autore

Rafael Moneo (1937, Tudela, Navarra) ha studiato a Madrid, dove vive e lavora. Direttore per molti anni della Graduate School of Design di Harvard, ha insegnato architettura a Barcellona e Madrid ed è stato Visiting professor nelle principali università europee e statunitensi. Nel 1996 ha vinto il premio Pritzker per l’architettura. Tra le sue opere più importanti, presentate dalla stampa specializzata di tutto il mondo, vi sono: il Museo di Arte Romana di Mèrida, la Stazione Atocha di Madrid, il Museo d’Arte Moderna di Stoccolma, il Kursaal a San Sebastian, la Cattedrale di Los Angeles; nel 2005 ha completato l’ampliamento del Museo del Prada a Madrid. Gli scritti teorici di Moneo sono stati pubblicati dalle principali riviste e sono stati raccolti in volumi editi in diverse lingue.

Rafael Moneo

  

CAPITOLI

Capitolo 1 – JAMES STIRLING

Personaggio istintivo, diretto, spontaneo, era estremamente attento alle tendenze e agli interessi dei suoi colleghi contemporanei; la sua opera si può intendere come il più antico registro della storia dell’architettura nel periodo in cui esercitò la professione. Laureato a Liverpool ritenne da subito importante l’aspetto delle costruzioni in architettura, e la conoscenza di Le Corbusier sarà fondamentale per la sua formazione. Inoltre imprime una struttura nuova al linguaggio dell’architettura moderna; egli scopre il potenziale della sezione e del suo spostamento lineare nella costruzione (costruire è dominare la sezione). La sezione, infatti, riflette i problemi tecnici e costruttivi dell’edificio e rappresenta lo spirito di libertà del modernismo. In una seconda fase, in cui collabora con Krier, sposta l’attenzione dalla sezione alla pianta.

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

ANNI ‘50

Nei suoi primi progetti (1951) si sente l’influenza di Le Corbusier negli elementi linguistici e costruttivi, dando molta importanza ai materiali. L’uso del prefabbricato rappresenta il passo successivo riferendosi ad uno studio della geometria negli elementi strutturali e di tamponamento. Successivamente sviluppa il tema dell’abitazione rurale, riferendosi alle costruzioni rurali inglesi, ma con uno sguardo approfondito sul legame della casa al terreno, tanto da studiare l’importanza della connessione con la strada, con i muri paralleli e la forma che cambia col contesto. Ed è con il progetto per il primo college, in cui cerca il limite tra la scuola e l’esterno creando una sorta di barriera, che si chiude la fase giovanile dell’architetto, che dal 1955 dimostrerà di avere le idee bene chiare. Il progetto per il Selwyn College del 1959 che Stirling esplorerà gli sviluppi lineari, la definizione del recinto e l’importanza del trovare un limite; qui scoprirà come usare il vetro in modo innovativo, creando con esso solidità ma soprattutto grazie all’uso della sezione tra interno ed esterno (dentro-fuori).

 

ANNI ‘60

Nonostante il progetto precedente non venne realizzato, otterrà l’incarico per la facoltà di Ingegneria dell’università di Leicester (una delle sue più importanti opere), che analizzata con la sezione mostra un architettura astratta e con volumetrie plastiche. Il tratto saliente dell’opera è la rivisitazione dello shed. Ruotandolo sulla diagonale del rettangolo.

La caratteristica della sua architettura è di produrre una varietà di episodi, ma allo stesso tempo preservare l’unitarietà della sua opera.

In altre sue opere vediamo come la manipolazione del tipo avviene in pianta, e di conseguenza in sezione. La sua bravura si denota nella capacità espressiva della sua architettura, che parte dalla sezione e arriva ad una riflessione plastica, come si vede nelle ultime opere degli anni ’60 (sede  centrale Dorman long, Queen’s College), in cui è importante la combinazione di superfici verticali e oblique di vetro. In un successivo lavoro, vediamo come l’architetto pone in conflitto l’orizzontalità architettonica e la pendenza naturale del terreno, in una residenza universitaria.

È alla fine degli anni ’60 che si nota un distacco dall’uso della sezione, quando usa elementi come il corridoio e la rampa, in un edificio destinato ad uffici, che si studiano perfettamente in pianta.

 

ANNI ‘70

Nel 1970 lavora per la città di Derby (patria della Rolls Royce) che in un momento di prosperità decide di aiutare la propria città contribuendo al decoro urbano con la partecipazione a tale progetto. Bisogna prima però spiegare il panorama architettonico che stava nascendo: in Italia due grandi figure stavano esprimendo i loro valori sullo studio della città, Aldo Rossi e Robert Venturi, ossia dell’anomalo e del singolare. In esse è contenuta una critica alle opere si Stirling degli anni ’60; ed è qui che fa la sua apparizione la figura di Leon Krier, nello studio di Stirling, che si prefigura di intervenire sulle città antiche senza portare il trauma del moderno. Quindi l’architetto si ritrova a dover lavorare sulla città esistente e sulle sue trasformazioni attraverso l’uso della pianta, grazie alla maestria ottenuta prima con la sezione. Inizia ad usare la pianta a livello ambientale e paesaggistico e la ricerca nelle sue opere di condizioni di vita piacevoli e non più plastiche.

Nel 1975 in un progetto di concorso per il Museo d’arte Nordrhein-Westfalen a Dusseldorf vediamo come si impossessi delle rovine di questo edificio distrutto durante la Seconda Guerra Mondiale e lo integri in modo nuovo, usando forme nuove, come il cilindro che definisce una cortile circolare, per definire un nuovo paesaggio architettonico. In questo progetto vediamo come si crea all’interno dell’edificio un movimento fluido; sarà da queste riflessioni che parte il progetto che rappresenterà la parte più significativa della sua opera, la Neue Staatsgalerie di Stoccarda. Il lotto è delimitato da un lato dall’autostrada, così Stirling parte da questo elemento e si alza con un basamento per l’autorimessa, utilizzando il cerchio, il cilindro vuoto per definire il paesaggio architettonico; si viene a prefigurare un edificio in movimento, in cui tutti gli elementi sono ben connessi.

 

ANNI ‘80

Negli anni ’80 diventa rilevante come la sua architettura si basi sulla pianta, in modo indifferente dalle funzioni.

 

 

Facoltà di Ingegneria dell’Università di Leicester – 1959-63 – James Stirling

 

   

Capitolo 2 – VENTURI/SCOTT BROWN

Il libro “Complessità e contraddizione nell’architettura” (1966) di Robert Venturi mostra un architetto saldo nelle sue convinzioni e che usa un linguaggio chiaro, proponendo un messaggio di un’architettura più complessa, che predicava l’uso della libertà contro la norma. Soprattutto in un periodo come quello del modernismo in cui si erano definiti dei canoni ai quali bisognava sottostare; Venturi infatti denuncia questo essersi fermati a certi e canoni e propone un dualismi, propone elementi contraddittori con quelli modernisti, per tornare ad avere un’architettura complessa e non più semplificata. Il libro di Venturi si prefigura quindi come una condanna all’ideologia tirannica del Movimento Moderno, che portava ad una realtà semplificata, ma, come dice l’architetto, la realtà è complessa (in contrapposizione a Mies dice ”Mies, ad esempio, costruisce splendidi edifici solo perché trascura molti degli aspetti di un edificio, se affrontasse un maggior numero di problemi, le sue architetture non sarebbero così grandi”). Egli incarna le due figure, dello studioso e dell’architetto, affermando che le sue idee sull’architettura sono un sottoprodotto della critica che affianca il suo lavoro. Inoltre afferma che l’architettura è suscettibile di analisi ed è resa incisiva per comparazione, aprendo le porte alla ragione e al sentimento, al passato e al presente.

Nel suo libro cerca di scoprire i meccanismi di cui si sono serviti gli architetti per raggiungere la complessità, l’ambiguità e la tensione di cui parlano coloro che si sono occupati di analizzare i poeti. Inoltre egli insiste sull’importanza di accettare e manipolare gli elementi convenzionali per ottenere nuovi risultati. Mostra come gli architetti abbiano perso il contatto con la naturalezza, per amore e coerenza e per attribuire al proprio lavoro consistenza, e il recupero di queste cose perse farà in modo di aprire spazi liberamente senza più schemi rigidi preimpostati. Affronta temi come gli involucri ridondanti e gli spazi residuali, per poi passare al tema della città, quindi della totalità, spiegando attraverso il concetto di inflection, un modo per raggiungere l’unità tramite caratteristiche interne di ogni parte piuttosto che tramite la loro posizione o quantità. L’architettura è aperta all’inatteso, alla risposta singolare che ci porta ad apprezzare l’anomalia, ma tutto ciò senza dimenticare l’individualità del tutto.

In definitiva, il libro è un opera critica, in cui Venturi è indignato per l’interpretazione della modernità che ha indotto le istituzioni a cercare una città ordinata, conosciuta e prevista; critica Le Corbusier, Mies e Wright per la ricerca del proselitismo che li portava a diffondere slogan di cui si facevano scudo per difendere il proprio lavoro; prende invece come esempio Kahn.

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

ANNI ‘60

Uno dei primi progetti più interessanti di Venturi è la casa per la madre a Chestnut Hill (Pennsylvania, 1961) che rappresenta un vero e proprio manifesto e rappresenta l’illustrazione di tutta la dottrina venturiana; si denota qui un architetto ancora legato all’individuo a cui attribuire tutta la responsabilità, e quindi non ancora populista, per riflettere se stessi nella propria architettura: l’architettura nasce dall’esperienza degli individui e si prefigura come sensazione. La casa Vanna Venturi ha una pianta rettangolare, presenta due prospetti molto significativi, uno sulla strada (facciata pubblica, densa e stretta), l’altro sul cortile interno (facciata privata, spazi ampi e dilatati); le esperienze architettoniche sono qui imprigionate nel rettangolo e nell’arco. Egli vede i pezzi all’interno del tutto come scene diverse, ed è l’abilità dell’architetto quella di farli convivere senza distruggere una certa unitarietà che identifica l’opera. La casa incarna il suo pensiero: è ambigua, ignora il contesto (sociale, fisico), tanto da diventarle il manifesto.

Successivamente nel progetto di una casa di riposo apre il fronte ad un’architettura realista e ordinaria, che non vuole sorprendere, non vuole provocare e non vuole pretendere novità, in contrapposizione ai nuovi elementi introdotti in Europa che tentavano ancora di usare l’Unitè d’habitation per cercare una dimensione urbana per gli edifici residenziali. In queste sue prime opere vediamo l’importanza data all’accesso, che anticipa l’importanza e diviene quindi il punto di origine di tutto il progetto.

I progetti successivi mostrano sempre autonomia e indipendenza degli edifici, studiati nelle caratteristiche attraverso la pianta che diviene lo strumento conoscitivo e progettuale più significativo.

 

ANNI ‘70

I primi progetti degli anni ’70 mostrano l’atteggiamento dell’architetto di fronte ad un concetto come quello di tipo architettonico, attraverso l’esempio di due case (Case Trubek e Wislocki); cerca, infatti, di recuperare la casa tradizionale americana (Balloon Frame House) servendosi dei sistemi di costruzione e dell’immagine, dimenticandosi della struttura formale. Il tipo si è qui ridotto a immagine, seguendo l’opinione che la comunicazione si attui mediante le immagini; quindi l’architettura, che in passato era un’arte d’imitazione e descrizione della natura, torna ad esserlo prendendo come modello l’architettura stessa.

Nel 1972 pubblica il suo secondo libro, “Imparando da Las Vegas”, definendo la città come sistema di comunicazione, dove il simbolo nello spazio prevale sulla forma, sottolineando il fatto che l’architettura moderna abbia perso l’importanza data in passato al simbolismo. Infatti si dichiara contrario ad una architettura che cerca di comunicare solo attraverso la forma. Con questo libro, Venturi diviene un paladino dell’americanismo, della società che ha creato il capitalismo e di una cultura di massa in contatto con la cultura antica.

Importante è il tema dell’ampliamento di un edificio, che deve affrontare l’architetto, ossia il dover risolvere il tamponamento delle struttura (cemento armato e acciaio) in modo costruttivo, reintroducendo l’ornamento nel tamponamento.

 

ANNI ‘80

Nei primi progetti degli anni ’80, Venturi è ancora attento alla pianta e al buon inserimento dell’edificio nel luogo e a come ragionare sull’angolo del lotto (ingresso). Importante è il progetto di ampliamento della National Gallery di Londra, in cui aggiunge una nuova massa al museo cercando di stabilire una continuità tra l’edificio esistente e la nuova ala attraverso una connessione rotonda.

 

 

 

Ala Sainsbury della National Gallery – Londra – 1986-91 – Robert Venturi

 

  

Capitolo 3 – ALDO ROSSI    

Rossi si formo nell’ambiente di Rogers: mentore di tutti quei giovani milanesi laureati nella seconda metà degli anni ’50, appartenete allo studio BBPR, Rogers animò la cultura architettonica, facendo il professore e il critico e fu il direttore di Casabella; si formò nella tradizione moderna, architetto razionalista degli anni ’30, visse il periodo mussoliniano e fu costretto a scappare, essendo ebreo e a collaborare con la Resistenza; attraverso Casabella critica la storia dell’architettura moderna. Rossi è molto sensibile a queste critiche, tra cui affioravano anche quelle di Zevi, che mirava a stabilire una continuità tra architettura e le altre attività artistiche. Per Zevi lo spazio ricopre l’elemento fondamentale su cui si basa l’architettura (un’arte dello spazio). Rossi si colloca su posizioni opposte, cercando un fondamento proprio dell’architettura e soprattutto positivo (influenza marxista): egli la ritiene una scienza positiva e ne ricerca sempre un desiderio di oggettività. Affronta l’architettura con un approccio scientifico, ponendo la città come territorio dell’architettura: egli infatti crede che descrivendo la città (esplorando i principi con cui è stata costruita, gli sviluppi e l’uso fattone dall’uomo) si possano trovare le chiavi dell’architettura. Le sue riflessioni si concretizzano con il libro “L’architettura della città” (1966) in cui espone concetti vaghi, imprecisi, approssimativi che divennero termini di riferimento negli anni 60 (tipo, luogo, monumento, forma urbana). Insiste sulla permanenza dell’architettura, sulla sua atemporalità fino a separare forma e funzioni, definendo i tipi, delle immagini profonde di casa, scuola, ospedale, ect., di cui si è andata costruendo la città; per Rossi il tipo è l’idea stessa di architettura, ciò che sta più vicino alla sua essenza, e attraverso il quale si tesse quella realtà che noi conosciamo come città. Il suo testo si fonda molto anche sul territorio e sulla geografia per poi trovare la norma su cui si fonda l’architettura. Un altro concetto molto importante è quello di costruzione, ossia costruire per determinare la città. In una prima parte della sua carriera predomina per Rossi la conoscenza, in un’altra il sentimento. Dopo la pubblicazione del libro, raggiunge l’apice con il progetto per il cimitero di Modena (1971) che rappresenta pienamente il suo pensiero.

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

Nei primi progetti vediamo quanti sia importante per Rossi riportare il contenuto simbolico nelle sue opere, per esempio attraverso l’uso di figure come il cubo, che racchiude al suo interno attributi universali. Partecipa a numerosi concorsi per monumenti, teatri, piazze; importante è la riflessione illuministica sulla piazza (a Segrate), come spazio pubblico, paradigma della vita in comune è architettura come scenario di pensiero.

Per Rossi costruire significa comprendere come si manipolano gli elementi (come il gioco dei bambini con i tasselli di legno). Il suo lato scientifico si manifesta nell’Unità Residenziale di Gallarate in cui tratta le case come delle caserme, non distorcendo la realtà: spazi nudi, scarni. Ma è nel Cimitero di San Cataldo, Modena (1971-84), che si condensano le sue riflessioni mostrando la grandezza dell’architetto; si tratta di un concorso per l’ampliamento del cimitero, in cui Rossi lavora duplicandolo in modo sottile e complesso, attraverso costruzioni intermedie; il cubo, il cono tagliato sono gli elementi fondamentali. Nelle opere successive la geometria e la simmetria rappresentano il principio fondamentale.

Nel 1976 si reca negli Stati Uniti, e questo viaggio determinerà un cambiamento sostanziale nella sua opera e nella percezione che si ha di essa; l’America gli fa capire che la sua opera sono i disegni: materializzare i propri sentimenti, proporre una nuova realtà, quella che nasce dal costruire i suoi disegni, e che finisce per confondersi con l’architettura. Qui inizia a vedersi il salto dalla conoscenza al sentimento, prima cercava di essere oggettivo, ora vuole parlare solo di se stesso, diventando soggettivo, e questo nella sua opera “Autobiografia scientifica”. L’immagine diventa il centro della ricerca di Rossi e ci rimanda alla vera essenza dell’architettura, intrisa di sentimento.

Ricapitolando, se all’inizio la costruzione era per Rossi una metafora per comprendere la città e l’architettura, negli anni ’90, l’architetto ci aveva abituato a vedere il mondo sotto forma di immagini, piene di sentimenti, la cui espressione trova rifugio negli oggetti e si oppone ad essere applicata all’architettura.

 

 

 

Cimitero di San Cataldo – Modena – 1971-84 – Aldo Rossi

 

Capitolo 4 – PETER EISENMAN

Peter Eisenman è stato un vero e proprio catalizzatore della cultura architettonica dell’ultimo trentennio del Novecento. Si tratta di un architetto americano, affascinato dall’Europa, che in seguito alla laurea ottenuta in America, si reca in Inghilterra dove consegue il titolo di PhD, ed entra in contatto con personaggi attivi nel Movimento Moderno; è qui che si rende conto che l’architettura moderna non ha ancora raggiunto la sua piena maturazione, così ciò diventa l’obiettivo del suo lavoro. Eisenman si prefigge di recuperare gli ideali della modernità, dato che essa aveva fatto del funzionalismo la sua bandiera, rimanendo così ancora incompiuta. Nel 1967 fonda a New York l’Institute for Architectural and Urban Studies (IUAS), istituzione che diviene il baluardo di una visione dell’architettura in cui il pensiero teorico prevale sulla pura pratica professionale; pubblica la rivista “Oppositions” in cui si vuole stimolare la discussione teorica attraverso saggi, studi storici e qualche analisi critica. Secondo Eisenman lo spirito moderno era ancora incompiuto a causa dell’obbligo nei confronti del funzionalismo è egli, infatti, si prefigge di liberare l’architettura da ogni legame affinché essa si realizzasse senza venir contaminata dal luogo, dalla funzione o dai sistemi costruttivi. Quindi gli architetti si dovrebbero affrancare dagli obblighi imposti dalla funzione, dal luogo e dalla tecnica per dedicarsi esclusivamente a principi formali capaci di risolvere i problemi inerenti la costruzione. Definiamo quindi un Eisenman formalista e strutturalista.

L’architetto si propone di definire le norme e il comportamento del linguaggio dell’architettura come qualcosa che si spiega da solo. Le opere realizzate nel decennio 68-78 sono il frutto di un intenso lavoro: progetta una serie di case che numera secondo l’ordine in cui sono state realizzate nel tempo, ed è questo lavoro che è accompagnato da un’attività di critico che lo porta a scegliere e interpretare quei momenti della storia dell’architettura recente più vicini alla sua visione. Grazie all’opera di Terragni troverà il terreno adatto a mostrarci i suoi nuovi obiettivi: Eisenman distinguerà aspetti superficiali dell’architettura (che si manifestano tramite la percezione sensoriale dell’oggetto: tessiture, colore, forma) e aspetti profondi (che non ci percepiscono con i sensi: frontalità, obliquità, rientranza, ect.). Per spiegare queste categorie l’architetto non fa uso di supporti figurativi (avversione nei confronti della figuratività), ma della geometria come alternativa all’immagine, in cui gli elementi astratti del reticolo (punto, linea, piano) sono gli elementi di base. La sua architettura si prefigura come astratta, estranea a riferimenti esterni e libera da contaminazioni. Ciò che accade è che questa proposta di architettura non dà luogo a una realtà costruite identificabile e visibile è qui Eisenman introduce il concetto di process: il progetto si spiega attraverso la sequenza che l’ha generato nel tempo. Rappresentare l’architettura sarà definire l’oggetto e giustificare il processo (lasciare traccia delle idee che hanno generato l’architettura); un’opera architettonica deve comunicare tutte le tappe intermedie dell’oggetto, latenti nel progetto. Quindi l’architettura si manifesta nella sua gestazione, ed è per questo che facendo del processo la sostanza dell’architettura, l’opera terminata diviene irrilevante. Eisenman conierà il termine cardboard architecture (architettura di cartone) per definire il suo lavoro, perché di cartone sono fatti i modelli che raccontano la storia del progetto.

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

Il decennio 68-78 rappresenta il programma eisenmanianio, ossia consta delle 11 case progettate con una profonda dedizione nei confronti dell’architettura: nella prima casa, come Terragni, scompone il cubo, creando la struttura a pilastri e le finestre come elementi significativi, con uno spostamento astratto, che genera anche i vuoti e dà origine al movimento; anche nella seconda casa si crea un movimento astratto (lungo la diagonale) e l’architettura si prefigura come processo con risultato finale la forma, inaspettata; nella terza assistiamo alla rotazione; nella sesta insiste sul valore del nucleo; nella decima parte dal cubo per poi definire quadranti volumetrici; nell’undicesima gioca con la contrapposizione concavo/convesso.

Rilevante è anche lo studio della città e del contesto, che ignora ma vuole reinventarlo; insiste dicendo che l’architettura ha una propria autonomia e trova collocazione in un contesto che la mantiene in sospeso tra un futuro che non è stato e un presente che si distrugge nel suo prodursi.

Con un progetto veronese su Romeo e Giulietta, Eisenman introduce il concetto di “testo architettonico”: architettura intesa come invenzione intellettuale di un testo, senza che la redazione di questo imponga la realtà del costruito; la realtà dell’architettura sarà quindi in funzione del lettore, mentre l’opera passa in secondo piano. Quindi l’architettura resta in attesa che il lettore inizi a decifrare il significato delle forme e delle immagini, spesso sovrapposte. Introduce qui anche il concetto di scaling per far vedere che topografia, città ed edfici convivano anziché confondersi.

In molti suoi progetti, come già detto, affiora l’architettura come processo, cercando, per esempio, di raggruppare, abbracciare, proteggere e trasformare gli edifici esistenti. Inoltre si scopre che per Eisenman il computer diviene uno strumento che aiuta nella costruzione del progetto.

Negli anni ’90 vediamo con il progetto per il Max Reinhardt Haus (Berlino) il rifiuto di lavorare con volumi e spazi cartesiani, proponendo un edificio ambizioso e frutto di anni di studio.

Nel suo libro “Diagramm diaries”, Peter Eisenman passa a catalogare le sue opere disponendole in due fasi: la prima in cui parla di diagrammi di interiorità (meglie, cubi, forme a L, sbarre), la seconda di diagrammi di esteriorità (luogo, testo, matematica, scienza). La prima architettura di E. è caratterizzata dal desiderio di trovare norme e meccanismi all’interno della disciplina, senza chiedersi se abbiano significato o contatto con un mondo esterno che contamina un universo ideale di forme; nella seconda prevale l’esteriorità, dove l’architettura va intesa come il risultato congiunto dell’accettazione e dell’applicazione di stimoli esterni a schemi formali ben conosciuti, che l’architetto ricerca dopo studi scientifici e filosofici. Per parlare di continuità tra le due fasi, introduce il concetto di diagramma, ossia una spiegazione che funge da intermediaria nel processo di generazione dello spazio e del tempo reale. Inoltre ritiene che il suo obiettivo è di conservare le tracce del processo; afferma che il diagramma è l’origine da cui sgorga tutta l’architettura.

 

 

 

Progetto per la Max Reinhardt Haus – Berlino – 1992 – Peter Eisenman

 

  

Capitolo 5 – ALVARO SIZA

Alvaro Siza è il più completo rappresentante di un’architettura erede del movimento moderno (influenza di Aalto, Wright, Le Corbusier, Loos), ed esponente di quell’architettura che si armonizza con il popolare, con il senso della costruzione tradizionale. Tiene conto dell’imprevisto, senza dimenticare l’importanza di attingere all’origine dell’architettura è di fronte alle sue opere si ha l’impressione di scoprire l’essenziale, ossia ciò che caratterizza il fenomeno architettonico. L’architettura nelle sue mani si trasforma in qualcosa di prossimo alla poesia. Siza dice che li non agisce, ma che si limita semplicemente a svelare ciò con cui ci sorprende. A suo dire, non vuole essere considerato il protagonista della scena, ma si mostra a dominare la situazione molto bene. L’autore fa spesso dei parallelismi tra Siza e lo scrittore portoghese Fernando Pessoa: Pessoa parla di parolare, le parole come corpi toccabili, Siza, come un poeta che si diletta a mettere in luce l’eufonia di certi vocaboli accostandoli ad altri, schiera nello spazio gli elementi che ha scelto per costruire la sua architettura, chiaro riferimento ai corpi toccabili di Pessoa. SIza si sforza di catturare nella sua architettura l’istante; intende inoltre l’architettura come cattura di ciò che si muove, come allusione continua a quella mutevolezza che dà luogo alla successione temporale e ci permette di godere degli istanti, di quei momenti specifici ai quali l’architettura ha dato vita, congelandoli in un’opera concreta.

Siza lavora osservando la realtà: è attento al paesaggio, ai materiali, ai sistemi costruttivi, agli usi, alle persone che occuperanno l’opera costruita. L’architettura contribuisce a definire la realtà, da cui è necessario partire e quindi conoscerla. Siza, infatti, afferma: “Cominciare (un disegno) con l’ossessione dell’originalità corrisponde a un atteggiamento incolto e superficiale”. Inoltre afferma che i suoi progetti vogliono impossessarsi di un’immagine fugace con tutte le sue ombre e che i suoi disegni vogliono catturare più qualità possibili. Siza parla del “farsi” delle cose, e non come si fanno le cose (Gehry), ossia aspira a testimoniare come una struttura sia capace di catturare il tempo che fugge, volendo dimostrarci la sua continuità. In Siza, godiamo del carattere “potenziale” delle sue opere, che richiedono di essere completate da coloro che vi si avvicinano; benché spesso vediamo le opere di Siza in uno stato di decadenza fisica che le rende prossime alla rovina, non la raggiungeranno mai, giacchè sono sempre capaci di offrirci qualche scoperta; le sue opere ci offrono sempre esperienze architettoniche inattese e diverse.

Il suo metodo e modo di lavorare si può schematizzare in 8 punti:

1.     LUOGO. Inizio del progetto: avviene quando visita un luogo o sta per visitarlo e fa un primo schizzo è la sua architettura nasce dalla dialettica generata dall’incontro degli opposti

2.     DISTANZA. Lavora nei caffè, perché li sente fisicamente la sua persona che si fonde e si confonde con quella di tutti quelli che cercano, nello spazio pubblico, il rispetto della sfera privata dell’individuo, senza che ciò comporti il perdere di vista l’”altro”. (Caffè inteso come luogo in cui si ha l’occasione di comprendere cosa significhi il corpo sociale)

3.     DISCUSSIONE. Alcuni progetti di Siza sono stati affrontati assieme a gruppi organizzati di abitanti o di futuri abitanti, perché l’utente (fine ultimo dell’architettura) non può essere dimenticato

4.     CONTINGENZA. Molte sue opere si basano sulla tradizione: essa per l’architetto è una sfida all’innovazione. Per Siza l’architettura non si produce da zero ma è il trasformarsi di ciò che si conosce attraverso il compromesso e la mescolanza

5.     INCERTEZZA. A Siza piace l’inaspettato, il non sapere dove andare, l’assaporare la sorpresa

6.     MEDIAZIONE. Vuole trasmettere l’importanza della distanza tra l’architetto e l’opera dal punto di vista degli altri; non vuole che l’architettura sia il risultato di ciò che fanno le sue mani

7.     INSODDISFAZIONE. Le sue opere incompiute, interrotte non hanno nulla a che vedere con l’incompiuto ma sono così a causa di ostacoli che non riesce a superare

8.     EVIDENZA. Vuole riscoprire la stranezza e la singolarità delle cose evidenti

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

Nel primo ristorante che progetta notiamo quanto insiste sul volume e sui muri e quanto la sostanza della forma sia nella frattura e nella discontinuità. Evidente è anche il ruolo del suolo, ossia della natura in attesa che il fabbricato gli venga costruito sopra. Si tratta di un’architettura in cui prevale la manipolazione dello spazio, studiato attraverso le sezioni e in cui i materiali rivestono un ruolo fondamentale; importante anche la relazione con lo spazio. Siza lavora molto con la dialettica degli opposti. La casa Magalhàes del 67 a Porto anticipa a bravura dell’architetto, non ancora molto conosciuto, in cui si riconoscono elementi come l’uso di una geometria obliqua, il vuoto del giardino e il pieno della casa in contrapposizione, l’uso del cemento. Nella Banca Pinto & Sotto Mayor del 71 vediamo la sua completa maturità professionale: l’accesso laterale è una soluzione che ci fa pensare che egli non voglia che la visione frontale dell’edificio costituisca il sistema generatore dell’architettura; si tratta di un accesso curvo che anticipa il sistema della frammentazione. È un architettura che parla di architettura: lo spazio nella sua purezza, senza limitazioni è è lo spettatore che in questo spazio ci permette di parlare della presenza dell’architettura. La casa per il fratello segna la fine delle opere giovanili e racchiude una profondissima tristezza: il luogo di questa casa è privo di qualità che lo caratterizzino, è come se fosse un non-luogo. Il punto focale è costituito dall’ingresso uguale per macchine e persone, il cortile interno è uno spazio magnifico racchiuso tra le sue parti del fabbricato e in quel vuoto risiede lo spirito del tutto. Lo schema della casa si può leggere ad U mediante inclusioni, tagli e proiezioni. Le sue costruzioni ci appaiono come un manto architettonico che completa il territorio. Una delle opere migliori di Siza è il Padiglione per la Facoltà di architettura di Porto: spazio asimmetrico, angoli diversi, aperture che si muovono lungo la facciata. Qui Siza ha rinunciato a tagli, spazi interstiziali, giustapposizioni, dislocazioni per servirsi del tracciato della pianta. Ha creato situazioni spaziali piene di emozioni.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Casa Antonio Carlos Siza – Santo Tirso – Portogallo – 1976-78 – Alvaro Siza

 

  

Capitolo 6 – FRANK O. GEHRY

Frank Gehry è l’architetto che ha rivoluzionato la cultura architettonica degli anni settanta, e la cui opera ha influenzato i suoi colleghi negli anni ottanta. Ha vissuto per molto tempo a Los Angeles, città che considera sua e che ha avuto un ruolo rilevante sulla sua architettura: L.A. è l’espressione della mobilità e la celebrazione dei diritti e delle libertà dell’individuo. L’automobile rende possibile questa mobilità, assumendo il ruolo di corazza che permette all’uomo di esercitare i suoi diritti e le sue libertà; si tratta della più personale delle proprietà e la loro onnipresenza è segnata sul territorio, dal punto di vista topografico attraverso le autostrade, nascoste sotto il manto di infinite case unifamiliari che parlano della diversità dei propri occupanti. A L.A. la continuità si fonda sul movimento. Il costruito esprime il pluralismo di tutti gli individui, riuniti in gruppi sociali molto diversi, che rispecchiano la diversità di etnie della società americana e la loro volontà a difendere i diritti individuali. Si parla di un’architettura intesa come manifestazione dell’estetica personale e privata dei cittadini e il rifiuto delle restrizioni formali che portano ad un unico stile. La città ha un carattere transitorio, più portato verso il consumo che a una visione teologica e finalista dell’universo. Il cambiamento costante favorisce un clima di assoluta libertà di norme; è una città in cui non esistono termini di riferimento. Gehry ha il desiderio di rispettare e mantenere la struttura della città, che conosce perfettamente: a Los Angeles essere contestuali significa ignorare il contesto. E l’architettura di Gehry, come quella della città, è estranea al monumentale, ignora il tipologico, e porta l’impronta del temporale e dell’effimero. Egli agisce sul suolo senza pregiudizi, sapendo che quando metterà la prima pietra di un edificio si tratta dell’origine di un organismo che crescerà nel futuro (futuro che nessuno potrà controllare). Ecco il perché dell’assenza d’interesse per la composizione. Non vi è un’idea preliminare, una visione anticipata di ciò che sarà la sua costruzione. Un edificio si intende come evoluzione nel tempo di ciò che è stato il primo incontro.

Parliamo ora del contesto temporale in cui si inserisce Gehry: comincia a essere un architetto conosciuto alla fine degli anni settanta, periodo in cui cominciava a farsi sentire la debolezza delle proposte postmoderne. Negli Stati Uniti si aveva la sensazione che il postmoderno fosse qualcosa di europeo e di troppo dipendente dagli stili storici. Il postmoderno per gli americani era una sorta di asservimento ai linguaggi classici, non necessari e obsoleti in una società come quella americana. Ecco che si inserisce Gehry, celebrato dal pubblico americano, per la sua visione diretta delle cose senza pregiudizi imposti dalle convenzioni. Gli viene associata l’immagine di uomo libero, la cui architettura viene intesa come espressione dell’individualismo che riscontravamo a Los Angeles; quindi in contrapposizione a Rossi (espressione di un’architettura collettiva), Gehry riflette e celebra l’individualismo americano. Il suo obiettivo è mostrarci come si fanno le cose (in contrapposizione a Siza) e non trova nella città in cui sorge la sua architettura il presupposto che giustifichi ciò che in essa si costruirà, ma considera le circostanze ambientali, non lavora né coi tipi, né con le immagini, né con i preconcetti di come deve essere costruito l’edificio. Per l’architetto l’aspetto più importante è il programma: la sua è un’architettura strumentale utile per il cliente è le sue opere possono non essere belle, ma rispecchiano i desideri del cliente. La sua architettura, a differenza di quella di Rossi, sarà spesso astratta, senza riferimenti figurativi. L’architetto smembra il programma, identifica le forme geometriche elementari per la costruzione e lascia che si consolidino con l’architettura. Una fase importante del programma è anche il costruire il modello (che presuppone la conoscenza delle tecniche con cui sono costruite quelle figure elementari).

I suoi primi edifici possono essere considerati fragili, deboli, ma inseriti nel contesto della città di Los Angeles possono acquisire durevolezza e questo se sono giudicate come delle opere d’arte (lo spirito dura di più della materia).

Gehry conosce bene il lavoro dell’architetto e sa dominare con sicurezza le tecniche costruttive dell’edilizia americana (tecniche semplici e limitate); in un paese come gli Stati Uniti l’innovazione e il cambiamento sono cose difficili da attuare in questo campo. Studia il balloon frame e le principali tecniche a favore di un’architettura in cui conta solo ciò che è autentico. Importanza rilevante hanno i materiali: conosce bene tutti i materiali e si compiace della presenza dei materiali nell’opera (vuole che si vedano). Considera le sue opere delle vere opere d’arte, e si sente come uno scultore: le sue opere sono giustificate dal tempo.

Nell’ultimo Gehry vediamo una ricerca dell’unitarietà associata ai concetti di continuità e movimento.

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

Dopo aver studiato sulla costa orientale, si trasferisce su quella occidentale, dove inizierà a progettare; nelle prime case risente dell’influenza di Wright e grazie all’uso dei materiali si denota come la sua architettura sia legata alla corporeità della costruzione. Un esempio molto importante è la casa che costruisce per se a Santa Monica in cui applica l’esperienza delle prime case unifamiliari: si ha l’esplosione del cubo a partire da una casa esistente. Studia la casa nei minimi dettagli, dal primo gradino in cemento alla rete metallica che riveste l’abitazione; gioca con la pelle e con le superfici, mostrandoci gli strati di cui si compone. A Gehry piace mostrare gli elementi costruttivi che compongono l’edificio e il vederli nel cantiere lo ha portato a insistere sull’idea che l’architettura sia più bella quando è incompiuta. Attraverso il progetto per la casa di un regista a Santa Monica, scopriamo come per l’architetto i vari elementi della casa e le azioni che li avvengono (es. cucina per sperimentare, studio per quando si sente ispirato, ect.) sono scene separate e che vengono montate assieme è architettura come montaggio di esperienze ed usi diversi, come ventaglio di possibili attività che danno luogo ad una trama spaziale, seguendo un “copione”.

Uno degli esempi meglio riusciti della sua prima fase architettonica è il progetto per la Facoltà di legge per la Loyola University a Los Angeles: l’edificio si trova in un contesto degradato e Gehry si difende dall’intorno fissando un confine chiaro dei vari pezzi che compongono l’edificio, in cui la scala diventa l’elemento fondamentale (per provocare uno spostamento e che anima e scuote l’architettura).

Sempre analizzando le abitazioni di Gehry risulta evidente l’importanza del modello e del voler dare un carattere diverso alle varie stanze anche attraverso l’uso di materiali diversi.

Nel complesso per uffici Chiat/Day a Venice, Gehry trasforma una forma qualsiasi in architettura, affermando che la forma non segue la funzione e che l’architettura segue la forma. Infatti usa il binocolo, simbolo che rappresenta questa società e lo rende architettura.

Il progetto del Museo della sedia Vitra in Germania segna un cambiamento nell’architetto, che qui usa lo stucco come materiale di rivestimento che crea una continuità tra interno ed esterno; modella lo spazio creando un senso di unitarietà e risulta difficile isolare le forme primarie che costituiscono il manufatto architettonico.

È a Bilbao che Gehry mostra tutta la sua libertà attraverso un manifesto architettonico della nuova città; ha compreso anche l’importanza a livello urbanistico di includere il ponte nella sua architettura. L’opera è frutto anche dell’uso del calcolatore, che permetterà all’architetto di gestire qualunque tipo di forma, ampliando il repertorio di forme, e avendo già usato quelle primarie. L’architettura diviene un corpo palpitante, in movimento, arbitraria: Gehry raggiunge un successo altissimo e sembra aver raggiunto la pienezza architettonica, ottenuta in seguito all’esperienza di tutta una vita.

 

 

 

Facoltà di Legge per la Loyola University – Los Angeles – California – 1978-84 – Frank Gehry

  

Capitolo 7 – REM KOOLHAAS

Koolhaas nasce a Rotterdam nel 1944, visse i primi anni in Asia in una colonia olandese per poi tornare nella città d’origine e intraprendere gli studi di giornalismo; presto si rende conto che nella seconda metà del XX secolo la descrizione dell’universo richiedeva nuove tecniche di espressione e di rappresentazione. L’architetto esplora nuove vie e trova nel cinema il mezzo più conforme alla propria cultura; Koolhaas considera il cinema e i meccanismi in esso impiegati una possibile alternativa da utilizzare come esercizio nella professione dell’architetto. Da questa formazione letteraria e cinematografica arriva la sua vocazione per l’architettura, e lo studio nei confronti della città: studierà alla fine degli anni settanta a Londra all’Architectural Association, dominata dall’influsso degli archigram (prevalenza dell’azione e della tecnologia). Successivamente si trasferì negli Stati Uniti alla Facoltà di Architettura di Cornell, diventando allievo di Ungers e Rowe, allora impegnati a spiegare la forma della città. Da Ungers apprese l’importanza della cultura del movimento moderno per l’architettura; è proprio il maestro che lo fa entrare nei circoli architettonici newyorkesi. Koolhaas lascia Cornell per New York, dove lavora all’Institute for Architectural and Urban Studies, fondato da Eisenmann. Questi sono gli anni che permetteranno di capire a Koolhaas la chiave per capire l’architettura dell’ultimo quarto di secolo e che si esprime attraverso il libro “Delirious New York”. Per l’architetto New York è la città moderna per antonomasia, in cui sono racchiusi tutti i veri principi dell’urbanistica contemporanea. Diffonde le sue idee attraverso OMA, Office for Metropolitan Architecture, fondato con la moglie e con un suo collaboratore, Zenghelis, attraverso cui vuole presentare il proprio lavoro come frutto di uno sforzo collegiale e come alternativa al lavoro solitario dell’architetto-artista. New York è la città moderna per eccellenza, costruita sotto la sola pressione dell’economia e soggetta alle forze di un capitalismo sfrenato; qui si manifestano le forme del vero progresso. Ciò che lo interessa della City è la cultura di massa, che bisogna esplorare per stabilire i fondamenti della produzione architettonica e per concretizzare l’impatto avuto da esse sulla città di NY e più in generale sulle città delle due società che hanno segnato il XX secolo, ossia Russia e Stati Uniti; nella prima represse, nella seconda accolte. Con l’analisi di Manhattan, Koolhaas completerà la sua formazione di architetto, imparando a vivere senza cadere nella tentazione dell’utopia; il suo lavoro sarà positivo nei confronti della modernizzazione, e critico rispetto al movimento moderno inteso come movimento artistico. Egli appartiene all’elitè intellettuale che ha perso il contatto con le masse; per lui conta fa forza dell’azione con cui si manifestano le nuove tecniche. Definendo la figura dell’architetto, Koolhaas afferma che il suo ruolo è trascurabile, e che l’architettura è sopravvalutata nei termini di ciò che di buono può fare, e di ciò che di male potrà o potrebbe fare. Secondo Koolhaas la cultura di massa è capace di produrre e di costruire una città con una propria logica. Non si possono stabilire criteri di giudizio e principi a priori sulla scienza urbana, perché New York li negherà tutti, essendo l’apoteosi della densità (popolazione, infrastrutture) è città della congestione. I grattacieli offrono l’inventario completo delle trasformazioni (tecniche e psicologiche) provocate dalla vita della metropoli. Inoltre terrà a sottolineare la distanza tra funzione e luogo, anche se non verrà sempre rispettata. Si può concludere che la forma dell’edificio è estranea all’esigenza funzionale, la città ci mostra come le funzioni si adattino alla forma dell’edificio. L’esterno e l’interno di un grattacielo appartengono a due mondi differenti: il primo rappresenta l’apparenza dell’edificio, il secondo è in un permanente stato fluido con cui i cittadini della metropoli combattono la noia. Il modello, per Koolhaas, è la città spontanea, frutto di uno sviluppo non controllato, cosa avvenuta nelle città americane. Quindi l’architettura risulta molto legata all’azione, al programma: il programma è all’origine della sua architettura, ed è un concetto non molto in relazione diretta con l’architettura che bisogna costruire, ma si basa sul concetto che consente la costruzione di edifici indeterminati. L’architetto non deve costruire edifici che limitano la libertà d’azione; quindi la sua proposta costruttiva è la non-architettura (“dove non c’è nulla tutto è possibile”). Egli crede nella città spontanea del XX secolo, che ha una struttura e vuole scoprirla; d’altronde, una costante della sua architettura è il desiderio di presentare il suo lavoro come un prodotto. La sua architettura si prefigura come globale, universale, utile, non legata al luogo; egli pensa che le sue opere possano essere utili allo stesso modo in ogni parte del mondo. Un’altra sua preoccupazione è quella di trovare la scala adeguata, analisi approfondita nel libro “S, M, L, XL”: la scala è legata all’uso che le persona faranno dell’architettura. È una categoria che ci porta dal privato al pubblico che permette di soddisfare le condizioni spaziali richieste dalle masse. Vuole ad arrivare ad un’architettura sempre più vicina al reale, alla realtà degli impresari edili americani, e il mondo formale scoperto studiando NY è la realtà che gli piacerebbe costruire. Come Warhol, per Koolhaas conta molto l’immagine, non è interessato al disegno, non ama le invenzioni, gli piace l’iconografia corrente; si accontenta della presenza delle immagini conosciute, e si rivolge alla società in modo aggressivo, sforzandosi di rifletterla nel suo lavoro. Ha introdotto anche il concetto di “sezione libera”, utile per studiare i grattacieli, che ci permette di studiare l’architettura in chiave verticale, e il suo ambizioso recupero della valenza iconica dell’edificio, considerato nelle città americane come un contenitore.

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

Nei primi progetti del 1972 si avverte l’influenza di Ungers e il primo incontro con New York: Koolhaas disegna una maglia urbana ispirata a Manhattan con una vasta varietà di grattacieli (influenza lecurbusierana) in modo molto libero e creativo; per l’architetto gli edifici possono essere un misto di residenze e servizi, e possono essere svincolati tra esterno e interno è non ci deve essere per forza una relazione. Dallo studio della città per Koolhaas diventerà importante il ruolo della sezione libera, che sarà fonte di ispirazione per il suo futuro lavoro di architetto. Koolhaas è, inoltre, molto affascinato dalle infrastrutture costruite dagli ingegneri per dominare il luogo. Nel progetto per il concorso per il Parc de la Villette a Parigi, dimostra il suo vero talento: non ritiene che si debba offrire una visione finale e completa del parco, quindi preferisce organizzarlo come la trama di un telaio in continua evoluzione, che evoca il panorama dei campi coltivati, osservati sorvolando i Paesi Bassi. Nel progetto di concorso per il nuovo municipio a L’Aia vediamo quanto l’architetto usi dei modelli di riferimento per comporre la propria architettura; vuole applicare i grandi volumi, i grattacieli in modo imponente (libertà volumetrica). Nel progetto per due case a patio a Rotterdam emerge il carattere ibrido della sua architettura e la sua bravura nell’usare la pianta: la casa si sviluppo su due livelli a due altezze diverse, essendo su un pendio, distribuendo la zona giorno sul patio e la zona notte sulla parte del muro comune. L’utilizzo della sezione è molto significativo in un progetto come il Sea Trade Center a Zeebrugge. Il progetto di concorso per la biblioteca di Parigi mostra il lavoro che fa l’architetto del solido quadrato, con all’interno elementi prismatici verticali, in cui sono inglobate le strutture resistenti e gli impianti tecnici; Koolhaas fa un buon uso dei modelli e dei disegni (espressivi). L’architettura per l’architetto è azione: infatti nel progetto per il centro d’arte e tecniche multimediali ZKM a Karlsruhe i suoi principi si condensano in questa definizione, e per principi intendiamo la sovrapposione di destinazioni d’uso e attività, che non sarebbe possibile senza l’impiego di scale mobili, che tendono a rendere vitale lo spazio.

La Villa d’Ava a Parigi è un esempio di applicazione del programma sociale ed estetico di Koolhaas, ignorando il contesto; diventa una riflessione sulla vita suburbana, dove mette in risalto la geometria del lotto e sembra voler fare un commento critico riguardo agli eccessi dell’architettura lecurbusieriana. La casa ha due accessi distinti, pedonale e per l’auto, con dei pilotis inclinati in modo differente e colorati in modo svariato; l’architettura di questo progetto è basata sul movimento. Sul tetto-giardino sorge una piscina, e in lontananza emerge la città di Parigi; gli spazi sono concatenati (influenza della sua formazione cinematografica) e sono il risultato di un assemblaggio di ambiti di attività differenti dai quali si possono inquadrare punti di vista che completano la ripresa.

 

 

  

 

 

 

 

 

 

Villa Dall’Ava – Parigi – 1985-91 – Rem Koolhaas

 

  

Capitolo 8 – HERZOG & DE MAURON

Sono due architetti svizzeri che hanno frequentato il Politecnico di Zurigo e iniziato a costruire a Basilea, per diventare famosi nel panorama architettonico grazie al Magazzino Ricola, manifesto di un contenimento formale che sfociava nel canonico, categoria dimenticate negli ultimi decenni, sfociati nel eccesso. L’architettura doveva essere il risultato formale della propria logica autonoma, senza dipendere dall’esterno, né di ricercare l’espressione personale. Molta importanza è rivestita dal materiale (legno laminato), sempre sperimentato nelle loro opere. La ricerca dell’origine è ciò che muove i due architetti svizzeri, dopo una ripetizione senza senso degli stili passati. Sono degli artigiani dell’architettura, che vogliono far rivivere l’emozione dell’arcaico, pensando che l’architettura abbia bisogno di nuovi cimenti. I loro progetti migliori esplorano il potenziale formale dei materiali è la loro opera è una celebrazione della materia e la forma è ciò che la rende possibile. Questa importanza data alla materia mostra l’abbandono di ogni riferimento iconografico: rinunciano all’espressione, alla comunicazione, allo scopo di recuperare il peso della costruzione e riscoprire la vera essenza dei materiali. Fondamentale è far parlare i materiali, e perciò sono necessari solo i volumi elementari, su cui si può progettare la trama e l’ordito che rendono possibile la costruzione. Vediamo esserci una distanza tra l’architetto e le sue opere, e il successo è riconducibile a questa rinuncia dell’individuo a manifestarsi direttamente nelle proprie opere. Il loro obiettivo è quello di raggiungere lo specifico partendo dall’universale è ciò che importa è la conoscenza dell’universale. Partendo da figure semplici riescono a generare pareti e coperture, nel caso della Ricola, e a risolvere problemi di costruzione ed uso, contemporaneamente. Fare architettura significa costruire, dare vita ai materiali, e fare di tutto affinché raggiungano la loro massima espressione; si trovano così nuovi modi di utilizzarli e sono loro a concretizzare la forma. I materiali aiutano a definire la struttura del costruito, e per questo per gli architetti risultano importanti i giunti, che permettono di connettere gli elementi basilari dell’architettura. Il vetro è uno dei materiali a cui hanno dedicato maggior attenzione. Analizzando il loro lavoro si nota un atteggiamento puritano d fronte all’architettura, che ci fa pensare a Mies Van Der Rohe; sono interessati allo specifico e al concreto, e ogni loro architettura è associata ad un materiale con un significato diverso (fino ad inventarli). Materiali che vengono sempre trattati in modo diverso per, a differenza di Mies, non avere sempre lo stesso linguaggio.

Si può fare un parallelismo tra i due architetti e il minimalismo: enfatizzano le forme semplici, vogliono manifestare l’energia contenuta nei materiali. Hanno sempre rivendicato la propria professionalità, consapevolezza radicata nella società in cui vivono nel loro paese, la Svizzera. I loro lavori hanno sempre rispecchiato gli attributi dell’architettura svizzere: il rispetto per il luogo, l’attenzione alla scala, il rigore e l’estrema accuratezza nei dettagli costruttivi. Le qualità che meglio rappresentano le loro architetture sono la giusta misura, la precisione, la tecnica e il rigore, caratteristiche che si associano ad un’idea razionale dell’architettura. Inoltre hanno offerto il loro contributo allo sviluppo delle nuove tecnologie del vetro.

 

ANALISI DELL’AUTORE ATTRAVERSO LE SUE OPERE

Nelle prime opere, Herzog e De Mauron esplorano gli aspetti più elementari della costruzione: ossia la creazione di un piano orizzontale su cui muoversi, di un piano di copertura orizzontale per proteggere lo spazio interposto è come in Mies la casa vuole significare che un sollevamento dal suolo di un piano orizzontale sia un atto di fondazione in cui inizia il procedimento costruttivo. Il loro scopo era definire la costruzione e istituire un sistema che incorporasse lo specifico, come realizzare una casa in legno in conseguenza al fatto che davanti sorgeva un albero; primaria diventa così la ricerca dell’universale.

Con il progetto del Magazzino Ricola, i due architetti possono proporre un’architettura radicale, intesa come rappresentazione della costruzione è il loro obiettivo è quello di rendere visibile la costruzione, fondata sul più semplice degli elementi, la parete. Il loro campo d’azione è il rettangolo, e dopo aver scelto il sistema costruttivo in pannelli di legno ricercano la forma. Gli elementi orizzontali evocano un certo spessore e una certa nostalgia per la consistenza dei muri del passato. La parete così sofisticata è il tema centrale del progetto, che i progettisti vogliono risolvere. Nelle case a schiera nella Pilotengasse a Vienna vediamo una lettura dell’insieme unitaria, che implica l’ortogonalità; nella loro architettura ricorre la serialità, la ripetizione e la continuità. Mentre nella Galleria d’arte Goetz è un solido astratto che obbliga a pensare all’interno e all’esterno, in cui contano le proporzioni, la misura, la struttura della parete. Con la cabina di controllo della stazione ferroviaria di Basilea, H&DM possono progettare un’enorme solido; sanno che il volume è molto grande per contenere la strumentazione necessaria e lo avvolgono di rame, creando una sorta di impacchettamento. Ma l’opera che meglio giustifica i materiali come veicolo d’espressione dell’architettura è l’azienda vinicola Dominus in California; si tratta di un parallelepipedo primario, formato di gabbioni riempiti di pietre basaltiche è opera dell’architettura = esaltazione e celebrazione della materia; inventano i materiali che gli servono. Il loro intento è il rivestire gli edifici, creando una pelle di materiali sempre diversi e adatti all’edificio da progettare.

 

 

 

Magazzino Ricola – Laufan – Svizzera – 1986-87 – Herzog & De Mauron