|
|
||
|
autore |
CARLOS MARTI’ ARIS |
titolo |
LA CENTINA E L’ARCO. Pensiero,
teoria, progetto in architettura |
|
editore |
CRISTIAN MARINOTTI
EDIZIONI |
|
luogo |
MILANO |
|
anno |
2007 |
|
|
|
|
lingua |
ITALIANO |
|
|
|
|
Titolo originale:
LA CIMBRA Y EL ARCO |
||
|
|
ARGOMENTI E TEMATICHE AFFRONTATE: |
“Questo libro è dedicato agli studenti di architettura in
senso lato, cioè a quell’ampio gruppo di persone che continuano a studiare ogni giorno
l’architettura.” In questo libro,
Carlo Martì Arìs
introduce una nozione di tipo legato all’identità delle opere; è una nozione
astratta, non accademica né dogmatica, che ci guida nel comprendere l’opera
ma che non ci aiuta effettivamente nella sua costruzione; da qui il titolo
“La centina e l’arco”, perché la centina diventa inutile una volta posata la
chiave dell’arco. Il titolo si riferisce anche al tema della necessità
dell’architettura, della sua presenza necessaria per far conoscere noi
stessi. L’obiettivo che l’autore vuole raggiungere è quello di far capire al
lettore che l’architettura, scienza o arte che sia, definisce le forme
analoghe alla nostra vita; egli, infatti, pensa che l’architettura abbia un senso
solo quando è capace di farci riconoscere ciò che è al fondo della sua
ragione. Il testo è diviso in tre tematiche principali, che secondo
lui sono le tre gambe su cui poggia il treppiede della formazione
dell’architetto: la teoria, strumento che serve ad ampliare il campo
problematico del progetto; la città, elemento cruciale per il progetto perché
determina il contesto nel quale esso viene sviluppato; i maestri, per il loro
valore esemplare. Il sapere dell’architettura si deposita e si condensa nei
progetti, in attesa che lo studioso lo scopra. |
|
|
|
Giudizio
Complessivo: 8 (scala 1-10) |
|
Scheda compilata da: Benedetta De Pascalis |
|
Corso di
Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013 |
|
|
|
|
Autore Nato a Barcellona nel 1948.
Architetto e professore ordinario al Dipartimento di Progettazione
Architettonica dell’Università Politecnica della Catalogna. Nel suo cammino
da professionista è stato, dal 1972 al 1985, membro fondatore e vicedirettore
della rivista 2c “Construccion de la ciudad”; queste riviste hanno il carattere di monografie.
Dietro al carattere monografico e autonomo dei singoli numeri della rivista
si nasconde una precisa linea di ricerca di Martì
Aris: l’interesse della cultura italiana e quello della città di Cerdà. Nell’ultimo numero di 2c, Linea Dura, l’architetto
è consapevole della sua appartenenza al moderno e sceglie un atteggiamento
che ricerca gli aspetti tecnici dell’architettura. Carlos Martì
Arìs usa le riviste come strumento del pensiero ma
dirige anche una collana editoriale che pubblica tesi di dottorato spagnole.
Egli scrive dei saggi, arrivando a costruire il suo “intero”, ovvero
costruisce una ricerca che sviluppa la teoria dell’architettura, una teoria
che crede nella continuità delle forme e che quindi può avanzare nella
ricerca. |
|
|
PARTE I: SULLA TEORIA |
|
Una opinione sulla
critica La parola critica deriva dal greco “krisis”, che significa “decisione” e deriva da “krino”, “io decido, io separo, io giudico”; il critico è
colui che emette giudizi, colui che possiede kriterion,
ovvero facoltà di giudizio. Al giorno d’oggi la figura del critico è sottovalutata
e ormai priva di significato; egli non deve essere più visto come un
ciarlatano, deve invece essere direttamente implicato nell’oggetto della sua
riflessione. Si può dire che ci sia una stretta relazione tra critico e
professore, infatti questo esercita la critica tra gli studenti proprio
perché l’atto di insegnare comporta una scelta basata sul giudizio. Carlos Martì Arìs è convinto che
l’artista non debba essere allo stesso tempo un critico perché rischierebbe
di perdere le sue capacità creative e, di conseguenza, il compito del critico
non deve essere separato dall’azione poetica. La critica necessaria all’architetto è quella che
si concentra sullo studio delle opere cercando di scomporle per sapere come
sono state realizzate e studiando i procedimenti utilizzati per costruirle; è
una critica che cerca di comprendere il processo mentale di ogni artista. È
per questo motivo che ANALIZZARE – CRITICARE – PROPORRE sono parti correlate
di un unico percorso di conoscenza. Secondo l’autore, per superare il lavoro del
critico, è necessario promuovere un contatto immediato tra le opere e il
pubblico. Arte e scienza: due modi di
parlare con il mondo “Alcuni vogliono cambiare il mondo, altri leggerlo, noi
vogliamo parlare con lui.” Octavio Paz Esistono due fazioni
di artisti: quelli che rinunciano a qualsiasi tipo di riflessione e si
rifanno esclusivamente all’esperienza personale, e quelli che vogliono
fondare la pratica su una teoria basata su enunciati predefiniti. Il compito
della teoria del progetto è quello di ampliare la pratica dello stesso e il
suo campo problematico; si distingue dalla pratica ma rimane vincolata ad
essa perché si basa sui dati che le fornisce; teoria e pratica sono, quindi,
due oggetti complementari e non svincolati una dall’altra. Una prima
conclusione si può avere dal fatto che la teoria di ogni progetto deve
partire dallo studio delle opere e dalla loro concretezza. La conoscenza
scientifica, però, è un ostacolo molto difficile da superare per arrivare a
definire un quadro concettuale della teoria architettonica; anche in questo
caso si possono individuare due correnti di pensiero differenti: gli artisti
idealisti, che negano l’esistenza di una dimensione conoscitiva generale; gli
artisti positivisti che cercano di applicare la scienza alle loro discipline
artistiche. Molti esponenti
dell’arte sono intervenuti su questo argomento, ad esempio Gardella afferma che l’architettura in quanto arte non
può che essere assoluta ed esatta, e la scienza relativa ed inesatta. Sia la
scienza che l’arte, alla fine, richiedono elementi oggettivi e facoltà
soggettive, inoltre la ricerca scientifica si propone di definire enunciati
astratti di carattere generale e l’indagine artistica di descrivere oggetti
concreti e singolari. Per concludere si potrebbe dire che, se la scienza
cerca di spiegare il mondo, l’arte cerca di comprenderlo. Il concetto di trasformazione
come motore del progetto Il concetto di trasformazione ha un ruolo molto
importante in tutte le discipline; in architettura la trasformazione implica
riconoscere che si parte da qualcosa di preesistente, qualcosa che conserva
delle invarianti, delle tipologie. Quando si parla di tipo ci si riferisce a
delle tendenze che esaltano caratteri soggettivi e particolari. Il progetto
non deve essere una manifestazione passiva del tipo bensì deve svilupparsi
dall’insieme di vari principi tipologici, i quali rappresentano delle
operazioni di trasformazione che ci permettono di analizzare ogni tipo di
architettura. Nella nozione di tipo convergono pensiero analogico, che
concepisce tutto come una rete di corrispondenze, e il pensiero logico, che
rende possibile la scomposizione della realtà e l’analisi dei singoli
elementi che la formano. Attraverso il concetto di trasformazione,
l’architettura contemporanea può cercare di ricomporre i suoi legami con la
tradizione, infatti oggetto della trasformazione non è l’edificio in sé ma
tutte le relazioni che si riferiscono ad esso. L’interpretazione della storia “La storia si scrive per il
presente.” Lucién Febvre La storia è una questione che interessa chiunque
fondi il proprio mestiere sul ragionamento teorico. Il nostro punto di vista
sulla situazione attuale dipende dal modo in cui la storia viene
interpretata; in molti hanno cercato di screditare l’architettura moderna,
interpretandola come disprezzo nei confronti della storia, attribuendo a
quest’ultima le perversioni della città contemporanea. Esistono diverse
posizioni per affrontare la questione: la posizione eclettica che concepisce
la storia come uno spazio piano e indifferenziato e quella teologica che la
interpreta come un tragitto obbligato. Sarebbe necessario considerare la
storia come un terreno che si può percorrere seguendo svariati itinerari in
cui alcune cose rimangono nascoste ai nostri occhi. Da qui il pensiero
sincronico che ci permette di considerare l’esperienza passata come parte del
presente, non imitando il passato bensì cercando la sua capacità di
trasformarsi in una possibilità del presente. Due concetti di base della
cultura contemporanea sono vincolati al pensiero sincronico: il luogo,
all’interno del quale si sovrappongono e convivono diversi momenti storici, e
la memoria, considerata motore dell’immaginazione. |
|
|
|
PARTE II: SULLA CITTA’ |
|
Luoghi pubblici nella natura Le posizioni ambientaliste considerano
l’architettura un nemico della natura e la giudicano partendo dall’ “impatto
ambientale”. Natura e cultura non si escludono a vicenda, piuttosto disegnano
due facce di una stessa realtà; la parola cultura, infatti, ha la stessa
radice di coltivazione e di cura, significa “prendersi cura di qualcosa”; la
cultura, quindi, rappresenta il modo in cui l’uomo cerca un rapporto con la
natura. La forma dei principali luoghi pubblici è in relazione diretta con i
fatti geografici, infatti molte città si sviluppano a seconda della
morfologia del territorio (Berna, esempio di città lineare; Siena, città
nucleare che si sviluppa a partire da una piazza considerata elemento
principale). La geografia lascia la sua impronta nella forma che i luoghi
pubblici assumono e la loro formazione deriva dalla stratificazione storica e
geografica. Nella cultura tradizionale campagna e città si
presentavano come realtà complementari ma nettamente distinte; nella città contemporanea,
al contrario, la campagna diventa uno degli elementi che disegnano la
struttura metropolitana. Questa visione di città l’aveva avuta anche Le Corbusier che triangola il territorio assumendo i vertici
come nuclei urbani esistenti e il loro interno viene destinato allo
sfruttamento agricolo. Hilberseimer, per suo conto,
organizza una maglia territoriale che si adatta alle condizioni geografiche.
Le nuove condizioni, quindi, conferiscono alla geografia il ruolo di
strutturazione del territorio urbano. Questo cambiamento della concezione di città e
campagna ha sviluppato senza dubbio la volontà di rinnovare le forme di
relazione con la natura e di costruire luoghi pubblici a stretto contatto con
essa; l’aspirazione a trasformare la natura in luogo pubblico, quindi, assume
un ruolo determinante nella cultura contemporanea. In conclusione, la città
contemporanea potrà raggiungere l’unione con la natura solo se si riescono a
comprendere i valori che essa incarna; l’architettura può essere il mezzo attraverso
il quale parliamo con il mondo attraverso due componenti: una attiva, nella
quale è necessario porre al mondo le domande corrette, e una passiva, basata
sull’ascolto attento e sul silenzio che permettono al mondo di manifestarsi. La città dell’architettura
moderna. Il caso di Bogotà Il Piano Pilota del 1950 è il primo progetto
urbanistico nel quale Le Corbusier sperimenta
alcuni elementi derivanti dalla teoria delle 7 vie, modello teorico che gli
servirà per la progettazione della città di Chandigarh; egli utilizza per la
prima volta il settore urbano con un modulo di base di 1200x800 metri.
All’interno del settore centrale del Piano Pilota Le Corbusier
si occupa del nuovo centro della città di Bogotà, esempio in cui
l’architettura moderna si confronta con la città storica affrontando una
difficile coesistenza tra gli edifici del passato e gli edifici che
componevano il nuovo centro. Secondo la strategia di Le Corbusier,
il processo sarebbe dovuto iniziare con la costruzione degli edifici del
Centro Civico parallelamente alla pianificazione a livelli più generali;
tuttavia le condizioni generali mutarono e tutto rimase incompiuto.
Nell’attuale Bogotà fluttuano dei pezzi isolati, frammenti che testimoniano
la permanenza di un modo di concepire la città che sicuramente deriva
dall’impulso suscitato dal Piano Pilota. L’obiettivo di Le Corbusier era quello di ritrovare l’accordo e la sintonia
tra la forma della città e la sua condizione geografica. I quattro elementi
dell’architettura del territorio Per restituire all’architettura un ruolo attivo è
necessario ampliare il territorio dell’architettura e questo è possibile solo
se si è capaci di abbracciare l’architettura del territorio. Lewis Munford stabilisce quelli che potrebbero essere chiamati
“i quattro elementi basilari dell’architettura del territorio”: il campo
arato, il giardino, il ponte e la città. Ognuno di questi punti si definisce
attraverso una sineddoche: il ponte concerne le infrastrutture, il campo
arato rappresenta tutte le forme di sfruttamento delle risorse naturali che
implicano una nuova modellazione della topografia del terreno, la città
include città, servizi e spazio pubblico, e il giardino include tutte quelle
reinterpretazioni della natura che fanno in modo che lo spazio abitabile si
prolunghi all’interno dell’ambiente naturale. Il territorio, quindi, deve
rappresentare uno spazio sia produttivo che abitabile e solo una relazione
tra questi due spazi può garantire la sopravvivenza a lungo termine
dell’intero sistema. Se nella città tradizionale gli elementi sono
perfettamente delimitati e divisi, nella città contemporanea i limiti si
confondono e si mischiano insieme. Osservare,
immaginare, progettare La città ci appare come motore dell’azione e una
volta compiuta la nostra esperienza in città, quest’ultima si converte in
qualcosa di immaginario alla quale si ricrea una forma. Solo attraverso un
attento lavoro di ridescrizione della città
potremmo essere in condizione di percepire la sua intima sostanza. Questo
appena descritto è, forse, uno dei pochi percorsi che ci permettono di
comprendere la forma urbana e, contemporaneamente, pensare ad una sua
possibile trasformazione. |
|
|
|
PARTE III: SUI MAESTRI |
|
Mies. Visioni trasparenti Mies Van Der Rohe attraverso
il vetro cerca la trasparenza per dare all’osservatore la possibilità che il
guardare si serva di questa per andare oltre e permetta così una
contemplazione del mondo. Mies è visto, però,
come l’architetto positivista e
tecnologico senza nessuna relazione con il mondo della visione. Se si prende
come esempio il libro Expressionismus di Hermann Bahr si può leggere che secondo l’autore tutta la storia
della pittura è stata una storia del vedere e questo modo di vedere varia
solo in funzione del modificarsi della relazione dell’uomo con il mondo;
secondo l’autore, infatti, c’è una visione esteriore e una interiore. Bahr identifica l’impressionismo con uno sguardo
esteriore che porta alla conversione dell’uomo in uno strumento passivo dei
suoi sentimenti; l’espressionismo, d’altro canto, è visto come un ritorno al
rifugio della vita interiore nella quale l’attività degli occhi prevale sulla
percezione dei fenomeni del mondo. Le forme cristallografiche sono l’emblema
dell’architettura espressionista; proprio la relazione di queste forme con la
luce è uno dei temi principali del movimento di rinnovamento culturale che
attraversò l’Europa Centrale ai primi anni del Novecento. In particolare, Mies si dibatte, nei primi anni Venti, tra l’eredità
della cultura espressionista e le nuove forme di concezione artistica
nascenti in quello stesso periodo; per questo motivo si può dire che MVDR fu
uno dei primi a muoversi secondo una corrente essenzialista,
ovvero un nuovo modo di concepire il lavoro artistico. Opera decisiva fu Glassaal (la sala di cristallo) per l’esposizione
dell’industria del vetro a Stoccarda; in questo progetto Mies
riesce a compiere un esperimento inedito: manca l’esterno; l’architetto
riesce a intervenire sull’esistente introducendo pareti e paraventi di vetro
a volte trasparenti, a volte traslucidi in modo da offrire dei differenti
effetti di luce. In quest’opera, l’obiettivo di Mies
sembra quello di predisporre un interno privo di centro e di simmetria,
attraversato da linee di tensione e sottomesso ad una sorta di equilibrio
dinamico di forze centrifughe che tendono ad uno svuotamento del nucleo
centrale. Durante il suo cammino da professionista, Mies
cerca di far scomparire dalle sue opere l’espressionismo, cioè quel nucleo
carico di soggettività in cui tutte le energie dell’autore si rivolgono verso
l’interno evitando il mondo esterno; questo cammino prevede diverse fasi che
si possono individuare in vari progetti: padiglione tedesco di Barcellona
(1929), casa Tugendhat a Brno (1930), progetto per
la casa a tre corti (1934), ecc. In questi lavori l’architetto cerca di
disporre alcuni elementi che possiamo considerare neutri, quasi
insignificanti, che assumono però valori universali e ci offrono
un’interpretazione del mondo. La visione trasparente più nuda e assoluta di
tutte è sicuramente quella che Mies raggiunge in
Casa Farnsworth (1945): è una struttura metallica
rivestita in vetro, appoggiata sulle rive del Fox a circa 200km da Chicago.
Questa casa rappresenta una composizione astratta, sprovvista di tutti quegli
ingredienti figurativi che caratterizzano l’architettura tradizionale,
ciononostante la casa rappresenta sempre un simbolo dell’abitare,
dell’insediarsi dell’uomo sulla terra. In tutto il progetto l’architetto
cerca di togliere un valore significativo all’opera, impedendo che le
immagini alle quali l’opera allude si chiudano in maniera univoca. La casa binucleare
secondo Marcel Breuer Il patio, visto come spazio chiuso e delimitato,
non è considerato tra i principi dell’architettura moderna che tendono a
sviluppare dispositivi formali basati su un’idea di spazio espansivo, infatti
la casa che meglio rappresenta i principi dell’architettura moderna è la casa
belvedere, concepita come rifugio nel quale domina la natura; il piano di facciata,
infatti, deve essere il più trasparente possibile, in modo che lo spazio
interno si proietti senza limiti nel contesto in cui l’edificio è inserito.
Secondo queste linee guida, Wright è considerato il principale architetto
moderno con le sue Prairie Houses,
dove l’uomo si fonde idealmente con la natura e la terrazza diventa la parte
più rappresentativa della casa moderna perché rappresenta la volontà di
aprirsi verso l’esterno. Tuttavia il carattere del patio come spazio
introverso è un carattere molto importante dell’abitare umano e talvolta
riappare nell’abitare contemporaneo; il padiglione tedesco di Mies e Villa Savoie di Le Corbusier possono considerarsi, infatti, percorsi di
ricerca espliciti sulla validità del patio e sulla sua capacità di confondersi
e fondersi con gli altri elementi. Marcel Breuer è
uno degli architetti che hanno trattato a fondo il tema dell’abitare nel
corso del XX secolo; da una prima analisi si può pensare che egli si mantenga
distante dai principi del patio ma dalla lettura della casa binucleare si può
individuare l’intento di recuperare alcune delle caratteristiche che il patio
esprime, unendole a quelle della casa belvedere. Il principio della casa
binucleare di Breuer si può ridurre ad una semplice
questione organizzativa che permette di dividere le funzioni della casa in
due parti che rispondono al distinto carattere delle stanze. Breuer propone anche un vero principio architettonico
basato sulla tensione spaziale, provocata dalla scissione dei due nuclei
connessi da un vestibolo che si pone tra zona giorno e zona notte e risolve
l’ingresso della casa; questo spazio intermedio che si genera tra i due
nuclei ha la potenzialità di convertirsi in un patio semiaperto. Breuer lavora, tuttavia, su due grandi linee: la long house,
o casa allungata, solitamente a palafitta formata da un volume rialzato sopra
il terreno, nella quale un elemento basico della composizione è la terrazza;
l’altro elemento che Breuer studia è la bi-nuclear house, edificio che può
essere a palafitta ma tende a disporsi sul terreno adattandosi alla sua
topografia. Esempi di abitazioni costruite e studiate da Breuer
sono la casa Robinson (1946) dove si vede applicato il principio binucleare e
la casa Clark (1949) nella quale Breuer muove un
passo decisivo e converte l’ambito racchiuso tra i due nuclei in un patio
semiaperto e parzialmente pergolato, delimitato su tre dei suoi lati mentre
il quarto si apre al paesaggio. A differenza della casa a patio tradizionale,
che costituisce un mondo isolato dall’esterno dove il patio è il risultato di
uno scavo di massa omogenea, il patio che viene proposto ora è il frutto di
un riassemblaggio articolato di parti diverse che
si legano intorno ad uno spazio libero; la casa binucleare risulta essere,
quindi, un ibrido tra la casa patio e la casa belvedere poiché si recupera
l’idea di un nuovo spazio aperto inglobato all’interno della casa. Si può
concludere dicendo che il patio non è altro che una delle forme nelle quali
l’architettura materializza l’istinto universale di chiudersi verso la
concavità come modo di abitare il mondo. Max Bill in cinque concetti L’architetto Max Bill ha come obiettivo quello di
manifestare l’UNITA’ del visibile; egli, infatti, pone la ricerca della forma
come denominatore del suo lavoro. Bill ipotizza l’esistenza di leggi
permanenti che creano dei rapporti con le strutture formali a prescindere
dalle loro dimensioni, così come avviene per alcune leggi della natura che
regolano il mondo. L’architetto in questione è un uomo d’azione; per mezzo
dei concetti, la realtà si ordina in una serie di categorie raggruppate per
coppie di termini opposti e in tal modo si crea una sorta di sistema binario;
con questo Bill dimostra che è possibile scoprire uno spazio tra i due
termini opposti. È proprio nell’azione che l’architetto ha fiducia in quanto
egli è convinto che rappresenti l’unico mezzo capace di restituire il senso
dell’unità primordiale del mondo. La VARIAZIONE è il secondo concetto di Bill in quanto
rappresenta il volto visibile dell’unità, dal momento che solo il cambiamento
mette in luce ciò che permane nel tempo. Questa è una tecnica compositiva
applicabile a tutte le arti; “Nelle Quindici variazioni” (1934-1938) Bill
lavora con lo sviluppo di un triangolo equilatero fino ad arrivare ad un
ottagono regolare attraverso la rotazione di ciascun poligono; ogni
variazione prende alcuni elementi della figura precedente e del suo processo
di costruzione, incorporando il colore come ulteriore mezzo di
diversificazione. Questi cambiamenti della materia danno più forma all’idea
dell’unità della forma. L’arte di Bill è intellettuale (l’INTELLIGIBILITA’
è il terzo concetto fondamentale): essa ha, infatti, l’intento di rendere
comprensibile per qualsiasi osservatore anche il più piccolo dettaglio del
procedimento perché tutti i passaggi hanno lasciato la loro impronta
nell’oggetto a tal punto da poter affermare che il contenuto dell’opera si
identifica con il processo della sua composizione. L’architetto cerca di estendere all’arte la virtù
della PRECISIONE, che solitamente è attribuita alla scienza, e per fare ciò
utilizza la matematica come modello di riferimento. Per Bill non esistono
differente sostanziali tra l’oggetto di produzione industriale, la scultura e
l’architettura perché tutte queste discipline rispondono ad un concatenamento
logico/decisionale che non lascia spazio all’indeterminazione. L’arte di Max
Bill è scarna ed essenziale, è priva di ornamenti di qualsiasi genere perché
non ne ha assolutamente bisogno. L’ultimo concetto essenziale per spiegare la
poetica di Bill è la REGOLARITA’ perché secondo l’architetto l’arte deve
essere il frutto di necessità e limiti, ovvero nasce dall’incessante ricerca
di regole che impongono restrizioni alla libertà dell’artista. Secondo Bill, quindi, l’arte deve essere attinente
alle regole, deve nascere da un’elaborazione tranquilla e intelligente dei
materiali messi a disposizione dalla nostra quotidianità. L’impronta
surrealista nell’opera di Aldo Rossi Se si vuole comprendere a pieno la poetica di Aldo
Rossi è necessario che lo si consideri uno dei massimi rappresentanti del
movimento neorazionalista; nonostante sia diffusa un’immagine di lui
schematica bisogna vederlo come un artista complesso, lontano da quella
dimensione lineare e facilmente comprensibile. Il contributo di Aldo Rossi
per l’architettura può essere definito attraverso due aspetti: la dimensione
teorica, riflessione ampia che aspira alla rifondazione della disciplina
architettonica, e la dimensione poetica, intesa nel senso di un fare basato
sull’esperienza personale. La sua attività intellettuale è stata l’epicentro
di un movimento culturale che ha scosso le fondamenta dell’architettura
europea. “L’architettura della città” di Rossi è un libro che costituisce un
bilancio e una conclusione di una serie di studi precedenti, e da questo ha
inizio un nuovo ciclo di teorie che culminano in un concetto che Rossi
definisce come il principio della città analoga. Quest’ultima deve essere
intesa come un processo compositivo che permette di riunire oggetti e figure
di condizione e origine diverse, carenti di un senso logico che li leghi ma
che si richiamano l’un l’altro attraverso l’immaginazione. Quest’ultima
rappresenta l’idea centrale che governa i progetti di Rossi degli anni
Sessanta e che poi culmina con la costruzione del Teatro del Mondo (1979) per
la Biennale di Venezia. La città sembra cambiare al passaggio di questo
oggetto riconoscendosi in esso a tal punto che diventa il nuovo punto nevralgico
della città; questo processo può essere definito Architettura Transitiva,
ovvero una macchina della memoria che evoca altre architetture e rimanda ad
altri luoghi e situazioni che sono al di fuori di essa. Si può pensare che il
collage sia definito come il procedimento basilare della poetica rossiana, infatti l’idea stessa di città analoga non è
altro che un invito al collage, ovvero un tentativo di allestire una scena
architettonica nella quale si introducono le regole del caso. Rossi può
essere situato nel pensiero surrealista in quanto afferma “gli elementi sono
prefissati, formalmente definiti, ma dove il significato che scaturisce al
termine dell’operazione è il senso autentico, imprevisto, originale della
ricerca.”; infatti, egli incorpora frequentemente nella sua opera elementi
derivanti direttamente dalla realtà, senza mediazioni diverse dall’istinto
che egli ha di appropriarsene. I rapporti di Aldo Rossi con il surrealismo,
nel terreno della figurazione, sono indiretti e sottili; l’affinità che sussiste
tra alcuni suoi disegni e le composizioni di Giorgio De Chirico sono intese
come manifesto dell’architetto. Si potrebbe definire il naturalismo come il
punto di partenza di Rossi e che quindi egli non pretende di sostituire un
universo fantastico ad uno reale ma di mettere in luce gli aspetti occulti
della realtà stessa. Maestri difficili. A
proposito di Giorgio Grassi “Da dove ci verrà la
rinascita, a noi che abbiamo insozzato e vuotato tutto il globo terrestre?
Solo dal passato, se l’amiamo. Non potresti essere nato in un’epoca migliore
di quella in cui si è perduto tutto.” Simone Weil Grassi ha sempre pensato che una delle cose che un
architetto deve fare all’inizio del suo cammino sia quella di scegliere i
propri maestri, ovvero fissare quei riferimenti che dovranno essere, per il
neoarchitetto, uno stimolo per orientare e sviluppare il proprio lavoro. Egli
pensa che non è il maestro a scegliere i proprio discepoli ma l’inverso e non
tutti i maestri che uno sceglie hanno su di esso la stessa influenza: ci sono
quelli che infondono forza, e quelli che accentuano la nostra inquietudine
obbligandoci a mettere in dubbio tutto ciò che facciamo. I primi sono maestri
tutelari, quelli che ci possono aiutare a trovare una soluzione, i secondi possono essere
definiti maestri difficili, poiché in essi non si trova consolazione né
comprensione ma coscienza profonda del fatto che il cammino dell’architetto
deve essere percorso in solitudine senza nessuna garanzia. Giorgio Grassi,
con il suo rifiuto di condiscendere all’idolatria del nuovo, può essere
considerato un maestro difficile, egli infatti invita a mettere in
discussione tutti i convincimenti per riaffrontare il problema da capo. Nelle
opere di Grassi è impossibile riuscire a separare il progetto dal discorso
teorico o dagli argomenti pratici; questo vincolo è una costante fondamentale
nei progetti di Grassi anche se le relazioni che i due ambiti instaurano tra
di loro non sono sempre le stesse: in una prima fase, infatti, i progetti
sembrano essere la verifica di una teoria, e in una fase successiva sono i
progetti che alimentano la riflessione teorica. Grassi è lontano dal
rappresentare quella figura di architetto dilettante o intellettuale
interessato alla dimensione filosofica e metafisica, al contrario, egli si
preoccupa degli elementi costruttivi e reali dell’opera. L’architetto accetta
solo l’insegnamento del passato arrivando addirittura a definire
l’architettura come una lingua morta; critica, quindi, il presente e questo
lo induce a interpretare qualsiasi sito come se fosse un luogo archeologico. Il pensiero
architettonico di Sostres Sostres sostenne l’idea che gli architetti che appartenevano alla sua
generazione era affidato il compito di approfondire con spirito critico le
conquiste della rivoluzione moderna e di estendere i limiti culturali del
movimento razionalista. Le sue opere sono risultate essere materialmente
molto vulnerabili, d’altro canto però possiedono una forza concettuale
insospettata che le converte in una fonte inesauribile di conoscenza; esse
aspirano all’esemplarità, cioè alla condizione del modelli che potevano
servire come riferimenti per i lavori successivi. Il pensiero di Sostres può essere sintetizzato in due assi principali:
la comprensione della modernità come un ciclo naturale di evoluzione, capace
di fondare una tradizione propria sviluppando tutte le potenzialità e la
necessità di elaborare una concezione dinamica della cultura e della storia
che riesce a incorporare nella nozione di modernità le dimensioni della realtà. Sostres pensava, nei primi anni Cinquanta, che la chiave di tutto questo
risiedesse nello sviluppo di un’architettura organica. Altri assi concettuali
importanti sono: arte e tecnica, architettura e natura; tutti questi si
relazionano tra loro attraverso un principio metodologico che li struttura:
l’opposizione dei contrari in cerca di una sintesi. Sostres
elegge come strumento di studio l’opera dei maestri considerando Gaudì, Wright, Le Corbusier, Mies e Aalto i precursori della
modernità; secondo il suo schema, l’architettura moderna si alimenta
attraverso due principi: le conquiste tecniche e sociali e le ricerche
formali. Per un certo periodo Sostres vide
nell’architettura organica l’idea di generare la ricercata sintesi, tuttavia
si rese conto che l’organicismo era una modalità specifica del funzionalismo.
La sintesi che Sostres raggiunge successivamente
permette di confrontare le opere di architettura moderna con la tradizione e
con le grandi opere del passato. Luigi Cosenza a
Pozzuoli L’opera di Cosenza non è solo dimostrazione della
compatibilità tra la cultura del Sud e i princìpi dell’architettura moderna,
bensì della piena identità che quest’ultima assume e del rigore che le è
proprio. L’opera considerata da tutti il capolavoro di Luigi Cosenza è senza
dubbio la Fabbrica Olivetti a Pozzuoli; essa rappresenta l’applicazione di un
modello di stabilimento industriale del luogo nel quale si colloca.
L’edificio è pensato in astratto e la struttura morfologica ha poco a che
vedere con gli edifici dell’architettura tradizionale, infatti, se negli
altri edifici il punto di intersezione in cui i due corpi confluiscono è
dominante nella struttura, nella fabbrica Olivetti questo è solamente
l’origine delle coordinate degli assi. L’architettura moderna non è, per
Cosenza, una rottura con la storia ma costituisce piuttosto un rinnovamento
degli strumenti operativi per riuscire a raggiungere con una maggiore
precisione le stesse finalità; è per questo motivo che la fabbrica costruita
da Cosenza può essere interpretata come un edificio fatto di colonne e
architravi, che vede grazie all’architettura moderna la possibilità di
restituire a Napoli la grandezza della sua antica cultura. Spazi per l’attesa.
L’architettura di Luis Barragan e il cinema di Yasujiro Ozu Mies Van Der Rohe, nel
mondo dell’architettura, era considerato come l’architetto che meglio
incarnava il silenzio come generatore di sensi; tuttavia anche altri
architetti, come Luis Barragan, hanno considerato
il silenzio come elemento principale della loro opera. Luis Barragan ha molti punti in comune con il regista
giapponese Yasujiro Ozu e
un loro confronto può facilitare la comprensione delle loro opere. Un punto
di partenza è sicuramente quello di considerare tutte le discipline
artistiche in uno stesso campo della conoscenza che chiamiamo arte, quindi
l’appartenenza di tutte le discipline a questo insieme permette di stabilire
dei legami molto importanti. Il lavoro di Barragan
può essere diviso in tre fasi: la prima, la giovinezza, ha come scenario la sua
città natale Guadalajara, durante la quale l’architetto usa l’analogia per
tutte le immagini che sono evocate dalla sua memoria; nella seconda fase, tra
il 1936 e il 1940, dove lo scenario si sposta a Città del Messico, egli si
avvicina al razionalismo internazionale entrando in contatto con le
avanguardie di quel periodo; da questo momento, l’analogia è sostituita
dall’astrazione che diventa il punto centrale di tutti i suoi progetti; la
terza fase, infine, è caratterizzata dall’uso del muro come elemento
primordiale dell’architettura. Nell’ultimo periodo analogia e astrazione,
elementi che caratterizzarono le due fasi precedenti, si fondono e
l’obiettivo principale di Barragan diventa quello
di esprimere i problemi che assillano l’essere umano: mancanza di riposo, di
serenità, di intimità, ecc. Secondo questa linea di pensiero, la sua
ambizione principale diventa quella di costruire degli spazi in cui l’uomo
possa ritrovare la serenità persa; egli è convinto che tutto questo sia
compito dell’architettura, che deve dare ad ogni spazio un contenuto
spirituale, convertendolo in luogo di meditazione e silenzio. Si possono distinguere tre fasi anche nel lavoro
del cinematografo Ozu: la prima, tra il 1927 e il
1936, corrisponde all’epoca del cinema muto; nella seconda, Ozu fa cinema in maniera irregolare a causa delle vicende
giapponesi; la terza fase, la più lunga, va avanti fino alla sua morte (1963)
e conta ben 13 film. Nell’ultima fase Ozu fissa la
macchina da presa ad un’altezza di 60cm (corrispondente all’altezza di una
persona seduta): questa soluzione attribuisce alle scene plasticità e
staticità, concordanti con il carattere cerimonioso presente nelle famiglie
giapponesi. Punto cruciale in comune tra i due personaggi
trattati è sicuramente quello di voler fondare il proprio stile
sull’essenziale, eliminando tutto il contorno, tutto l’accessorio che non è
fondamentale; Barragan, infatti, tra i due
principali sistemi costruttivi dell’architettura (muro e colonna) sceglie il
muro proprio perché lo ritiene l’elemento più nudo ed inespressivo; Ozu, a sua volta, fonda la sua opera su un sistema di
piani fissi secondo la regola del piano-contropiano,
considerato come il grado zero del linguaggio del cinema, quindi senza
elementi di decoro. Questo sforzo di depurazione da parte di entrambi si pone
come obiettivo la precisione assoluta dello stile; proprio l’utilizzo del
grado zero permette ad entrambi di intraprendere un cammino fondamentale per
arrivare all’origine delle cose. La DISCONTINUITA’ DELLO SPAZIO è sicuramente uno
dei caratteri in comune tra l’architetto e il cinematografo. Barragan sottolinea questo aspetto nella sua casa-studio
(1947); questo edificio è definito la casa manifesto, è un riassunto di tutte
le sue opere; la casa rimane nascosta da un muro alto che la protegge dagli
sguardi esterni e si lascia trapassare solo da pochissime aperture.
L’eterogeneo insieme di stanze si contrappone alla grande figura quadrata del
giardino e, più in generale, la costruzione intera si compone di due parti: la
casa, che si apre sul giardino, e lo studio, che si affaccia su un piccolo
patio. L’accento cade, però, sulla discontinuità che c’è tra strada, casa e
giardino; il progetto, dunque, cerca di separare i diversi spazi attraverso
un sistema di chiusure e soglie che permettono una precisa delimitazione del
territorio. Nelle pellicole di Ozu si nota questo
carattere di discontinuità, infatti, anche se i luoghi dove si svolgono le
azioni sono facilmente identificabili, gli stessi appaiono isolati e sospesi,
privi di connessione. Ozu diventa interprete di
quella che è l’importanza del luogo nella cultura giapponese, che afferma che
l’identità delle persone si rivela pienamente solo quando è definito con
precisione lo scenario della loro vita. La discontinuità di Ozu, inoltre, è molto legata al concetto di ma, appartenente alla cultura zen, che
identifica lo spazio vuoto e neutro tra gli oggetti; il ma identifica la separazione e, allo stesso tempo, la possibilità
di relazione tra gli elementi che mai si mescolano né si confondono. IL SENSO DELLA PERDITA è un altro elemento che
entrambi i personaggi sottolineano. Tutto quello che Barragan
ha costruito durante la sua vita finisce col trasformarsi in un giardino,
dietro al quale si nasconde la ferita di un paradiso perduto e con il quale
riesce a trasmettere la malinconia di questi spazi che evocano i luoghi della
sua infanzia come una grande perdita. Anche le opere della maturità di Ozu, per contro, segnano il sentimento della perdita e
quella che può essere definita come la
coscienza dell’ultima volta. Il cinema di Ozu,
infatti, è per molti un’arte elegiaca, stemperata da una visione serena e da
un certo distacco che colora le situazioni con qualcosa che i critici hanno
definito la malinconia della felicità;
proprio da questi tratti si può capire quanto sia importante le tracce
dell’assente. Elemento che possiede un valore centrale
nell’opera di Barragan, come il giardino, è
l’acqua. Essa rappresenta il nesso presente tra natura e uomo: la sua
condizione naturale che, in fase di riposo, diventa elemento architettonico
fondamentale; l’acqua moltiplica gli effetti visivi ma, allo stesso tempo,
rappresenta un ostacolo perché impedisce dei percorsi, quindi conduce l’uomo;
quello che l’acqua esercita sul piano orizzontale, il muro lo fa su quello
verticale: entrambi gli elementi
delimitano lo spazio provocando delle discontinuità ma l’acqua, a differenza
del muro, non impedisce la visione bensì la promuove e la esalta. I Pillow-shots, nei film di Ozu,
hanno un ruolo uguale a quello dell’acqua nelle opere di Barragan;
il cinematografo vuole dare importanza alla quotidianità e per farlo utilizza
i piani vuoti: piani fissi di pochi
secondi che si inseriscono nelle scene e mostrano paesaggi urbani inanimati;
la loro funzione principale è quella di provocare un intervallo per
permettere allo spettatore di percepire a pieno lo scorrere del tempo. Barragan era convinto che le opere architettoniche sono perfette quando provocano
l’emozione dell’allegria, allegria silenziosa e serena; infatti, nei giardini
delle sue case sono facilmente riconoscibili i tre elementi che lui pensa che
debbano essere presenti in tutte le opere architettoniche: isolamento,
serenità e allegria. Barragan percepisce i luoghi
pubblici non come addensamento della città ma come costruzioni presenti nella
natura e questa concezione gli permette di ottenere che un concetto privato
come l’intimità, si presenti anche in ambito comunitario. Sia Ozu che Barragan, quindi, cercano di arrivare allo straordinario
partendo dall’ordinario, ovvero dall’osservazione delle cose più vicine
all’uomo; le loro opere tendono a convertirsi in spazi per l’attesa, in
ambiti di riflessione che permettono di stabilire un dialogo con il mondo a
partire da un atteggiamento di ascolto e silenzio. |