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autore

CARLOS MARTI’ ARIS

titolo

LA CENTINA E L’ARCO. Pensiero, teoria, progetto in architettura

editore

CRISTIAN MARINOTTI EDIZIONI

luogo

MILANO

anno

2007

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

Titolo originale: LA CIMBRA Y EL ARCO

 

 

 

Descrizione: la-centina-e-l-arco-pensiero-teoria-progetto-in-architettura-969372.jpg

ARGOMENTI E TEMATICHE AFFRONTATE:

“Questo libro è dedicato agli studenti di architettura in senso lato, cioè a quell’ampio gruppo di

persone che continuano a studiare ogni giorno l’architettura.”

In questo libro, Carlo Martì Arìs introduce una nozione di tipo legato all’identità delle opere; è una nozione astratta, non accademica né dogmatica, che ci guida nel comprendere l’opera ma che non ci aiuta effettivamente nella sua costruzione; da qui il titolo “La centina e l’arco”, perché la centina diventa inutile una volta posata la chiave dell’arco. Il titolo si riferisce anche al tema della necessità dell’architettura, della sua presenza necessaria per far conoscere noi stessi. L’obiettivo che l’autore vuole raggiungere è quello di far capire al lettore che l’architettura, scienza o arte che sia, definisce le forme analoghe alla nostra vita; egli, infatti, pensa che l’architettura abbia un senso solo quando è capace di farci riconoscere ciò che è al fondo della sua ragione.

Il testo è diviso in tre tematiche principali, che secondo lui sono le tre gambe su cui poggia il treppiede della formazione dell’architetto: la teoria, strumento che serve ad ampliare il campo problematico del progetto; la città, elemento cruciale per il progetto perché determina il contesto nel quale esso viene sviluppato; i maestri, per il loro valore esemplare. Il sapere dell’architettura si deposita e si condensa nei progetti, in attesa che lo studioso lo scopra.

 

Giudizio Complessivo: 8 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Benedetta De Pascalis

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

 

 

Autore

Nato a Barcellona nel 1948. Architetto e professore ordinario al Dipartimento di Progettazione Architettonica dell’Università Politecnica della Catalogna. Nel suo cammino da professionista è stato, dal 1972 al 1985, membro fondatore e vicedirettore della rivista 2c “Construccion de la ciudad”; queste riviste hanno il carattere di monografie. Dietro al carattere monografico e autonomo dei singoli numeri della rivista si nasconde una precisa linea di ricerca di Martì Aris: l’interesse della cultura italiana e quello della città di Cerdà. Nell’ultimo numero di 2c, Linea Dura, l’architetto è consapevole della sua appartenenza al moderno e sceglie un atteggiamento che ricerca gli aspetti tecnici dell’architettura. Carlos Martì Arìs usa le riviste come strumento del pensiero ma dirige anche una collana editoriale che pubblica tesi di dottorato spagnole. Egli scrive dei saggi, arrivando a costruire il suo “intero”, ovvero costruisce una ricerca che sviluppa la teoria dell’architettura, una teoria che crede nella continuità delle forme e che quindi può avanzare nella ricerca.

  

PARTE I: SULLA TEORIA

Una opinione sulla critica

La parola critica deriva dal greco “krisis”, che significa “decisione” e deriva da “krino”, “io decido, io separo, io giudico”; il critico è colui che emette giudizi, colui che possiede kriterion, ovvero facoltà di giudizio. Al giorno d’oggi la figura del critico è sottovalutata e ormai priva di significato; egli non deve essere più visto come un ciarlatano, deve invece essere direttamente implicato nell’oggetto della sua riflessione. Si può dire che ci sia una stretta relazione tra critico e professore, infatti questo esercita la critica tra gli studenti proprio perché l’atto di insegnare comporta una scelta basata sul giudizio. Carlos Martì Arìs è convinto che l’artista non debba essere allo stesso tempo un critico perché rischierebbe di perdere le sue capacità creative e, di conseguenza, il compito del critico non deve essere separato dall’azione poetica.

La critica necessaria all’architetto è quella che si concentra sullo studio delle opere cercando di scomporle per sapere come sono state realizzate e studiando i procedimenti utilizzati per costruirle; è una critica che cerca di comprendere il processo mentale di ogni artista. È per questo motivo che ANALIZZARE – CRITICARE – PROPORRE sono parti correlate di un unico percorso di conoscenza.

Secondo l’autore, per superare il lavoro del critico, è necessario promuovere un contatto immediato tra le opere e il pubblico.

 

Arte e scienza: due modi di parlare con il mondo

“Alcuni vogliono cambiare il mondo, altri leggerlo, noi vogliamo parlare con lui.” Octavio Paz

Esistono due fazioni di artisti: quelli che rinunciano a qualsiasi tipo di riflessione e si rifanno esclusivamente all’esperienza personale, e quelli che vogliono fondare la pratica su una teoria basata su enunciati predefiniti. Il compito della teoria del progetto è quello di ampliare la pratica dello stesso e il suo campo problematico; si distingue dalla pratica ma rimane vincolata ad essa perché si basa sui dati che le fornisce; teoria e pratica sono, quindi, due oggetti complementari e non svincolati una dall’altra. Una prima conclusione si può avere dal fatto che la teoria di ogni progetto deve partire dallo studio delle opere e dalla loro concretezza. La conoscenza scientifica, però, è un ostacolo molto difficile da superare per arrivare a definire un quadro concettuale della teoria architettonica; anche in questo caso si possono individuare due correnti di pensiero differenti: gli artisti idealisti, che negano l’esistenza di una dimensione conoscitiva generale; gli artisti positivisti che cercano di applicare la scienza alle loro discipline artistiche.

Molti esponenti dell’arte sono intervenuti su questo argomento, ad esempio Gardella afferma che l’architettura in quanto arte non può che essere assoluta ed esatta, e la scienza relativa ed inesatta. Sia la scienza che l’arte, alla fine, richiedono elementi oggettivi e facoltà soggettive, inoltre la ricerca scientifica si propone di definire enunciati astratti di carattere generale e l’indagine artistica di descrivere oggetti concreti e singolari. Per concludere si potrebbe dire che, se la scienza cerca di spiegare il mondo, l’arte cerca di comprenderlo.

 

Il concetto di trasformazione come motore del progetto

Il concetto di trasformazione ha un ruolo molto importante in tutte le discipline; in architettura la trasformazione implica riconoscere che si parte da qualcosa di preesistente, qualcosa che conserva delle invarianti, delle tipologie. Quando si parla di tipo ci si riferisce a delle tendenze che esaltano caratteri soggettivi e particolari. Il progetto non deve essere una manifestazione passiva del tipo bensì deve svilupparsi dall’insieme di vari principi tipologici, i quali rappresentano delle operazioni di trasformazione che ci permettono di analizzare ogni tipo di architettura. Nella nozione di tipo convergono pensiero analogico, che concepisce tutto come una rete di corrispondenze, e il pensiero logico, che rende possibile la scomposizione della realtà e l’analisi dei singoli elementi che la formano.

Attraverso il concetto di trasformazione, l’architettura contemporanea può cercare di ricomporre i suoi legami con la tradizione, infatti oggetto della trasformazione non è l’edificio in sé ma tutte le relazioni che si riferiscono ad esso.

 

L’interpretazione della storia

“La storia si scrive per il presente.” Lucién Febvre

La storia è una questione che interessa chiunque fondi il proprio mestiere sul ragionamento teorico. Il nostro punto di vista sulla situazione attuale dipende dal modo in cui la storia viene interpretata; in molti hanno cercato di screditare l’architettura moderna, interpretandola come disprezzo nei confronti della storia, attribuendo a quest’ultima le perversioni della città contemporanea. Esistono diverse posizioni per affrontare la questione: la posizione eclettica che concepisce la storia come uno spazio piano e indifferenziato e quella teologica che la interpreta come un tragitto obbligato. Sarebbe necessario considerare la storia come un terreno che si può percorrere seguendo svariati itinerari in cui alcune cose rimangono nascoste ai nostri occhi. Da qui il pensiero sincronico che ci permette di considerare l’esperienza passata come parte del presente, non imitando il passato bensì cercando la sua capacità di trasformarsi in una possibilità del presente. Due concetti di base della cultura contemporanea sono vincolati al pensiero sincronico: il luogo, all’interno del quale si sovrappongono e convivono diversi momenti storici, e la memoria, considerata motore dell’immaginazione.

 

PARTE II: SULLA CITTA’

Luoghi pubblici nella natura

Le posizioni ambientaliste considerano l’architettura un nemico della natura e la giudicano partendo dall’ “impatto ambientale”. Natura e cultura non si escludono a vicenda, piuttosto disegnano due facce di una stessa realtà; la parola cultura, infatti, ha la stessa radice di coltivazione e di cura, significa “prendersi cura di qualcosa”; la cultura, quindi, rappresenta il modo in cui l’uomo cerca un rapporto con la natura. La forma dei principali luoghi pubblici è in relazione diretta con i fatti geografici, infatti molte città si sviluppano a seconda della morfologia del territorio (Berna, esempio di città lineare; Siena, città nucleare che si sviluppa a partire da una piazza considerata elemento principale). La geografia lascia la sua impronta nella forma che i luoghi pubblici assumono e la loro formazione deriva dalla stratificazione storica e geografica.

Nella cultura tradizionale campagna e città si presentavano come realtà complementari ma nettamente distinte; nella città contemporanea, al contrario, la campagna diventa uno degli elementi che disegnano la struttura metropolitana. Questa visione di città l’aveva avuta anche Le Corbusier che triangola il territorio assumendo i vertici come nuclei urbani esistenti e il loro interno viene destinato allo sfruttamento agricolo. Hilberseimer, per suo conto, organizza una maglia territoriale che si adatta alle condizioni geografiche. Le nuove condizioni, quindi, conferiscono alla geografia il ruolo di strutturazione del territorio urbano.

Questo cambiamento della concezione di città e campagna ha sviluppato senza dubbio la volontà di rinnovare le forme di relazione con la natura e di costruire luoghi pubblici a stretto contatto con essa; l’aspirazione a trasformare la natura in luogo pubblico, quindi, assume un ruolo determinante nella cultura contemporanea. In conclusione, la città contemporanea potrà raggiungere l’unione con la natura solo se si riescono a comprendere i valori che essa incarna; l’architettura può essere il mezzo attraverso il quale parliamo con il mondo attraverso due componenti: una attiva, nella quale è necessario porre al mondo le domande corrette, e una passiva, basata sull’ascolto attento e sul silenzio che permettono al mondo di manifestarsi.

 

La città dell’architettura moderna. Il caso di Bogotà

Il Piano Pilota del 1950 è il primo progetto urbanistico nel quale Le Corbusier sperimenta alcuni elementi derivanti dalla teoria delle 7 vie, modello teorico che gli servirà per la progettazione della città di Chandigarh; egli utilizza per la prima volta il settore urbano con un modulo di base di 1200x800 metri. All’interno del settore centrale del Piano Pilota Le Corbusier si occupa del nuovo centro della città di Bogotà, esempio in cui l’architettura moderna si confronta con la città storica affrontando una difficile coesistenza tra gli edifici del passato e gli edifici che componevano il nuovo centro. Secondo la strategia di Le Corbusier, il processo sarebbe dovuto iniziare con la costruzione degli edifici del Centro Civico parallelamente alla pianificazione a livelli più generali; tuttavia le condizioni generali mutarono e tutto rimase incompiuto. Nell’attuale Bogotà fluttuano dei pezzi isolati, frammenti che testimoniano la permanenza di un modo di concepire la città che sicuramente deriva dall’impulso suscitato dal Piano Pilota. L’obiettivo di Le Corbusier era quello di ritrovare l’accordo e la sintonia tra la forma della città e la sua condizione geografica.

 

I quattro elementi dell’architettura del territorio

Per restituire all’architettura un ruolo attivo è necessario ampliare il territorio dell’architettura e questo è possibile solo se si è capaci di abbracciare l’architettura del territorio. Lewis Munford stabilisce quelli che potrebbero essere chiamati “i quattro elementi basilari dell’architettura del territorio”: il campo arato, il giardino, il ponte e la città. Ognuno di questi punti si definisce attraverso una sineddoche: il ponte concerne le infrastrutture, il campo arato rappresenta tutte le forme di sfruttamento delle risorse naturali che implicano una nuova modellazione della topografia del terreno, la città include città, servizi e spazio pubblico, e il giardino include tutte quelle reinterpretazioni della natura che fanno in modo che lo spazio abitabile si prolunghi all’interno dell’ambiente naturale. Il territorio, quindi, deve rappresentare uno spazio sia produttivo che abitabile e solo una relazione tra questi due spazi può garantire la sopravvivenza a lungo termine dell’intero sistema. Se nella città tradizionale gli elementi sono perfettamente delimitati e divisi, nella città contemporanea i limiti si confondono e si mischiano insieme.

 

Osservare, immaginare, progettare

La città ci appare come motore dell’azione e una volta compiuta la nostra esperienza in città, quest’ultima si converte in qualcosa di immaginario alla quale si ricrea una forma. Solo attraverso un attento lavoro di ridescrizione della città potremmo essere in condizione di percepire la sua intima sostanza. Questo appena descritto è, forse, uno dei pochi percorsi che ci permettono di comprendere la forma urbana e, contemporaneamente, pensare ad una sua possibile trasformazione.

 

PARTE III: SUI MAESTRI

Mies. Visioni trasparenti

Mies Van Der Rohe attraverso il vetro cerca la trasparenza per dare all’osservatore la possibilità che il guardare si serva di questa per andare oltre e permetta così una contemplazione del mondo. Mies è visto, però, come  l’architetto positivista e tecnologico senza nessuna relazione con il mondo della visione. Se si prende come esempio il libro Expressionismus di Hermann Bahr si può leggere che secondo l’autore tutta la storia della pittura è stata una storia del vedere e questo modo di vedere varia solo in funzione del modificarsi della relazione dell’uomo con il mondo; secondo l’autore, infatti, c’è una visione esteriore e una interiore. Bahr identifica l’impressionismo con uno sguardo esteriore che porta alla conversione dell’uomo in uno strumento passivo dei suoi sentimenti; l’espressionismo, d’altro canto, è visto come un ritorno al rifugio della vita interiore nella quale l’attività degli occhi prevale sulla percezione dei fenomeni del mondo. Le forme cristallografiche sono l’emblema dell’architettura espressionista; proprio la relazione di queste forme con la luce è uno dei temi principali del movimento di rinnovamento culturale che attraversò l’Europa Centrale ai primi anni del Novecento. In particolare, Mies si dibatte, nei primi anni Venti, tra l’eredità della cultura espressionista e le nuove forme di concezione artistica nascenti in quello stesso periodo; per questo motivo si può dire che MVDR fu uno dei primi a muoversi secondo una corrente essenzialista, ovvero un nuovo modo di concepire il lavoro artistico. Opera decisiva fu Glassaal (la sala di cristallo) per l’esposizione dell’industria del vetro a Stoccarda; in questo progetto Mies riesce a compiere un esperimento inedito: manca l’esterno; l’architetto riesce a intervenire sull’esistente introducendo pareti e paraventi di vetro a volte trasparenti, a volte traslucidi in modo da offrire dei differenti effetti di luce. In quest’opera, l’obiettivo di Mies sembra quello di predisporre un interno privo di centro e di simmetria, attraversato da linee di tensione e sottomesso ad una sorta di equilibrio dinamico di forze centrifughe che tendono ad uno svuotamento del nucleo centrale. Durante il suo cammino da professionista, Mies cerca di far scomparire dalle sue opere l’espressionismo, cioè quel nucleo carico di soggettività in cui tutte le energie dell’autore si rivolgono verso l’interno evitando il mondo esterno; questo cammino prevede diverse fasi che si possono individuare in vari progetti: padiglione tedesco di Barcellona (1929), casa Tugendhat a Brno (1930), progetto per la casa a tre corti (1934), ecc. In questi lavori l’architetto cerca di disporre alcuni elementi che possiamo considerare neutri, quasi insignificanti, che assumono però valori universali e ci offrono un’interpretazione del mondo. La visione trasparente più nuda e assoluta di tutte è sicuramente quella che Mies raggiunge in Casa Farnsworth (1945): è una struttura metallica rivestita in vetro, appoggiata sulle rive del Fox a circa 200km da Chicago. Questa casa rappresenta una composizione astratta, sprovvista di tutti quegli ingredienti figurativi che caratterizzano l’architettura tradizionale, ciononostante la casa rappresenta sempre un simbolo dell’abitare, dell’insediarsi dell’uomo sulla terra. In tutto il progetto l’architetto cerca di togliere un valore significativo all’opera, impedendo che le immagini alle quali l’opera allude si chiudano in maniera univoca.

 

La casa binucleare secondo Marcel Breuer

Il patio, visto come spazio chiuso e delimitato, non è considerato tra i principi dell’architettura moderna che tendono a sviluppare dispositivi formali basati su un’idea di spazio espansivo, infatti la casa che meglio rappresenta i principi dell’architettura moderna è la casa belvedere, concepita come rifugio nel quale domina la natura; il piano di facciata, infatti, deve essere il più trasparente possibile, in modo che lo spazio interno si proietti senza limiti nel contesto in cui l’edificio è inserito. Secondo queste linee guida, Wright è considerato il principale architetto moderno con le sue Prairie Houses, dove l’uomo si fonde idealmente con la natura e la terrazza diventa la parte più rappresentativa della casa moderna perché rappresenta la volontà di aprirsi verso l’esterno. Tuttavia il carattere del patio come spazio introverso è un carattere molto importante dell’abitare umano e talvolta riappare nell’abitare contemporaneo; il padiglione tedesco di Mies e Villa Savoie di Le Corbusier possono considerarsi, infatti, percorsi di ricerca espliciti sulla validità del patio e sulla sua capacità di confondersi e fondersi con gli altri elementi. Marcel Breuer è uno degli architetti che hanno trattato a fondo il tema dell’abitare nel corso del XX secolo; da una prima analisi si può pensare che egli si mantenga distante dai principi del patio ma dalla lettura della casa binucleare si può individuare l’intento di recuperare alcune delle caratteristiche che il patio esprime, unendole a quelle della casa belvedere. Il principio della casa binucleare di Breuer si può ridurre ad una semplice questione organizzativa che permette di dividere le funzioni della casa in due parti che rispondono al distinto carattere delle stanze. Breuer propone anche un vero principio architettonico basato sulla tensione spaziale, provocata dalla scissione dei due nuclei connessi da un vestibolo che si pone tra zona giorno e zona notte e risolve l’ingresso della casa; questo spazio intermedio che si genera tra i due nuclei ha la potenzialità di convertirsi in un patio semiaperto. Breuer lavora, tuttavia, su due grandi linee: la long house, o casa allungata, solitamente a palafitta formata da un volume rialzato sopra il terreno, nella quale un elemento basico della composizione è la terrazza; l’altro elemento che Breuer studia è la bi-nuclear house, edificio che può essere a palafitta ma tende a disporsi sul terreno adattandosi alla sua topografia.

Esempi di abitazioni costruite e studiate da Breuer sono la casa Robinson (1946) dove si vede applicato il principio binucleare e la casa Clark (1949) nella quale Breuer muove un passo decisivo e converte l’ambito racchiuso tra i due nuclei in un patio semiaperto e parzialmente pergolato, delimitato su tre dei suoi lati mentre il quarto si apre al paesaggio. A differenza della casa a patio tradizionale, che costituisce un mondo isolato dall’esterno dove il patio è il risultato di uno scavo di massa omogenea, il patio che viene proposto ora è il frutto di un riassemblaggio articolato di parti diverse che si legano intorno ad uno spazio libero; la casa binucleare risulta essere, quindi, un ibrido tra la casa patio e la casa belvedere poiché si recupera l’idea di un nuovo spazio aperto inglobato all’interno della casa. Si può concludere dicendo che il patio non è altro che una delle forme nelle quali l’architettura materializza l’istinto universale di chiudersi verso la concavità come modo di abitare il mondo.

 

Max Bill in cinque concetti

L’architetto Max Bill ha come obiettivo quello di manifestare l’UNITA’ del visibile; egli, infatti, pone la ricerca della forma come denominatore del suo lavoro. Bill ipotizza l’esistenza di leggi permanenti che creano dei rapporti con le strutture formali a prescindere dalle loro dimensioni, così come avviene per alcune leggi della natura che regolano il mondo. L’architetto in questione è un uomo d’azione; per mezzo dei concetti, la realtà si ordina in una serie di categorie raggruppate per coppie di termini opposti e in tal modo si crea una sorta di sistema binario; con questo Bill dimostra che è possibile scoprire uno spazio tra i due termini opposti. È proprio nell’azione che l’architetto ha fiducia in quanto egli è convinto che rappresenti l’unico mezzo capace di restituire il senso dell’unità primordiale del mondo.

La VARIAZIONE è il secondo concetto di Bill in quanto rappresenta il volto visibile dell’unità, dal momento che solo il cambiamento mette in luce ciò che permane nel tempo. Questa è una tecnica compositiva applicabile a tutte le arti; “Nelle Quindici variazioni” (1934-1938) Bill lavora con lo sviluppo di un triangolo equilatero fino ad arrivare ad un ottagono regolare attraverso la rotazione di ciascun poligono; ogni variazione prende alcuni elementi della figura precedente e del suo processo di costruzione, incorporando il colore come ulteriore mezzo di diversificazione. Questi cambiamenti della materia danno più forma all’idea dell’unità della forma.

L’arte di Bill è intellettuale (l’INTELLIGIBILITA’ è il terzo concetto fondamentale): essa ha, infatti, l’intento di rendere comprensibile per qualsiasi osservatore anche il più piccolo dettaglio del procedimento perché tutti i passaggi hanno lasciato la loro impronta nell’oggetto a tal punto da poter affermare che il contenuto dell’opera si identifica con il processo della sua composizione.

L’architetto cerca di estendere all’arte la virtù della PRECISIONE, che solitamente è attribuita alla scienza, e per fare ciò utilizza la matematica come modello di riferimento. Per Bill non esistono differente sostanziali tra l’oggetto di produzione industriale, la scultura e l’architettura perché tutte queste discipline rispondono ad un concatenamento logico/decisionale che non lascia spazio all’indeterminazione. L’arte di Max Bill è scarna ed essenziale, è priva di ornamenti di qualsiasi genere perché non ne ha assolutamente bisogno.

L’ultimo concetto essenziale per spiegare la poetica di Bill è la REGOLARITA’ perché secondo l’architetto l’arte deve essere il frutto di necessità e limiti, ovvero nasce dall’incessante ricerca di regole che impongono restrizioni alla libertà dell’artista.

Secondo Bill, quindi, l’arte deve essere attinente alle regole, deve nascere da un’elaborazione tranquilla e intelligente dei materiali messi a disposizione dalla nostra quotidianità.

 

L’impronta surrealista nell’opera di Aldo Rossi

Se si vuole comprendere a pieno la poetica di Aldo Rossi è necessario che lo si consideri uno dei massimi rappresentanti del movimento neorazionalista; nonostante sia diffusa un’immagine di lui schematica bisogna vederlo come un artista complesso, lontano da quella dimensione lineare e facilmente comprensibile. Il contributo di Aldo Rossi per l’architettura può essere definito attraverso due aspetti: la dimensione teorica, riflessione ampia che aspira alla rifondazione della disciplina architettonica, e la dimensione poetica, intesa nel senso di un fare basato sull’esperienza personale. La sua attività intellettuale è stata l’epicentro di un movimento culturale che ha scosso le fondamenta dell’architettura europea. “L’architettura della città” di Rossi è un libro che costituisce un bilancio e una conclusione di una serie di studi precedenti, e da questo ha inizio un nuovo ciclo di teorie che culminano in un concetto che Rossi definisce come il principio della città analoga. Quest’ultima deve essere intesa come un processo compositivo che permette di riunire oggetti e figure di condizione e origine diverse, carenti di un senso logico che li leghi ma che si richiamano l’un l’altro attraverso l’immaginazione. Quest’ultima rappresenta l’idea centrale che governa i progetti di Rossi degli anni Sessanta e che poi culmina con la costruzione del Teatro del Mondo (1979) per la Biennale di Venezia. La città sembra cambiare al passaggio di questo oggetto riconoscendosi in esso a tal punto che diventa il nuovo punto nevralgico della città; questo processo può essere definito Architettura Transitiva, ovvero una macchina della memoria che evoca altre architetture e rimanda ad altri luoghi e situazioni che sono al di fuori di essa. Si può pensare che il collage sia definito come il procedimento basilare della poetica rossiana, infatti l’idea stessa di città analoga non è altro che un invito al collage, ovvero un tentativo di allestire una scena architettonica nella quale si introducono le regole del caso. Rossi può essere situato nel pensiero surrealista in quanto afferma “gli elementi sono prefissati, formalmente definiti, ma dove il significato che scaturisce al termine dell’operazione è il senso autentico, imprevisto, originale della ricerca.”; infatti, egli incorpora frequentemente nella sua opera elementi derivanti direttamente dalla realtà, senza mediazioni diverse dall’istinto che egli ha di appropriarsene. I rapporti di Aldo Rossi con il surrealismo, nel terreno della figurazione, sono indiretti e sottili; l’affinità che sussiste tra alcuni suoi disegni e le composizioni di Giorgio De Chirico sono intese come manifesto dell’architetto. Si potrebbe definire il naturalismo come il punto di partenza di Rossi e che quindi egli non pretende di sostituire un universo fantastico ad uno reale ma di mettere in luce gli aspetti occulti della realtà stessa.

 

Maestri difficili. A proposito di Giorgio Grassi

“Da dove ci verrà la rinascita, a noi che abbiamo insozzato e vuotato tutto il globo terrestre? Solo dal passato, se l’amiamo. Non potresti essere nato in un’epoca migliore di quella in cui si è perduto tutto.” Simone Weil

Grassi ha sempre pensato che una delle cose che un architetto deve fare all’inizio del suo cammino sia quella di scegliere i propri maestri, ovvero fissare quei riferimenti che dovranno essere, per il neoarchitetto, uno stimolo per orientare e sviluppare il proprio lavoro. Egli pensa che non è il maestro a scegliere i proprio discepoli ma l’inverso e non tutti i maestri che uno sceglie hanno su di esso la stessa influenza: ci sono quelli che infondono forza, e quelli che accentuano la nostra inquietudine obbligandoci a mettere in dubbio tutto ciò che facciamo. I primi sono maestri tutelari, quelli che ci possono aiutare a trovare  una soluzione, i secondi possono essere definiti maestri difficili, poiché in essi non si trova consolazione né comprensione ma coscienza profonda del fatto che il cammino dell’architetto deve essere percorso in solitudine senza nessuna garanzia. Giorgio Grassi, con il suo rifiuto di condiscendere all’idolatria del nuovo, può essere considerato un maestro difficile, egli infatti invita a mettere in discussione tutti i convincimenti per riaffrontare il problema da capo. Nelle opere di Grassi è impossibile riuscire a separare il progetto dal discorso teorico o dagli argomenti pratici; questo vincolo è una costante fondamentale nei progetti di Grassi anche se le relazioni che i due ambiti instaurano tra di loro non sono sempre le stesse: in una prima fase, infatti, i progetti sembrano essere la verifica di una teoria, e in una fase successiva sono i progetti che alimentano la riflessione teorica. Grassi è lontano dal rappresentare quella figura di architetto dilettante o intellettuale interessato alla dimensione filosofica e metafisica, al contrario, egli si preoccupa degli elementi costruttivi e reali dell’opera. L’architetto accetta solo l’insegnamento del passato arrivando addirittura a definire l’architettura come una lingua morta; critica, quindi, il presente e questo lo induce a interpretare qualsiasi sito come se fosse un luogo archeologico.

 

Il pensiero architettonico di Sostres

Sostres sostenne l’idea che gli architetti che appartenevano alla sua generazione era affidato il compito di approfondire con spirito critico le conquiste della rivoluzione moderna e di estendere i limiti culturali del movimento razionalista. Le sue opere sono risultate essere materialmente molto vulnerabili, d’altro canto però possiedono una forza concettuale insospettata che le converte in una fonte inesauribile di conoscenza; esse aspirano all’esemplarità, cioè alla condizione del modelli che potevano servire come riferimenti per i lavori successivi. Il pensiero di Sostres può essere sintetizzato in due assi principali: la comprensione della modernità come un ciclo naturale di evoluzione, capace di fondare una tradizione propria sviluppando tutte le potenzialità e la necessità di elaborare una concezione dinamica della cultura e della storia che riesce a incorporare nella nozione di modernità le dimensioni della realtà.

Sostres pensava, nei primi anni Cinquanta, che la chiave di tutto questo risiedesse nello sviluppo di un’architettura organica. Altri assi concettuali importanti sono: arte e tecnica, architettura e natura; tutti questi si relazionano tra loro attraverso un principio metodologico che li struttura: l’opposizione dei contrari in cerca di una sintesi. Sostres elegge come strumento di studio l’opera dei maestri considerando Gaudì, Wright, Le Corbusier, Mies e Aalto i precursori della modernità; secondo il suo schema, l’architettura moderna si alimenta attraverso due principi: le conquiste tecniche e sociali e le ricerche formali. Per un certo periodo Sostres vide nell’architettura organica l’idea di generare la ricercata sintesi, tuttavia si rese conto che l’organicismo era una modalità specifica del funzionalismo. La sintesi che Sostres raggiunge successivamente permette di confrontare le opere di architettura moderna con la tradizione e con le grandi opere del passato.

 

Luigi Cosenza a Pozzuoli

L’opera di Cosenza non è solo dimostrazione della compatibilità tra la cultura del Sud e i princìpi dell’architettura moderna, bensì della piena identità che quest’ultima assume e del rigore che le è proprio. L’opera considerata da tutti il capolavoro di Luigi Cosenza è senza dubbio la Fabbrica Olivetti a Pozzuoli; essa rappresenta l’applicazione di un modello di stabilimento industriale del luogo nel quale si colloca. L’edificio è pensato in astratto e la struttura morfologica ha poco a che vedere con gli edifici dell’architettura tradizionale, infatti, se negli altri edifici il punto di intersezione in cui i due corpi confluiscono è dominante nella struttura, nella fabbrica Olivetti questo è solamente l’origine delle coordinate degli assi. L’architettura moderna non è, per Cosenza, una rottura con la storia ma costituisce piuttosto un rinnovamento degli strumenti operativi per riuscire a raggiungere con una maggiore precisione le stesse finalità; è per questo motivo che la fabbrica costruita da Cosenza può essere interpretata come un edificio fatto di colonne e architravi, che vede grazie all’architettura moderna la possibilità di restituire a Napoli la grandezza della sua antica cultura.

 

Spazi per l’attesa. L’architettura di Luis Barragan e il cinema di Yasujiro Ozu

Mies Van Der Rohe, nel mondo dell’architettura, era considerato come l’architetto che meglio incarnava il silenzio come generatore di sensi; tuttavia anche altri architetti, come Luis Barragan, hanno considerato il silenzio come elemento principale della loro opera. Luis Barragan ha molti punti in comune con il regista giapponese Yasujiro Ozu e un loro confronto può facilitare la comprensione delle loro opere. Un punto di partenza è sicuramente quello di considerare tutte le discipline artistiche in uno stesso campo della conoscenza che chiamiamo arte, quindi l’appartenenza di tutte le discipline a questo insieme permette di stabilire dei legami molto importanti.

Il lavoro di Barragan può essere diviso in tre fasi: la prima, la giovinezza, ha come scenario la sua città natale Guadalajara, durante la quale l’architetto usa l’analogia per tutte le immagini che sono evocate dalla sua memoria; nella seconda fase, tra il 1936 e il 1940, dove lo scenario si sposta a Città del Messico, egli si avvicina al razionalismo internazionale entrando in contatto con le avanguardie di quel periodo; da questo momento, l’analogia è sostituita dall’astrazione che diventa il punto centrale di tutti i suoi progetti; la terza fase, infine, è caratterizzata dall’uso del muro come elemento primordiale dell’architettura. Nell’ultimo periodo analogia e astrazione, elementi che caratterizzarono le due fasi precedenti, si fondono e l’obiettivo principale di Barragan diventa quello di esprimere i problemi che assillano l’essere umano: mancanza di riposo, di serenità, di intimità, ecc. Secondo questa linea di pensiero, la sua ambizione principale diventa quella di costruire degli spazi in cui l’uomo possa ritrovare la serenità persa; egli è convinto che tutto questo sia compito dell’architettura, che deve dare ad ogni spazio un contenuto spirituale, convertendolo in luogo di meditazione e silenzio.

Si possono distinguere tre fasi anche nel lavoro del cinematografo Ozu: la prima, tra il 1927 e il 1936, corrisponde all’epoca del cinema muto; nella seconda, Ozu fa cinema in maniera irregolare a causa delle vicende giapponesi; la terza fase, la più lunga, va avanti fino alla sua morte (1963) e conta ben 13 film. Nell’ultima fase Ozu fissa la macchina da presa ad un’altezza di 60cm (corrispondente all’altezza di una persona seduta): questa soluzione attribuisce alle scene plasticità e staticità, concordanti con il carattere cerimonioso presente nelle famiglie giapponesi.

Punto cruciale in comune tra i due personaggi trattati è sicuramente quello di voler fondare il proprio stile sull’essenziale, eliminando tutto il contorno, tutto l’accessorio che non è fondamentale; Barragan, infatti, tra i due principali sistemi costruttivi dell’architettura (muro e colonna) sceglie il muro proprio perché lo ritiene l’elemento più nudo ed inespressivo; Ozu, a sua volta, fonda la sua opera su un sistema di piani fissi secondo la regola del piano-contropiano, considerato come il grado zero del linguaggio del cinema, quindi senza elementi di decoro. Questo sforzo di depurazione da parte di entrambi si pone come obiettivo la precisione assoluta dello stile; proprio l’utilizzo del grado zero permette ad entrambi di intraprendere un cammino fondamentale per arrivare all’origine delle cose.

La DISCONTINUITA’ DELLO SPAZIO è sicuramente uno dei caratteri in comune tra l’architetto e il cinematografo. Barragan sottolinea questo aspetto nella sua casa-studio (1947); questo edificio è definito la casa manifesto, è un riassunto di tutte le sue opere; la casa rimane nascosta da un muro alto che la protegge dagli sguardi esterni e si lascia trapassare solo da pochissime aperture. L’eterogeneo insieme di stanze si contrappone alla grande figura quadrata del giardino e, più in generale, la costruzione intera si compone di due parti: la casa, che si apre sul giardino, e lo studio, che si affaccia su un piccolo patio. L’accento cade, però, sulla discontinuità che c’è tra strada, casa e giardino; il progetto, dunque, cerca di separare i diversi spazi attraverso un sistema di chiusure e soglie che permettono una precisa delimitazione del territorio. Nelle pellicole di Ozu si nota questo carattere di discontinuità, infatti, anche se i luoghi dove si svolgono le azioni sono facilmente identificabili, gli stessi appaiono isolati e sospesi, privi di connessione. Ozu diventa interprete di quella che è l’importanza del luogo nella cultura giapponese, che afferma che l’identità delle persone si rivela pienamente solo quando è definito con precisione lo scenario della loro vita. La discontinuità di Ozu, inoltre, è molto legata al concetto di ma, appartenente alla cultura zen, che identifica lo spazio vuoto e neutro tra gli oggetti; il ma identifica la separazione e, allo stesso tempo, la possibilità di relazione tra gli elementi che mai si mescolano né si confondono.

IL SENSO DELLA PERDITA è un altro elemento che entrambi i personaggi sottolineano. Tutto quello che Barragan ha costruito durante la sua vita finisce col trasformarsi in un giardino, dietro al quale si nasconde la ferita di un paradiso perduto e con il quale riesce a trasmettere la malinconia di questi spazi che evocano i luoghi della sua infanzia come una grande perdita. Anche le opere della maturità di Ozu, per contro, segnano il sentimento della perdita e quella che può essere definita come la coscienza dell’ultima volta. Il cinema di Ozu, infatti, è per molti un’arte elegiaca, stemperata da una visione serena e da un certo distacco che colora le situazioni con qualcosa che i critici hanno definito la malinconia della felicità; proprio da questi tratti si può capire quanto sia importante le tracce dell’assente.

Elemento che possiede un valore centrale nell’opera di Barragan, come il giardino, è l’acqua. Essa rappresenta il nesso presente tra natura e uomo: la sua condizione naturale che, in fase di riposo, diventa elemento architettonico fondamentale; l’acqua moltiplica gli effetti visivi ma, allo stesso tempo, rappresenta un ostacolo perché impedisce dei percorsi, quindi conduce l’uomo; quello che l’acqua esercita sul piano orizzontale, il muro lo fa su quello verticale: entrambi  gli elementi delimitano lo spazio provocando delle discontinuità ma l’acqua, a differenza del muro, non impedisce la visione bensì la promuove e la esalta. I Pillow-shots, nei film di Ozu, hanno un ruolo uguale a quello dell’acqua nelle opere di Barragan; il cinematografo vuole dare importanza alla quotidianità e per farlo utilizza i piani vuoti: piani fissi di pochi secondi che si inseriscono nelle scene e mostrano paesaggi urbani inanimati; la loro funzione principale è quella di provocare un intervallo per permettere allo spettatore di percepire a pieno lo scorrere del tempo.

Barragan era convinto che le opere architettoniche sono perfette quando provocano l’emozione dell’allegria, allegria silenziosa e serena; infatti, nei giardini delle sue case sono facilmente riconoscibili i tre elementi che lui pensa che debbano essere presenti in tutte le opere architettoniche: isolamento, serenità e allegria. Barragan percepisce i luoghi pubblici non come addensamento della città ma come costruzioni presenti nella natura e questa concezione gli permette di ottenere che un concetto privato come l’intimità, si presenti anche in ambito comunitario.

Sia Ozu che Barragan, quindi, cercano di arrivare allo straordinario partendo dall’ordinario, ovvero dall’osservazione delle cose più vicine all’uomo; le loro opere tendono a convertirsi in spazi per l’attesa, in ambiti di riflessione che permettono di stabilire un dialogo con il mondo a partire da un atteggiamento di ascolto e silenzio.