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autore |
CARLOS MARTÌ ARÌS |
titolo |
SILENZI ELOQUENTI |
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editore |
CHRISTIAN MARINOTTI EDIZIONI S.R.L. |
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luogo |
MILANO |
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anno |
2002 |
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lingua |
ITALIANO |
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Titolo originale: Silencios
elocuentes |
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Argomento e tematiche affrontate |
Carlos Martì Arìs
introduce con questo libro un concetto molto importante nel panorama della
cultura e dell’arte: la figura del Silenzio. Afferma come, nell’arte contemporanea, è abituale la sua invocazione.
Esso viene visto secondo vari aspetti: come atto di resa o d’abbandono espresso in forma ironica; come il luogo in cui nasce l’arte quando va oltre il linguaggio. Egli porta alla nostra attenzione la presenza di un importante gruppo
radicato di artisti, durante la fine del ventesimo secolo. Questo gruppo ha coltivato l’importanza della poetica del Silenzio, in
quanto sono stati capaci di interpretare la realtà della nostra epoca. Di questo gruppo, Arìs cita all’interno del suo
libro cinque artisti: Jorge Luis Borges, Mies Van der Rohe, Yasuhiro
Ozu, Mark Rothko e Jorge Oteiza. Si serve di loro perché, nonostante siano degli artisti appartenenti a
cinque discipline artistiche diverse, sono accomunati da alcuni fattori,
primo fra tutti la scelta di fare della Poetica del Silenzio uno dei punti di
forza del proprio pensiero. Sono anche uniti dalla loro visione personale dell’arte. In linee
generali, la vedono come introspezione, come contemplazione dei sensi.
Pensano che l’arte debba stupire lo spettatore, lasciarlo a bocca aperta. In altri capitoli, l’autore si appresta a raccontare come le avanguardie
moderne e alcune epoche storiche si sono confrontate con la Poetica del
Silenzio. Egli descrive come, a partire da alcuni artisti dell’ultimo secolo,
si sia evoluto il linguaggio dell’artista, fino a raggiungere in ultimo luogo
un gruppo di artisti che ha fatto del Silenzio un proprio, importante,
strumento. In ultima analisi, è stato inserito all’interno del libro una raccolta di
saggi di altri autori: loro, analizzando alcuni temi ed argomenti, ci
mostrano come la Poetica del Silenzio abbia influenzato il pensiero e lo
stile di alcuni artisti contemporanei. Ci mostrano il percorso che queste
figure hanno affrontato per raggiungere il loro risultato, descrivendone
infine i frutti del loro lavoro. |
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Giudizio
Complessivo: 7 (scala 1-10) |
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Scheda compilata da: Roberto Ricotta |
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Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2
a.a.2012/2013 |
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Autore |
Carlos Martì Arìs è nato a Barcellona
nel 1948. È un architetto i cui interessi spaziano dalle arti figurative, alla
musica e alla letteratura. Svolge attività didattica e lavorativa presso la
sua città natale, dove prende la cattedra di Composizione presso la Escuela de Arquitectura
de Barcelona. È stato
vicedirettore della rivista 2C Construccione la Ciudad dal momento della sua
fondazione e adesso è Direttore della collana Arquithesis. Ha sviluppato
un’ampia riflessione teorica attraverso numerosi articoli e conferenze ed è
autore di vari libri. I suoi progetti, invece, elaborati con l’architetto
Antonio Armesto, sono stati pubblicati in numerose
riviste spagnole e internazionali. |
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CAPITOLI |
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PARTE PRIMA |
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Capitolo 1 – Borges nel suo labirinto |
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L’autore comincia il capitolo
citando un racconto di Herman Hesse, Il
Gioco delle palle di Vetro. I fatti trattati in questo racconto sono
ambientati in un futuro non troppo lontano, caratterizzato da un’arte fondata
sull’anonimato e sulla dimensione sovrapersonale delle sue manifestazioni.
Tramite questo racconto, costruisce una pungente diagnosi del suo presente:
vivere l’era della terza pagina. Contro questo pensiero si era piano
piano giunti alla cultura basata sul racconto: le conoscenze dell’umanità
vengono trattati dai giocatori di perle come degli organi di un organista. Si
cerca di trovare connessioni tra argomenti molto distanti. In questo modo vengono esaltati gli
aspetti biografici più stravaganti e si finisce per nutrirsi delle più eccessive fantasie e
trovate individuali. Hesse afferma un fenomeno che si presenta periodicamente;
ogni epoca finisce nel produrre una cultura della terza pagina, contro la quale ci si contrappone. A questo punto, l’autore afferma
che Borges non è altro che uno dei giocatori di perle i quali, grazie al
linguaggio che hanno scelto, sono capaci di interpretare la trama della
cultura universale. Egli invoca con insistenza l’idea
che una delle massime aspirazioni dell’arte sia il superamento degli aspetti
meramente individuali e la conquista di una dimensione espressiva di
carattere sovrapersonale. Dopodichè, l’autore comincia a descrivere il
pensiero e gli strumenti dello scrittore: Borges ha una concezione della letteratura diversa
dall’usuale. Egli crede nella letteratura pura, non allo scrittore che l’ha
prodotta. In uno dei suoi scritti, Borges
ed Io, arriva a sdoppiare se stesso in due personalità: lui e la sua
personalità letteraria. Per questo motivo le sue opere sono piene di
riferimenti ai grandi miti letterari del passato, ammirando gli autori solo
come coloro che incarnano la personalità letteraria; una strategia poetica cui ricorre
con frequenza è la stesura di recensioni e commenti a libri immaginari. In
questo modo tenta di esplorare gli spazi vitali dell’architettura, di
costruire una ragnatela che unisce e confonde autori reali, per mettere in
evidenza la profonda identità del mondo letterario. Alla fine afferma che,
ormai, tutta l’architettura è stata scritta e che oggi si può solo
arricchirla di qualche postilla. Nel suo racconto, La Ricerca di Averroè,
afferma come sia inutile ogni volontà di invenzione individuale: La
letteratura si scrive a partire dalla Letteratura; un altro dei suoi temi fondamentali
è il riconoscere che il nostro rapporto col reale è fatalmente determinato
dalla cultura; nei suoi scritti appare spesso la
figura del labirinto. Esse sono deliberate costruzioni mentali: metafore
della cultura. Egli vaga cercando di interpretare la realtà attraverso la
cultura. È concepito come qualcosa di ineluttabile, unico modo possibile di
abitare il mondo e riconoscerlo.; secondo Borges qualsiasi luogo è
archeologico: scavando troviamo rovine e frammenti di quanti ci hanno
preceduto. Questi resti rappresentano la base su cui si fonda la cultura
ultrapersonale (essa ha valore perché non appartiene a nessuno). Dopo l’analisi, Aris arriva a
definire la concezione di Borges del Silenzio: Il Silenzio di Borges si
basa sula volontà di dissolvere la sua voce individuale nell’immenso
territorio anonimo della sua letteratura. Infine, l’autore afferma che ogni
volta che l’arte ritorna ad essere autoreferente e non si sottomette
all’istinto della pura emotività, arriva l’accusa di intellettualismo. Tuttavia, se c’è qualcosa che caratterizza l’arte del ventesimo secolo è la necessità di essere riconoscibile dallo spettatore, di farlo partecipare con la sua intelligenza al proprio gioco. |
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Capitolo 2 – La tradizione moderna |
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L’autore comincia a
descrivere le particolarità dell’arte moderna. Egli pensa che la tendenza
a identificare l’arte moderna con le avanguardie dei primi decenni del
ventesimo secolo ha originato confusioni. Le avanguardie costituiscono il
momento di fondazione di un ciclo culturale che, dopo la sua fine, continua
in altro modo la propria esperienza. Quando essa
raggiunge il suo obiettivo, viene sostituita da altre forze, capaci di
consolidare il risultato. Queste, dopo essersi
contrapposte ai rigidi schemi accademici, passano la staffetta ad altre posizioni
che, con un nuovo linguaggio, stabiliscono le basi della tradizione moderna. Essa non può
continuare in eterno, non può prolungare indefinitamente lo stato di
eccitazione innovatrice che impone a se stessa. Ha la capacità di instaurare
una tradizione, non una moda. Un gruppo di artisti
del tempo – Mies, Borges, Eliot – capiscono che
l’atteggiamento estetico dell’avanguardia comincia a perdere valore.
L’innovazione e le ricerche del nuovo
non rappresentano un passo avanti nella conoscenza. Rifiutano il parossismo
del nuovo, si concentrano sul compito di costruire un’arte senza tempo a
partire dai risultati raggiunti dal moderno verso gli strumenti dell’arte
moderna per ritornare a confrontarsi con i grandi temi di sempre, quei
concetti che possiedono validità universale. La novità
dell’avanguardia si azzittisce lasciando posto all’arte più stemperata . Qui, l’autore
afferma, proviene il concetto moderno di tradizione. È possibile contemplare,
sincronicamente, l’insieme dell’eredità artistica di tutta l’umanità. Così
alcuni artisti del ventesimo secolo vincolano il loro lavoro ai predecessori. In questo modo
l’arte moderna appare come un territorio intensamente in contatto con l’arte
del passato non ottocentesca, cui si oppone. È l’arte legata alle antiche
tradizioni che hanno vicinanza con i moderni. In un suo saggio
Milan Kundera espone una tesi sulla storia della musica e del romanzo
europeo. Afferma che entrambe le discipline si sarebbero sviluppate secondo
tempi simili, ovvero in due metà di tempo spezzate da una cesura profonda.
Questa cesura avviene nella musica durante la seconda metà del
diciassettesimo secolo (Bach) e gli inizi del classicismo viennese. Nel romanzo avviene
tra Laclos e Sterne sull’estremo della prima metà eScott e Balzac sull’altra sponda. Kundera afferma che
noi siamo stati educati secondo l’estetica del secondo tempo. Attribuisce a questo
le difficoltà che abbiamo nell’avvicinarci alle manifestazioni più insigni
dell’arte moderna, proprio perché quest’ultima cerca di rifarsi alle arti del
primo tempo. Kundera aggiunge che
una riabilitazione dei principi del primo tempo non equivale ad una
riesumazione di questi, ma ad una loro ridefinizione. |
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Capitolo 3 – Mies Van der Rohe : la chiarezza come
obiettivo |
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Il pensiero di Mies
interpreta l’idea dell’astrazione architettonica. Le sue creazioni sono
spoglie di tutti quegli ingredienti figurativi che caratterizzano l’architettura
tradizionale. Esse sono caratterizzati da pochi
materiali o elementi costruttivi connessi da una serie di dispositivi visivi.
Nonostante il suo linguaggio sia molto lontano dalla tradizione, rimane uno
degli architetti contemporanei più strettamente legato all’antichità. La sua vicinanza all’antichità si
basa su un gran potere di astrazione, capace di spogliare l’architettura dai
suoi aspetti particolari, esaltandole come pura costruzione formale. Grazie a questo procedimento
astratto può dialogare con le opere antiche e di mostrarne la loro attualità.
Lui osserva la realtà e ne estrae i materiali della sua architettura. Gli
ultimi risultati dell’industrializzazione rappresentano una parte
fondamentale. Mies non si oppone. Prende questi
elementi e li sottomette ad un processo di stilizzazione. Dopodiché
restituisce loro indipendenza, creando distanza e vuoto. Questa non è altro che l’operazione
di Mies: gli elementi possono essere neutri, ma
attraverso le loro relazioni possono rappresentare dei valori. In una sua conferenza afferma che
il tempo presente è una realtà che esiste come dato di fatto; è decisivo il
modo in cui ci si fa valere. Mies, dichiarando che la forma non è
l’obiettivo ma soltanto il risultato dell’architettura, ci avverte che
l’ansia di giungere alla bellezza spesso ci fa allontanare. Nonostante aspiri alla bellezza, si
affida spesso a tecniche costruttive ingegneristiche. Esse gli permettono di
avvicinarsi in maniera elusiva ad essa. Molto spesso il concetto di
semplicità è stato associato alla sua architettura: essa non è la verità. Le
sue opere, ben lungi da esaurirsi con il passare del tempo, acquistano sempre
più fascino. Non si può parlare di semplicità rispetto ad un’architettura che
continua ad essere di esempio nel tempo. Difatti, occorre fare distinzione
tra semplice ed elementare. Semplice: privo di ingredienti, di
composizione. Elementare: composizione di alcuni
elementi secondo regole elementari. Vi si oppongono i concetti di
complicato e complesso. Semplicità e complicazione sono due segni opposti,
nessuno dei due riesce a conferire all’oggetto valore estetico. Elementarità
e complessità, invece, costituiscono una coppia concettuale complementare. L’opera d’arte è sempre una
costruzione complessa, nella quale si riconoscono gli elementi che lo
formano. Analizzando le sue opere il primo
obiettivo è la chiarezza. Non c’è complicazione, solo complessità determinata
dalla composizione e dalla relazione degli elementi senza confusione,
mantenendo la propria identità durante il processo. Un punto forte del suo pensiero è
la sua concezione del mondo. Esso ci viene dato così com’è, bisogna
riconoscerlo dandogli forma stabile. Malgrado questa ricerca di
obiettività la sua architettura è una delle più liriche, anche se non c’è
contraddizione. Egli lavora con materiali obiettivi e, componendoli, li
trasforma in oggetti di contemplazione. Per divenire tali devono possedere la
proprietà della trasparenza. Lo sguardo dello spettatore deve attraversare
l’opera, portando l’attenzione oltre il limite fisico. Si oppone all’opacità,
l’impenetrabilità, all’eccesso di forme e alla retorica del significato, cioè
a tutto ciò che si oppone al raggiungimento della dimensione che costituisce
il primo requisito per la contemplazione. In questo modo la trasparenza si
avvicina alla forma del Silenzio. Anch’esso può essere trasparente, transitivo, permette
all’opera di proiettarsi verso altre dimensioni della realtà che non sono
esattamente in esse contenute. Il vero obiettivo di Mies è la trasparenza concettuale, quella condizione in
cui si intrecciano la chiarezza e il mistero. Davanti alle sue opere si prova
un senso di interruzione e sospensione del tempo. Capiamo in cosa consiste la sua
ricerca dell’essenziale. Un lavoro basato sulla omissione, sulla rinuncia,
guidato da un’economia spirituale che asserisce al necessità di superarsi da
ciò che non è necessario. Solo così si può sperare nell’apparizione del
trascendente. |
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Capitolo 4 – Eclissi del
trascendente |
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Aris continua il suo
discorso sulle avanguardie del Moderno. Afferma che possiamo trovare delle
analogie tra le avanguardie dell’inizio del secolo con lo scenario
metropolitano nel quale affondano le radici. L’ansia del nuovo trova una
relazione con il frenetico mondo della grande città. La struttura vitale
della metropoli esercita una profonda influenza sui procedimenti dell’arte
d’avanguardia. Afferma che lo
scintillio della metropoli ha subito un cambiamento. Non c’è più meraviglia,
ma offuscamento. I temi una volta fondamentali mostrano il lato opposto. Così, una volta che
il fragore delle metropoli ha smesso di essere stimolante, l’opera di coloro
i quali hanno cercato di tenere in vita i temi risulta fastidiosa. Alcuni
artisti dimenticano che è raro inventare un nuovo linguaggio. Nella storia è
successo in poche occasioni, coincidenti spesso con i momenti di fondazione
dei grandi cicli culturali. Il linguaggio rimane
invariato durante il ciclo, sottomesso comunque a varie declinazioni e
trasgressioni. Succede così nei primi decenni del ventesimo secolo. I
movimenti d’avanguardia scatenano un nuovo ciclo, forte del suo linguaggio,
che difficilmente può essere dato per esaurito. Dopo l’inaugurazione di esso,
la maggior parte dei protagonisti dell’avanguardia si portano ad un
approfondimento del linguaggio. Nonostante questi
concetti, sono molti gli ostinati che cercano l’innovazione. Essi cercano di
creare un nuovo linguaggio, ignoranti del fatto che sia un’impresa molto
difficile. Mies afferma: <L’architettura non si
inventa ogni Lunedì mattina>. Una divisione che si
può fare nel territorio dell’arte è la separazione tra coloro i quali
affrontano il problema del linguaggio e quelli che lo lasciano in sospeso,
ponendosi senza ansie o esasperazioni. I primi manifestano
la propria arte attraverso forme obbligatoriamente innovatrici, di forte
impatto. I secondi pensano
che contrapporsi al linguaggio significhi allontanarsi dagli obiettivi. Essi
cercando di usare l’arte in maniera tale che riveli aspetti della realtà che
riguardano tutti. Possiamo proporre
una strategia chiamata Eclissi del
Linguaggio. Consiste nell’applicare un velo che impedisca al linguaggio
di accecarci, impedendoci di vedere altre luci. In questo modo non può uscire
dai limiti. Tuttavia, anche se sottoposto a questo controllo, non si annulla
ne perde valori. Semplicemente il suo effetto arriva filtrato. La profondità
della percezione si accentua. In questo modo non ci cattura nella sua
ragnatela ma si fa transitivo: ci permette di vedere cosa c’è oltre se
stesso. |
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Capitolo 5 – Ozu o le
tracce dell’assente |
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Ozu era un regista giapponese il cui
lavoro fu presentato la prima volta in Europa a Berlino, durante il festival del
cinema. In quell’occasione impressionò i critici occidentali. Solo con gli
strumenti propri del mestiere era riuscito a costruire un’opera
cinematografica solida. Il suo cinema si impone come espressione intima e
riservata delle contraddizioni vissute della società giapponese nel processo
di cambiamento dell’ultimo secolo. Osserva e analizza le relazioni tra un
gruppo di persone e le registra. I suoi personaggi vengono mostrati per
quello che dicono e fanno. Sta allo spettatore assumere una posizione. Egli si serve di un
limitatissimo numero di temi ed elementi formali: storie e personaggi
ricorrenti: storie domestiche, incentrate sulla struttura tradizionale della
famiglia giapponese e sull’indicazione dei sintomi della sua progressiva
scomposizione; il suo stile è
austero. Gira con la telecamera fissa a settanta centimetri dal terreno,
molto più basso delle convenzioni cinematografiche precedenti. Non ci sono
dissolvenze, non ricorre al flashback. L’opera di Ozu è stata confrontata con il pittore Giorgio Morandi –
il quale passò la vita a lavorare con elementi semplici – e con Heinrich Tessenow – il quale condivideva l’interesse verso una
dimensione artigianale e lo stile lentoe scarno. Ciò che accomuna
davvero artisti del genere è la loro condizione solitaria e riservata, la
loro posizione al margine della moda e dalle correnti dominanti, la loro
ripetizione. Hanno uno sguardo perturbante e corrosivo. Ozu,
con la sua inattualità ha creato un
cinema terso, severo e trasparente. Valery afferma: <occorre maggiore
finezza per fare a meno di una parola che non per introdurla>. Nel suo cinema ci
sono particolari chiamati piani vuoti in cui appaiono visioni statiche di
oggetti inanimati o immagini di interni in cui appare il vuoto assoluto della
scena. Esse svolgono il ruolo di ricettacoli di sentimenti che il film ci
suscita. Attraverso essi Ozu crea tra lo spettatore e il racconto un vincolo, un
elemento neutro in apparenza, capace di provocare intimità e distanza. In questo modo si
evocano aspetti e situazioni che non si mostrano esplicitamente. Si rivelano
le tracce dell’assente. Un fatto curioso è che il suo cinema pretende di
essere immerso nella cronaca della quotidianità, di attenersi ai suoi aspetti
immanenti. Nelle sue pellicole
troviamo tantissime note storiche del Giappone. Possiamo quasi parlare di
neorealismo, anche se non è il suo vero obiettivo. Egli cerca di cogliere il
sottile movimento dei suoi personaggi, secondo il quale un mondo incerto
sorge dalle rovine di un mondo apparentemente solido. Fa un’invocazione
spirituale. Si è parlato spesso dell’influenza della cultura zen. I suoi piani vuoti sono visti come le pietre
disposte come figure nei giardini zen. Secondo questa visione il suo cinema
diventa di relazione. I piani vuoti sono,
prima di tutto, oggetti di contemplazione cui si allacciano in Silenzio molti
degli elementi impliciti del film. Come ha osservato Octavio Paz: <l’essere si dissolve in un qualcosa che
nessun linguaggio può definire, se non quello del Silenzio>. Afferma,
anche, che: <Noi uomini siamo fatti in maniera tale da vedere anche il
Silenzio come un linguaggio>. Molte delle sue più
importanti sequenze trascorrono in un denso Silenzio, carico di idee ed
emozioni che non vengono espresse
apertamente. Con il Silenzio si imprimono le tracce dell’assente. Qualche anno fa il
regista Wenders intraprese un viaggio in Giappone, con l’intenzione di girare
un filmato con cui prendere nota del cinema e della personalità di Ozu. Il risultato fu abbastanza magro, poiché non trovò
molto. In questo modo il
Silenzio acquista una nuova importanza: ci insegna che il compito degli
artisti consiste nel permetterci la contemplazione degli aspetti del mondo
che stanno scomparendo. Lo sforzo di Ozu consiste
nell’affermare l’istante fissandolo in immagini in cui si possa percepire il
trascorrere del tempo. Per fare questo vi è
bisogno di strumenti di precisione e di una tecnica libera da ogni velleità
personale. Il regista mantiene
il Silenzio per far parlare le cose. Vuole rimanere in incognito e sfumare la
sua presenza così che possiamo osservare con chiarezza e trasparenza. |
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Capitolo 6 – Le illusioni
dello Zeitgeist |
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L’idea secondo la
quale attraverso la storia possiamo arrivare ad acquisire una
comprensione scientifica della società
umana, trova la sua origine nell’illuminismo e si consolida durante il
diciannovesimo secolo. La storia diventa un oracolo: essa definisce gli
eventi e si pronuncia sulla direzione in cui avanza la storia. Questo
pensiero diventa teoria estetica di Hegel. Da qui
deriva l’importante notazione di Zeitgeist (spirito dell’epoca): l’opera
artistica è l’espressione e il riflesso della struttura generale della
propria epoca storica. Questo pensiero introduce
la concezione dell’esistenza di un protagonista collettivo che svolge il
ruolo di guida nel divenire dell’arte. A questo punto ci
poniamo delle domande: chi determina lo Zeitgeist? E per quale motivo bisogna
considerarlo come qualcosa di unico e monolitico, invece di ammettere la
coesistenza di più spiriti, forse anche eterogenei? Sono numerosi gli
artisti che, negli ultimi due secoli, hanno subito le critiche di coloro i
quali sponsorizzarono l’adesione al precetto di uno spirito dell’epoca definito
a priori. La loro poetica
veniva accusata reazionaria, perché non corrispondente alle esigenze
decantate. Un esempio è del
musicista Johannes Brahms. La sua musica è stata
considerata superata, non al passo coi contemporanei come Wagner, Listz e Bruckner. A differenza della loro musica, la quale si
identificava con la novità e il progresso. Brahms
era considerato un guardiano delle vecchie tradizioni musicali. In realtà la sua
musica si connetteva a periodi molto più lontani, comprendendo brani di antichi
compositori olandesi, la musica medievale e molte altre. Dovettero passare
alcuni decenni perché si potesse cogliere pienamente il significato della sua
musica. Si comprese che il proposito di allacciarsi agli antichi racchiudeva
una profonda intuizione. Che avrebbe spianato la strada alle ricerche del
ventesimo secolo , tese al superamento del periodo post-romantico. Egli non si lasciò
mai influenzare da coloro i quali lo consideravano reazionario. Verso la fine
dei suoi anni, mentre i suoi contemporanei si sforzano in sperimentazioni che
sfiorano la disintegrazione formale, lavora ad un’architettura musicale
sempre più consistente, precisa e trasparente. Nelle sue opere
(Quintetto in Si Minore, Opus 115), con impressionante sobrietà, porta in
alto l’arte della variazione grazie ad una costruzione che si chiude
circolarmente sul tema iniziale. La forte emozione
filtra attraverso l’essenzialità dei motivi e la solida articolazione della
forma. La musica dei suoi contemporanei risulta ancorata allo spirito
dell’epoca. La musica di Brahms sembra, invece,
fluttuare nella stanza, dialogando con il passato e con il futuro. Ci sono artisti che
diventano sudditi dello Zeitgeist che coltivano e aiutano a modellare. Altri
invece interpretano la loro epoca e la trascendono. In ogni caso, nessuno dei
due atteggiamenti è disprezzabile. Ognuno di essi, a modo loro, forniscono la
chiave di lettura della loro epoca. |
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Capitolo 7 – Rothko e
il carattere sacro dell’arte |
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L’autore si appresta
a descrivere la figura di Mark Rothko. Afferma che
siamo soliti identificare la sua pittura con i quadri astratti che ha
realizzato dal ’49 in poi e che corrispondono alla sua maturità artistica.
Sono quadri di grande formato, immersi in campiture cromatiche che creano un
effetto di infinito in cui fluttuano forme vagamente rettangolari, oblunghe,
ai limiti della tela. Dobbiamo però
ricordare che arriva all’astrazione dopo un lungo e ragionato percorso. Le pitture Untitled, che vanno dal ’46 al ’49, catalogate con i nomi
dei colori che le compongono, trasmettono un forte senso di oggettività. Rothko è preoccupato dal sospetto che la
sua pittura potesse apparire un esercizio decorativo, un divertimento. Non si
stancò mai di avvertire che la sua opera rifletteva contenuti che alludevano
al mondo della mitologia e alle tragedie. Insisteva a
sottolineare la dimensione trascendente delle sue opere. La gamma cromatica
utilizzata assume diversi ruoli. Colori crudi e vibranti, altre volte spenti
e lugubri. Sfugge le combinazioni graduali, ne cerca di aspre e ruvide. Il
colore è uno strumento per commuovere la coscienza dello spettatore. Rothko si impone una rigorosa
autolimitazione dei propri mezzi espressivi, non si vuole permettere il
minimo grado di spettacolarità. Per questo motivo, forse, era preoccupato che
il Silenzio che avvolgeva le sue opere potesse risultare opaco, chiuso in se
stesso. Il pittore
concepisce la sua arte come un’arte delle idee, sperando che esse giungano in
modo nitido allo spettatore. Spesso il tema
attribuito alle sue idee era religioso, nonostante si sia sempre definito un
materialista. Un pittore, contemplando le sue opere, osserva che pur non
essendo religiose sono l’opposto del profano. Esser furono considerate sacre. Uno dei nodi della questione
è determinato dal ruolo del mito. Esso, nonostante sia un tema arcaico e
primordiale, nella sua costante riattualizzazione
esprime l’idea della continuità e della ciclicità. Per Mircia
Eliade i miti sono espressione un tempo circolare, eterno ritorno che
interrompe la linearità del tempo cronologico e costituiscono una
manifestazione del sacro. Allo stesso modo
lavora la volontà di Rothko di non limitare la sua
pittura alla stretta superficie della tela, ma di produrre una spiritualità
in cui lo spettatore si vede immerso. Rothko dipingeva su tele di formato molto
grande per raggiungere l’intimità che il piccolo formato non gli permetteva
di ottenere. Lo spettatore deve avere la possibilità di tuffarsi nel quadro,
di sentirsi parte di esso, implicato. L’artista pensa che
ai nostri giorni sia compito dell’arte di definire le basi di quella
comprensione rituale della realtà che è attribuita ai comportamenti
religiosi. L’opera d’arte acquista valore sacramentale. Il suo lavoro si
avvicina ad un campo mistico. Anche se dimostra che la volontà di
trascendenza che un’opera d’arte può contenere proviene dalla manipolazione
di elementi di esperienza umana. Per Rothko non è qualcosa di inanimato, inalterato nel tempo,
bensì una sorta di essere vivente che si mostra e si manifesta nell’incontro
con altri esseri. Afferma che: <il
dipinto non può vivere isolato. Ha bisogno dello sguardo di un osservatore
sensibile>. L’esplorazione del
concetto pittorico del Colorfield avvicina le opere
di Rothko a quelle di altri pittori suoi coetanei,
come Still e Newmen. Questi ultimi, però,
presentano le loro campiture come frammenti di un universo. Rothko, invece, vuole che le sue opere vengano percepite
come un tutto, in modo che lo sguardo di un osservatore tende a fissarsi
nell’opera, in un attitudine contemplativa. Negli ultimi anni la
sua pittura si carica di tensione e, a volte, provoca espliciti pensieri
sulla morte. Nel ’63 comincia a
dipingere tele grigi e marroni. Tele severe e malinconiche. Queste ultime
sembrano rappresentare il carattere effimero della condizione umana. |
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Capitolo 8 – Linguaggio e
Silenzio |
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L’autore pone alla nostra
attenzione due saggi, scritti da Steiner negli anni ’60: La fuga dalla Parola (’61) e Il
Silenzio e il Poeta (’65). In questi saggi, Steiner affronta un indagine
precorritrice sul linguaggio che lo condurrà ad esplorarne i limiti. Egli
indaga le diverse eccezioni che il termine Silenzio può acquisire in
relazione con il linguaggio, mostrando quanto queste possano essere
divergenti. Una di queste è il Silenzio inteso come rinuncia, quasi
autoimmolazione. <La parola non confina più con il fulgore, ma con la
notte>. Due poeti moderni, Holderlin e Rimberd, pensano
che la Scelta del Silenzio è più forte della poesia. Questo concetto è
per Steiner un fenomeno storicamente recente, i cui sintomi hanno coinvolto
un numero crescente di persone man mano che avanza il secolo. Steiner elenca le
possibili cause: dissoluzione dei valori della società borghese, prepotenza
aggressiva del progresso tecnologico, disumanità delle vicissitudini
politiche. Egli propone un riassunto: <Il Silenzio è un alternativa […]
Niente parla più forte della poesia non scritta>. Quando la corruzione
raggiunge persino il linguaggio, per il poeta la tentazione del Silenzio è
sempre più forte. Un’altra accezione
si riferisce alla comparsa di ambiti sempre più estesi della realtà che non
si fondano sul linguaggio verbale. Soprattutto quelli derivati dalle
matematiche. Man mano che essa guadagna terreno, le formule di comprensione
della realtà si allontanano dal linguaggio comune. È il fenomeno chiamato delle due culture. Il divario tra il
linguaggio delle parole e quello matematico si fa sempre più ampio. Ai due
margini ci sono uomini che reciprocamente, si considerano ignoranti. Steiner constata che
la parte del mondo che può essere descritta attraverso la parola si riduce, e
osserva che aumenta la difficoltà ogni volta che il linguaggio incentra per
esprimere qualcosa di significativo sugli oggetti artistici. Il Silenzio, in
questa prospettiva, è come un velo di nebbia che minaccia di invadere il
mondo della cultura, rendendolo impraticabile. Le prime accezioni
del Silenzio analizzate hanno una marcata componente negativa: o costituisce
una rinuncia che nasce come rifiuto davanti alle atrocità commesse dell’uomo
oppure implica il riconoscimento della disfatta del mondo delle parole. Ammette però una
terza accezione. Il Silenzio viene visto come una categoria che possiede
specifiche proprietà, come un principio poetico. Con una profonda
intuizione lo colloca nella metafisica. Nel buddismo e nel Taoismo l’anima è
concepita come qualcosa che si eleva verso un Silenzio sempre più profondo.
Il livello più puro dell’atto contemplativo è quello che ha appreso a
lasciarsi il linguaggio alle spalle. Questa trascendenza
del linguaggio verso il Silenzio è
presente anche nella tradizione occidentale. Da questa
prospettiva il linguaggio può essere considerato come la soglia del Silenzio,
si può riconoscere l’origine comune del linguaggio nel mistico e nel poeta. Ambedue si muovono
su un terreno di frontiera, sulla soglia di un mondo che conosciamo e di uno
che ci è vietato. La differenza tra le due figure è che il mistico cerca di
portarsi nel mondo soprannaturale, l’artista cerca di mettere in relazione le
due dimensioni. |
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Capitolo 9 – Oteiza e
la costruzione del vuoto |
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Jorge Oteiza è il quinto artista scelto da Arìs
per il suo discorso sul Silenzio. Nato a Orio, concluse la sua carriera
artistica quando aveva 50 ani. In questo modo entra nel gruppo di artisti che
conclusero la loro opera con il Silenzio. Il suo lavoro si
basa su quello che lui stesso ha definito un proposito sperimentale. Egli cercò sempre
affannosamente il Silenzio attraverso la sua opera e, una volta raggiunto,
considerò conclusa la sua ricerca scultorea. Negli anni 50
diresse la sua ricerca principalmente in tre direzioni: svuotamento del
cilindro, del cubo e della sfera. Il suo lavoro consiste in un processo di
sottrazione, di disoccupazione spaziale, cui corrisponde la creazione del
vuoto attivo, fonte di energia fisica e spirituale. L’obiettivo è la
conquista di un spazio evacuato in cui resti impresso il processo di lavoro. Questo vuoto è
carico di mistero, di domande, lo spettatore si pone davanti con
atteggiamento d’attesa. Il Silenzio è assorbente e accogliente. Non è
esagerato affermare che Oteiza e Barragàn – il
quale crea architetture vicine alla scultura – anticipino molte delle
realizzazioni della scuola minimalista e, in certe misure, lo superino. Adesso è necessaria
una digressione per rendere un tributo che nessuna riflessione sulla poetica del
Silenzio può eludere: il pezzo musicale di John Cage, 4 minuti e 33 secondi. Il titolo dell’opera allude al tempo
durante il quale l’interprete deve rimanere immobile davanti al suo
strumento, lasciando che il pubblico crei l’universo sonoro che la partitura
in bianco rinuncia a definire. Josep Quetglas ci avverte, tuttavia, che ci possono essere due
risposte alla sua opera. La prima è interpretarla come una provocazione verso
il pubblico. La seconda, interpretarla come passività. In realtà Cage
voleva dimostrare che il Silenzio non esiste, perché si sta sempre ascoltando
qualcos’altro, per impercettibile che sembri. Se però accettiamo
che non ci sia ne passività ne volontà di provocazione dobbiamo riconoscere
la banalità del pezzo. Il Silenzio non può mai essere completo, così come non
esiste il vuoto allo stato puro. In realtà, il Silenzio di Oteiza è lontanissimo dal mutismo dei minimalisti.
<L’autore non vuole dire, e la sua opera è conclusa, chiusa>. Come osserva Quetglas, invece, <l’opera minimalista […] è conosciuta per quello che
occlude e ostruisce>. Essa impedisce allo spettatore qualsiasi tentativo
di dare valore all’opera. La scultura di Oteiza, al contrario, crea uno spazio concavo, recettivo,
che permette allo spettatore di stabilire un dialogo. I processi con cui
lavora sono palesi, lasciano una traccia che diventa l’ingrediente forte
dell’opera. Si parla di vuoto come
costruzione. L’universalità del
suo pensiero si esplicita con la chiarezza delle conclusioni del suo saggio Quousque Tandem…! : <L’arte consiste in un
processo che integra e ricolloca l’uomo e la sua realtà. Si inizia con un
niente e si finisce con un Niente che è Tutto, risposta limite e soluzione
spirituale dell’esistenza […]. L’arte contemporanea sta entrando in una disciplina
di silenzi e illuminazioni, per sfociare in un nuovo vuoto>. Come artista è
ancora sconosciuto, anche se la sua capacità riflessiva non è inferiore al
suo immenso istinto poetico. In lui confluiscono molti dei fili tracciati nei
discorsi dei capitoli precedenti. |
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Capitolo 10 – Il rumore, il silenzio e la parola |
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Oggi sappiamo che ci sono molte forme
per interpretare il presente. Per questo motivo ci risulta difficile pensare
che ad un’epoca corrisponda un solo modo di concepire l’arte, che esiste un
solo spirito del tempo capace di dettare univocamente il linguaggio artistico
che lo rappresenta. Malgrado ciò, continua a gravitare
intorno a noi il peso di uno Zeitgeist determinista che sembra costringerci a
concedergli quello che, in teoria, i tempi reclamano. Le regole di un codice non scritto
impongono all’artista di rendere conto dell’attualità del momento che verrà
giudicato dalla sua capacità di accentuare questi aspetti. Bisogna quindi
distinguere chi pratica l’idolatria dell’attuale da coloro i quali
concepiscono il tentativo di sintonizzarsi con la realtà come una ricerca che
non garantisce in anticipo il valore dei risultati. La prospettiva dichi fa, di chi è
implicato nell’azione a volte non coincide con l’osservatore. Questa è
l’origine di alcuni giudizi aprioristici in cui incorre la critica quando
squalifica opere che dovrebbero essere giudicate con altri parametri. Per fortuna ci sono anche opere che
attendono con pazienza il momento di essere capite e accettate. E quando
questo succede, l’epoca cui appartengono non può più essere osservata. Viviamo in un’epoca assediata dal
rumore, sottomessi ad un forsennato ritmo. Da questo nasce una cultura sempre
più ossessionata dal dover registrare le palpitazioni del presente. Una
cultura mediatrice, immersa nel rumore delle informazioni e dei fatti. Il
rumore del mondo è oppressivo e assordante. L’unico in grado di opporsi è il
Silenzio. Esso apre una profonda breccia nello scenario convulso della nostra
vita quotidiana, genera uno spazio vuoto che ci distoglie dal vortice
dell’attualità. Paradossalmente, l’invocazione al
Silenzio è una rivendicazione della parola. Esso, infatti, si oppone al
rumore, suo acerrimo nemico. Come ha osservato Josè Valente,
esiste una intima relazione tra il Silenzio e la parola poetica. Quando
un’pera ha la proprietà di generare intorno a se uno spazio di Silenzio, promuove
uno sguardo diverso sulla realtà, grazie al quale il mondo si offre sotto il
segno della contemplazione. Attraverso questo Silenzio si
riescono a cogliere le dimensioni occulte del reale. Pretende di trascendere
il linguaggio. In una certa misura viene dopo la parola. Sorge quando questa,
una volta pronunciata, ha perso il suo senso immediato. |
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PARTE SECONDA |
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Capitolo 1 – Astrazione in
architettura: una definizione |
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È sempre più frequente trovare il termine
astrazione riferito ad opere, artisti o tendenze architettoniche.
Ciononostante non esiste accordo sul suo significato. Difatti è un’ingenuità
pensare che sia sufficiente che due interlocutori pronuncino la stessa parola
perché tra loro ci sia intesa sul significato. Affinchè ciò succeda, bisogna definire con
precisione i concetti con cui si ha a che fare, cominciando con la
consultazione dei dizionari. La definizione coincide con l’operazione
intellettuale attraverso cui si separa, mentalmente, ciò che nella realtà
risulta inseparabile. Da un punto di vista filosofico,
l’astrazione è un procedimento conoscitivo che tende a separare gli aspetti
accidentali o contingenti da quelli essenziali o necessari. In questo senso è
possibile astrarre un concetto universale a partire da situazioni diverse od
oggetti particolari. Astrarre equivale a tirar fuori qualcosa dalla totalità
cui è unita. Nel linguaggio comune essere astratto significa aver la capacità
di separarsi dagli oggetti e restare assorti nella meditazione o nella
contemplazione; nell’accezione negativa allontanarsi dalla realtà, perdere di
vista la dimensione tangibile delle cose. In ambito filosofico il termine
astrazione ha un carattere relativamente atemporale. Al contrario, in ambito
artistico, risulta ristretto ad un periodo storico determinato che si
identifica con il ciclo della modernità. A partire dalla sua fase di
fondazione, la pittura astratta rinuncia alla pretesa di imitare la natura.
Essa supera l’illusione che il quadro possa essere una finestra da cui
contemplare una scena che tenta di sostituirsi alla realtà. Essa concentra la
nostra attenzione sulla composizione di forme e valori si di un piano. Spogliando la tela di qualsiasi
allusione rappresentativa, tentativo di evocazione o imitazione della realtà,
si evitò che la dimensione aneddotica della pittura acquista un ruolo più
importante di quello corrispettivo. In qualsiasi disciplina artistica
si tenderà a considerare astratte quelle opere che partecipano ala ricerca
dell’essenziale e della rinuncia del particolare e del contingente. Al lavoro di stabilire in cosa
consiste l’essenza dell’architettura, può contribuire l’analisi di alcune
espressioni del linguaggio comune. L’architettura sarà tanto più astratta
quanto più appare svincolata da tutte le questioni contingenti che la
circondano (fine pratico, mezzi costruttivi, significati sociali e politici,
ecc.). Tali questioni finiscono per essere irrilevanti quando si tratta di
formulare un giudizio di valore sulle qualità artistiche di un’opera. Presentiamo due esempi: la casa Farnsworth è astratta perché nella sua forma non solo non
sono espressi i tratti dell’autore ma anche perché un qualsiasi osservatore
può avere il dubbio di trovarsi di fronte ad una residenza privata o ad un
piccolo tempio; la Casa del Fascio di Como è un’architettura astratta perché
la sua forma si basa su pure regole geometriche dove non si ritrova nessuno
dei significati che ha assunto. L’edificio potrebbe avere qualsiasi funzione. L’opera astratta acquista un suo
profilo, si distanzia dal mondo. Le relazioni in essa diventano importanti.
Infatti l significato ultimo dell’opera risiede nella forma di queste
relazioni, aldilà del valore specifico dei singoli elementi. È possibile in architettura la
distinzione tra astratto e figurativo? La distinzione è dettata
dall’etimologia della parola forma in ambito architettonico: dal greco Eidos o dal tedesco Gestalt. Nel primo caso la forma si
indentifica con l’essenza interna costitutiva di un oggetto, alludendo alla
disposizione e all’ordine generale delle sue parti, identificando la forma
con il concetto moderno di struttura. Nel secondo caso la forma si riferisce
a ciò che appare dell’oggetto, fino a diventare sinonimo di figura. La prima
rimanda all’astrazione, la seconda al figurativo. Il procedimento astratto porta il
fare architettonico ad una dimensione sintattica, dando priorità ai principi
di composizione. L’elaborazione figurativa si muove in una prospettiva
semantica, che riconosce primaria importanza alla questione del carattere. Il procedimento astratto tende
all’universalità. Se utilizzato in modo banale o riduttivo rischia di
produrre opere sdradicate dal contesto. L’elaborazione figurativa stimola
il coinvolgimento sentimentale nell’pera e l’esaltazione dei suoi aspetti
particolari. I suoi difetti sono l’uso della forma come una finzione, e la
tendenza all’eccesso di intenzioni. Ciò che è realmente difficile, in ambito
figurativo, è definire il carattere dell’edificio senza ricorrere a
convenzioni. Nel campo dell’astrazione è altrettanto difficile restare
all’interno dell’essenziale senza incorrere in semplificazioni. L’architettura astratta è qualcosa
di concreto e tangibile, ma è anche frutto di un procedimento di astrazione. |
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Capitolo 2 – Interno Vuoto |
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Per Meyer
la capacità di valorizzare le poche risorse disponibili è stata uno dei
principali presupposti del suo lavoro di architetto, responsabile del
risultato artistico ed economico. In questo senso, l’austerità della
sua architettura non è più una scelta, ma un’esigenza che obbliga a
concentrarsi sull’essenziale. Così è nei luoghi delle relazioni
sociali e nell’ambito delle propria intimità. Questo è il senso del celebre
interno Co-op che Meyer ha messo in scena nel ’26.
Nel suo lavoro l’impulso etico che vede la rinuncia a tutto ciò che non è
strettamente necessario coincide perfettamente con il sentimento estetico che
concepisce la ricerca dell’essenziale come la fonte principale di raffinatezza
e bellezza. Il meno è più perché ogni
sottrazione contiene la promessa di una maggiore ricchezza spirituale. L’autore si ritrova davanti un
articolo di giornale intitolato: Ritratto
del Mondo. In questo articolo vengono fotografate alcune famiglie con
tutti i loro mobili e utensili. Una famiglia indiana viene fotografata con in
mobilio povero. L’autore si chiede se questa povertà può essere una forma di
minimalismo. Non si trova d’accordo, poiché pensa che affinché il meno sia
più, e necessario partire da un certo livello di generosità ed abbondanza.
Solo così è possibile realizzare coscientemente la rinuncia. Qualsiasi rinuncia viene compiuta
per ottenere qualcosa. Nel caso di Meyer il segno meno costituisce una scommessa
per una vita più libera, solidale, intensa. |
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Capitolo 3 – Eladio Dieste e la chiesa di Durazno |
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La chiesa costituisce un episodio
eccezionale nell’opera di Dieste. Non troviamo ne
volte ne pareti curve, solo grandi superfici piane di mattoni che, piegandosi
e riflettendo la luce con intensità diverse, modellano lo spazio interno. La luce penetra all’interno da due
grandi finestre disposte sull’asse longitudinale dell’edificio (rosone e
claristorio) e due sottili fessure orizzontali che costituiscono il coronamento
delle pareti della navata centrale e illuminano l’intradosso della copertura.
Grazie a queste linee di luce il piano del tutto sembra staccarsi dalle
pareti, in modo tale da sembrare una massa senza peso, sospesa. La luce, nonostante la sua
inattualità, si converte in architettura. La addomestica con una maestria
totale e le attribuisce il compito di esprimere il senso trascendente
contenuto nella costruzione. La graduazione della luce modella e
articola lo spazio, imprimendogli dinamismo e profondità. Nelle navate
laterali, basse e profonde, regna una penombra intensa; la navata centrale
possiede una luce tenue e sfumata che esalta la tettonica di pareti e
soffitti; infine un pezzo di luce incastrato nella sagoma della navata
centrale attribuisce allo spazio una dimensione sacra. L’edificio presenta sulla piazza
una facciata tradizionalmente storicista, recuperata da un’antica chiesa,
distrutta da un incendio nel 1967. L’intervento di Dieste
si occupa principalmente dello spazio interno. Mantiene la facciata e la
campata del portico d’ingresso. Si è imposto di riprendere la pianta
basilicale originale vuotando lo spazio interno di tutti quegli elementi
strutturali che potessero ostacolarne una visione totale e unitaria. Dieste descrive la chiesa come un sistema
semplice, formato da tre fogli piegati: due sono le pareti unite al soffitto
delle navate laterali, l’ultimo il tetto a falde della navata centrale. C’è uno schema strutturale chiaro,
la tecnica costruttiva utilizzata è mista. Per esempio, usa delle travi di
cemento armato per il tetto delle navate laterali, dei pilastrini metallici,
invece, su cui si appoggia la sospesa
lastra della copertura. Dieste cerca di ottenere la monumentalità
senza ricorrere a grandi dimensioni. Per ottenere questo, cerca di spogliare
la forma architettonica di ogni elemento non necessario. Austerità diventa
una scelta estetica ed etica. Dieste concepisce a Durazno, un artefatto
che è in condizione di evocare la dimensione temporale e di provocare
un’alterazione nella sensazione dello spazio. Il tempo mette in scena una
frattura nell’omogeneità del tempo profano e allude al mito del tempo sospeso
o dell’eterno presente. E in queste capacità
dell’architettura di ridefinire il senso del tempo, trova una forte analogia
con la musica. <L’architettura è la musica
dello spazio>. |
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Capitolo 4 – il fondo di
ghiaia |
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Ciò che rende stimolante e ricca la
lettura di questo libro è il fatto di parlare di una sostanza tanto
immateriale quanto il vuoto. Esso è ciò che, paradossalmente, da visibilità
alle cose. È la distanza tra gli elementi del reale, l’ambito in cui si
definiscono le loro relazioni. Questo pensiero non riscuote molto successo
tra gli architetti, i quali hanno paura del vuoto, di ciò che resta aperto,
incompleto. Tutto deve essere riempito, non ci
sono aperture per il Silenzio. Creano uno spazio opprimente e travolgente. E
se entrano nell’ambito del privato, troviamo lo stesso pensiero. Tutto lo
spazio è pieno di cose, non c’è lo spazio per l’indeterminato e l’imprevisto. Quello che apprezziamo della
cultura domestica giapponese è l’immagine della casa vuota e disponibile,
frutto della declinazione di un solo concetto: il ma, equivalente al modulo, alla distanza tra elementi attigui. Questo riferimento culturale appare
spesso nel libro. L’autore di questo capitolo apprezza, alla stessa maniera
di Aris, la passione per l’ideale di bellezza della casa giapponese e la sua
preferenza per i registi nipponici, principalmente Ozu. Afferma che i vuoti presenti nel
cinema di Ozu sono tra gli stilemi più inquietanti
e politicamente stimolanti che il cinema abbia mai inventato. Il loro ruolo
nel flusso dei film è stato attribuito a quello delle pietre che si staccano
dal fondo di ghiaia dei giardini zen. Questo è il compito principale che
compete al vuoto: mantenere la separazione tra gli elementi mettendo in
evidenza il campo delle relazioni. Così procede, in linea di massima,
tutta ‘arte moderna di matrice astratta. Ricordando Dieste:
<L’architettura è la musica dello spazio>. Essa, secondo lui, sarebbe
un ritmo, una modellazione che ci permette di distinguere l’ordine dello
spazio. Analogamente, inventando i termini,
<la musica è l’architettura del tempo>. In questo senso, la musica può
attribuire estensione e consistenza corporea al tempo. Per esistere, in ogni caso, musica
e architettura devono stagliarsi dal fondo del Silenzio e del vuoto. |
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Capitolo 5 – Granai della
memoria |
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Da sempre l’uomo lascia traccia
della sua presenza sulla terra agendo sulla natura .L’ambiente si riempie di
artefatti che finiscono per appartenere al paesaggio come sua ulteriore
componente. Questo dialogo tra uomo e natura
(paesaggio antropizzato) in pochi luoghi del pianeta si manifesta come in
Galizia. Il diffondersi degli insediamenti umani non è equivalente ad una
profanazione della natura, bensì a un’esaltazione della sua sacralità. La Galizia atlantica ,dove abbondano
marine, estuari, viticolture(elementi geografici che si fondono tra loro) ci
sorprende con episodi di dimensioni eroiche. Nonostante non sembrerebbe
necessaria la presenza del vano, ne constatiamo comunque l’intervento, come
nella costa di Fisterra, detta della morte. La cultura popolare contadina
offre, in Galizia, numerose tracce di come l’intervento individuale sul
territorio possa esprimere il senso della collettività. La laboriosità anonima di molti ha
forgiato la forma dei villaggi e dei campi. Uno degli elementi del mondo rurale
della Galizia è l’Horreo (magazzino del grano), il
quale non identifica solo la casa o le proprietà. Svolge il ruolo di
complesso simbolico perché è in grado di stabilire una mediazione tra i
problemi della sopravvivenza e ciò che rimanda ad una concezione sacra del
mondo. Forse per questo la sua forma
rimanda a quella di un sarcofago. Nonostante la funzionalità (conservazione
degli elementi), finisce per evocare l’idea della trascendenza e della morte. |
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Capitolo 6 – Arne Jacobsen: elogio della prosa |
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L’autore ci vuole parlare dei
sentimenti che prova riguardo al lavoro dell’architetto danese. Dal suo punto
di vista c’è nella tecnica di Jacobsen qualcosa che
trascende il pragmatismo positivista, la luce che bagna i suoi spazi e un
invito a penetrare in un mondo raffinato ed austero, un mondo senza meandri e
rifugi ma non privo di intimità e radicamento. Le sue opere non vogliono
impressionare, si dispongono sul terreno con naturalità, seguendo forme geometriche
elementari. Sembrano concepite senza sforzo, le
tracce del lavoro sembrano cancellate. C’è leggerezza, mancanza di
drammaticità. Uno dei suoi coetanei, Louis Kahn, ci permette una comparazione
tra i due. Difatti, nonostante i punti in comune (importanza per la
struttura, luce che definisce lo spazio architettonico), il clima generale
delle loro opere è differente. Per Kahn l’architettura si
identifica con il monumento, con la memoria e con la durata materiale delle
istituzioni che simboleggiano la cultura umana. Per Jacobsen
l’origine di ogni architettura è la casa: nel suo lavoro, la dimensione
sociale è solo un’astensione dell’universo domestico. In Kahn c’è un istinto di
trascendenza tradotto nella solennità delle sue opere. Jacobsen
orienta la sua ricerca sulla costruzione di scenari di vita quotidiana con
strumenti formali. Kahn rappresenta la poesia, Jacobsen
la prosa. Mettendo a confronto il regista Dreyer con lui, vediamo come i suoi interni sono sicuri
solo in apparenza. Gli spazi sicuri di Jacobsen,
qui, si trasformano in densità e in cerimonia, minati da forze distruttrici.
Come con Kahn, c’è una contrapposizione di pensiero. Dreyer
rappresenta la trascendenza, gravità e introversione. Jacobsen
tende ad incarnare immanenza e leggerezza. Ciò non vuol dire che il suo
lavoro sia poco serio, ma che cerca solamente il lato apollineo ed
equilibrato della realtà. Come terzo elemento di confronto prende il regista Hawks. Egli si considerava un artigiano, non un’artista.
Il suo lavoro si basava sulla raffinata conoscenza del proprio mestiere. Jacobsen e Hawks
sono simili da questo punto di vista. Alcuni tratti del cinema del regista
sono in comune tra i due: dinamismo, freschezza, facilità, evidenza. Non c’è
eccesso retorico. La grande stima per Jacobsen
consiste nella rivendicazione d una dimensione artistica che significhi
intelligenza e abilità: un’arte basata sulle regole del mestiere. |