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Descrizione: 1

autore

CARLOS MARTÌ ARÌS

titolo

SILENZI ELOQUENTI

editore

CHRISTIAN MARINOTTI EDIZIONI S.R.L.

luogo

MILANO

anno

2002

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

Titolo originale: Silencios elocuentes

 

 

 

Descrizione: 1

Argomento e tematiche affrontate

Carlos Martì Arìs introduce con questo libro un concetto molto importante nel panorama della cultura e dell’arte: la figura del Silenzio.

Afferma come, nell’arte contemporanea, è abituale la sua invocazione. Esso viene visto secondo vari aspetti:

come atto di resa o d’abbandono espresso in forma ironica;

come il luogo in cui nasce l’arte quando va oltre il linguaggio.

Egli porta alla nostra attenzione la presenza di un importante gruppo radicato di artisti, durante la fine del ventesimo secolo.

Questo gruppo ha coltivato l’importanza della poetica del Silenzio, in quanto sono stati capaci di interpretare la realtà della nostra epoca.

Di questo gruppo, Arìs cita all’interno del suo libro cinque artisti: Jorge Luis Borges, Mies Van der Rohe, Yasuhiro Ozu, Mark Rothko e Jorge Oteiza.

Si serve di loro perché, nonostante siano degli artisti appartenenti a cinque discipline artistiche diverse, sono accomunati da alcuni fattori, primo fra tutti la scelta di fare della Poetica del Silenzio uno dei punti di forza del proprio pensiero.

Sono anche uniti dalla loro visione personale dell’arte. In linee generali, la vedono come introspezione, come contemplazione dei sensi. Pensano che l’arte debba stupire lo spettatore, lasciarlo a bocca aperta.

In altri capitoli, l’autore si appresta a raccontare come le avanguardie moderne e alcune epoche storiche si sono confrontate con la Poetica del Silenzio. Egli descrive come, a partire da alcuni artisti dell’ultimo secolo, si sia evoluto il linguaggio dell’artista, fino a raggiungere in ultimo luogo un gruppo di artisti che ha fatto del Silenzio un proprio, importante, strumento.

In ultima analisi, è stato inserito all’interno del libro una raccolta di saggi di altri autori: loro, analizzando alcuni temi ed argomenti, ci mostrano come la Poetica del Silenzio abbia influenzato il pensiero e lo stile di alcuni artisti contemporanei. Ci mostrano il percorso che queste figure hanno affrontato per raggiungere il loro risultato, descrivendone infine i frutti del loro lavoro.

 

    

Giudizio Complessivo: 7 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Roberto Ricotta

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

 

 

Autore

Carlos Martì Arìs è nato a Barcellona nel 1948. È un architetto i cui interessi spaziano dalle arti figurative, alla musica e alla letteratura. Svolge attività didattica e lavorativa presso la sua città natale, dove prende la cattedra di Composizione presso la Escuela de Arquitectura de Barcelona.

È stato vicedirettore della rivista 2C Construccione la Ciudad dal momento della sua fondazione e adesso è Direttore della collana Arquithesis.

Ha sviluppato un’ampia riflessione teorica attraverso numerosi articoli e conferenze ed è autore di vari libri. I suoi progetti, invece, elaborati con l’architetto Antonio Armesto, sono stati pubblicati in numerose riviste spagnole e internazionali.

 

CAPITOLI

PARTE PRIMA

Capitolo 1 – Borges nel suo labirinto

L’autore comincia il capitolo citando un racconto di Herman Hesse, Il Gioco delle palle di Vetro. I fatti trattati in questo racconto sono ambientati in un futuro non troppo lontano, caratterizzato da un’arte fondata sull’anonimato e sulla dimensione sovrapersonale delle sue manifestazioni. Tramite questo racconto, costruisce una pungente diagnosi del suo presente: vivere l’era della terza pagina.

Contro questo pensiero si era piano piano giunti alla cultura basata sul racconto: le conoscenze dell’umanità vengono trattati dai giocatori di perle come degli organi di un organista. Si cerca di trovare connessioni tra argomenti molto distanti.

In questo modo vengono esaltati gli aspetti biografici più stravaganti e si finisce per  nutrirsi delle più eccessive fantasie e trovate individuali. Hesse afferma un fenomeno che si presenta periodicamente; ogni epoca finisce nel produrre una cultura della terza pagina, contro la quale ci si contrappone.

 

A questo punto, l’autore afferma che Borges  non è altro che uno dei giocatori di perle i quali, grazie al linguaggio che hanno scelto, sono capaci di interpretare la trama della cultura universale.

Egli invoca con insistenza l’idea che una delle massime aspirazioni dell’arte sia il superamento degli aspetti meramente individuali e la conquista di una dimensione espressiva di carattere sovrapersonale.

 

Dopodichè, l’autore comincia a descrivere il pensiero e gli strumenti dello scrittore:

Borges  ha una concezione della letteratura diversa dall’usuale. Egli crede nella letteratura pura, non allo scrittore che l’ha prodotta. In uno dei suoi scritti, Borges ed Io, arriva a sdoppiare se stesso in due personalità: lui e la sua personalità letteraria. Per questo motivo le sue opere sono piene di riferimenti ai grandi miti letterari del passato, ammirando gli autori solo come coloro che incarnano la personalità letteraria;

una strategia poetica cui ricorre con frequenza è la stesura di recensioni e commenti a libri immaginari. In questo modo tenta di esplorare gli spazi vitali dell’architettura, di costruire una ragnatela che unisce e confonde autori reali, per mettere in evidenza la profonda identità del mondo letterario. Alla fine afferma che, ormai, tutta l’architettura è stata scritta e che oggi si può solo arricchirla di qualche postilla. Nel suo racconto, La Ricerca di Averroè, afferma come sia inutile ogni volontà di invenzione individuale: La letteratura si scrive a partire dalla Letteratura;

un altro dei suoi temi fondamentali è il riconoscere che il nostro rapporto col reale è fatalmente determinato dalla cultura;

nei suoi scritti appare spesso la figura del labirinto. Esse sono deliberate costruzioni mentali: metafore della cultura. Egli vaga cercando di interpretare la realtà attraverso la cultura. È concepito come qualcosa di ineluttabile, unico modo possibile di abitare il mondo e riconoscerlo.;

secondo Borges qualsiasi luogo è archeologico: scavando troviamo rovine e frammenti di quanti ci hanno preceduto. Questi resti rappresentano la base su cui si fonda la cultura ultrapersonale (essa ha valore perché non appartiene a nessuno).

 

Dopo l’analisi, Aris arriva a definire la concezione di Borges del Silenzio: Il Silenzio di Borges si basa sula volontà di dissolvere la sua voce individuale nell’immenso territorio anonimo della sua letteratura.

 

Infine, l’autore afferma che ogni volta che l’arte ritorna ad essere autoreferente e non si sottomette all’istinto della pura emotività, arriva l’accusa di intellettualismo.

Tuttavia, se c’è qualcosa che caratterizza l’arte del ventesimo secolo è la necessità di essere riconoscibile dallo spettatore, di farlo partecipare con la sua intelligenza al proprio gioco.

 

Capitolo 2 – La tradizione moderna

L’autore comincia a descrivere le particolarità dell’arte moderna.

Egli pensa che la tendenza a identificare l’arte moderna con le avanguardie dei primi decenni del ventesimo secolo ha originato confusioni. Le avanguardie costituiscono il momento di fondazione di un ciclo culturale che, dopo la sua fine, continua in altro modo la propria esperienza.

Quando essa raggiunge il suo obiettivo, viene sostituita da altre forze, capaci di consolidare il risultato.

Queste, dopo essersi contrapposte ai rigidi schemi accademici, passano la staffetta ad altre posizioni che, con un nuovo linguaggio, stabiliscono le basi della tradizione moderna.

Essa non può continuare in eterno, non può prolungare indefinitamente lo stato di eccitazione innovatrice che impone a se stessa. Ha la capacità di instaurare una tradizione, non una moda.

 

Un gruppo di artisti del tempo – Mies, Borges, Eliot – capiscono che l’atteggiamento estetico dell’avanguardia comincia a perdere valore. L’innovazione  e le ricerche del nuovo non rappresentano un passo avanti nella conoscenza. Rifiutano il parossismo del nuovo, si concentrano sul compito di costruire un’arte senza tempo a partire dai risultati raggiunti dal moderno verso gli strumenti dell’arte moderna per ritornare a confrontarsi con i grandi temi di sempre, quei concetti che possiedono validità universale.

La novità dell’avanguardia si azzittisce lasciando posto all’arte più stemperata .

Qui, l’autore afferma, proviene il concetto moderno di tradizione. È possibile contemplare, sincronicamente, l’insieme dell’eredità artistica di tutta l’umanità. Così alcuni artisti del ventesimo secolo vincolano il loro lavoro ai predecessori.

 

In questo modo l’arte moderna appare come un territorio intensamente in contatto con l’arte del passato non ottocentesca, cui si oppone. È l’arte legata alle antiche tradizioni che hanno vicinanza con i moderni.

In un suo saggio Milan Kundera espone una tesi sulla storia della musica e del romanzo europeo. Afferma che entrambe le discipline si sarebbero sviluppate secondo tempi simili, ovvero in due metà di tempo spezzate da una cesura profonda. Questa cesura avviene nella musica durante la seconda metà del diciassettesimo secolo (Bach) e gli inizi del classicismo viennese.

Nel romanzo avviene tra Laclos e Sterne sull’estremo della prima metà eScott e Balzac sull’altra sponda.

Kundera afferma che noi siamo stati educati secondo l’estetica del secondo tempo.

Attribuisce a questo le difficoltà che abbiamo nell’avvicinarci alle manifestazioni più insigni dell’arte moderna, proprio perché quest’ultima cerca di rifarsi alle arti del primo tempo.

Kundera aggiunge che una riabilitazione dei principi del primo tempo non equivale ad una riesumazione di questi, ma ad una loro ridefinizione.

 

Capitolo 3Mies Van der Rohe : la chiarezza come obiettivo

Il pensiero di Mies interpreta l’idea dell’astrazione architettonica. Le sue creazioni sono spoglie di tutti quegli ingredienti figurativi  che caratterizzano l’architettura tradizionale.

Esse sono caratterizzati da pochi materiali o elementi costruttivi connessi da una serie di dispositivi visivi. Nonostante il suo linguaggio sia molto lontano dalla tradizione, rimane uno degli architetti contemporanei più strettamente legato all’antichità.

 

La sua vicinanza all’antichità si basa su un gran potere di astrazione, capace di spogliare l’architettura dai suoi aspetti particolari, esaltandole come pura costruzione formale.

Grazie a questo procedimento astratto può dialogare con le opere antiche e di mostrarne la loro attualità. Lui osserva la realtà e ne estrae i materiali della sua architettura. Gli ultimi risultati dell’industrializzazione rappresentano una parte fondamentale.

Mies non si oppone. Prende questi elementi e li sottomette ad un processo di stilizzazione. Dopodiché restituisce loro indipendenza, creando distanza e vuoto.

 

Questa non è altro che l’operazione di Mies: gli elementi possono essere neutri, ma attraverso le loro relazioni possono rappresentare dei valori.

In una sua conferenza afferma che il tempo presente è una realtà che esiste come dato di fatto; è decisivo il modo in cui ci si fa valere.

Mies, dichiarando che la forma non è l’obiettivo ma soltanto il risultato dell’architettura, ci avverte che l’ansia di giungere alla bellezza spesso ci fa allontanare.

Nonostante aspiri alla bellezza, si affida spesso a tecniche costruttive ingegneristiche. Esse gli permettono di avvicinarsi in maniera elusiva ad essa.

Molto spesso il concetto di semplicità è stato associato alla sua architettura: essa non è la verità. Le sue opere, ben lungi da esaurirsi con il passare del tempo, acquistano sempre più fascino. Non si può parlare di semplicità rispetto ad un’architettura che continua ad essere di esempio nel tempo.

Difatti, occorre fare distinzione tra semplice ed elementare.

Semplice: privo di ingredienti, di composizione.

Elementare: composizione di alcuni elementi secondo regole elementari.

Vi si oppongono i concetti di complicato e complesso. Semplicità e complicazione sono due segni opposti, nessuno dei due riesce a conferire all’oggetto valore estetico. Elementarità e complessità, invece, costituiscono una coppia concettuale complementare.

L’opera d’arte è sempre una costruzione complessa, nella quale si riconoscono gli elementi che lo formano.

Analizzando le sue opere il primo obiettivo è la chiarezza. Non c’è complicazione, solo complessità determinata dalla composizione e dalla relazione degli elementi senza confusione, mantenendo la propria identità durante il processo.

 

Un punto forte del suo pensiero è la sua concezione del mondo. Esso ci viene dato così com’è, bisogna riconoscerlo dandogli forma stabile.

Malgrado questa ricerca di obiettività la sua architettura è una delle più liriche, anche se non c’è contraddizione. Egli lavora con materiali obiettivi e, componendoli, li trasforma in oggetti di contemplazione. Per divenire tali devono possedere la proprietà della trasparenza. Lo sguardo dello spettatore deve attraversare l’opera, portando l’attenzione oltre il limite fisico.

Si oppone all’opacità, l’impenetrabilità, all’eccesso di forme e alla retorica del significato, cioè a tutto ciò che si oppone al raggiungimento della dimensione che costituisce il primo requisito per la contemplazione.

 

In questo modo la trasparenza si avvicina alla forma del Silenzio. Anch’esso può essere trasparente, transitivo, permette all’opera di proiettarsi verso altre dimensioni della realtà che non sono esattamente in esse contenute.

Il vero obiettivo di Mies è la trasparenza concettuale, quella condizione in cui si intrecciano la chiarezza e il mistero. Davanti alle sue opere si prova un senso di interruzione e sospensione del tempo.

Capiamo in cosa consiste la sua ricerca dell’essenziale. Un lavoro basato sulla omissione, sulla rinuncia, guidato da un’economia spirituale che asserisce al necessità di superarsi da ciò che non è necessario. Solo così si può sperare nell’apparizione del trascendente.

 

Capitolo 4Eclissi del trascendente

Aris continua il suo discorso sulle avanguardie del Moderno. Afferma che possiamo trovare delle analogie tra le avanguardie dell’inizio del secolo con lo scenario metropolitano nel quale affondano le radici. L’ansia del nuovo trova una relazione con il frenetico mondo della grande città.

La struttura vitale della metropoli esercita una profonda influenza sui procedimenti dell’arte d’avanguardia.

Afferma che lo scintillio della metropoli ha subito un cambiamento. Non c’è più meraviglia, ma offuscamento. I temi una volta fondamentali mostrano il lato opposto.

Così, una volta che il fragore delle metropoli ha smesso di essere stimolante, l’opera di coloro i quali hanno cercato di tenere in vita i temi risulta fastidiosa. Alcuni artisti dimenticano che è raro inventare un nuovo linguaggio. Nella storia è successo in poche occasioni, coincidenti spesso con i momenti di fondazione dei grandi cicli culturali.

 

Il linguaggio rimane invariato durante il ciclo, sottomesso comunque a varie declinazioni e trasgressioni. Succede così nei primi decenni del ventesimo secolo. I movimenti d’avanguardia scatenano un nuovo ciclo, forte del suo linguaggio, che difficilmente può essere dato per esaurito. Dopo l’inaugurazione di esso, la maggior parte dei protagonisti dell’avanguardia si portano ad un approfondimento del linguaggio.

Nonostante questi concetti, sono molti gli ostinati che cercano l’innovazione. Essi cercano di creare un nuovo linguaggio, ignoranti del fatto che sia un’impresa molto difficile. Mies afferma: <L’architettura non si inventa ogni Lunedì mattina>.

Una divisione che si può fare nel territorio dell’arte è la separazione tra coloro i quali affrontano il problema del linguaggio e quelli che lo lasciano in sospeso, ponendosi senza ansie o esasperazioni.

I primi manifestano la propria arte attraverso forme obbligatoriamente innovatrici, di forte impatto.

I secondi pensano che contrapporsi al linguaggio significhi allontanarsi dagli obiettivi. Essi cercando di usare l’arte in maniera tale che riveli aspetti della realtà che riguardano tutti.

Possiamo proporre una strategia chiamata Eclissi del Linguaggio. Consiste nell’applicare un velo che impedisca al linguaggio di accecarci, impedendoci di vedere altre luci. In questo modo non può uscire dai limiti. Tuttavia, anche se sottoposto a questo controllo, non si annulla ne perde valori. Semplicemente il suo effetto arriva filtrato. La profondità della percezione si accentua. In questo modo non ci cattura nella sua ragnatela ma si fa transitivo: ci permette di vedere cosa c’è oltre se stesso.

 

Capitolo 5Ozu o le tracce dell’assente

Ozu era un regista giapponese il cui lavoro fu presentato la prima volta in Europa a Berlino, durante il festival del cinema. In quell’occasione impressionò i critici occidentali.

Solo con gli strumenti propri del mestiere era riuscito a costruire un’opera cinematografica solida. Il suo cinema si impone come espressione intima e riservata delle contraddizioni vissute della società giapponese nel processo di cambiamento dell’ultimo secolo. Osserva e analizza le relazioni tra un gruppo di persone e le registra. I suoi personaggi vengono mostrati per quello che dicono e fanno. Sta allo spettatore assumere una posizione.

 

Egli si serve di un limitatissimo numero di temi ed elementi formali:

storie e personaggi ricorrenti: storie domestiche, incentrate sulla struttura tradizionale della famiglia giapponese e sull’indicazione dei sintomi della sua progressiva scomposizione;

il suo stile è austero. Gira con la telecamera fissa a settanta centimetri dal terreno, molto più basso delle convenzioni cinematografiche precedenti. Non ci sono dissolvenze, non ricorre al flashback.

 

L’opera di Ozu è stata confrontata con il pittore Giorgio Morandi – il quale passò la vita a lavorare con elementi semplici – e con Heinrich Tessenow – il quale condivideva l’interesse verso una dimensione artigianale e lo stile lentoe scarno.

Ciò che accomuna davvero artisti del genere è la loro condizione solitaria e riservata, la loro posizione al margine della moda e dalle correnti dominanti, la loro ripetizione. Hanno uno sguardo perturbante e corrosivo.

Ozu, con la sua inattualità ha creato un cinema terso, severo e trasparente.

Valery afferma: <occorre maggiore finezza per fare a meno di una parola che non per introdurla>.

 

Nel suo cinema ci sono particolari chiamati piani vuoti in cui appaiono visioni statiche di oggetti inanimati o immagini di interni in cui appare il vuoto assoluto della scena. Esse svolgono il ruolo di ricettacoli di sentimenti che il film ci suscita.

Attraverso essi Ozu crea tra lo spettatore e il racconto un vincolo, un elemento neutro in apparenza, capace di provocare intimità e distanza.

In questo modo si evocano aspetti e situazioni che non si mostrano esplicitamente. Si rivelano le tracce dell’assente. Un fatto curioso è che il suo cinema pretende di essere immerso nella cronaca della quotidianità, di attenersi ai suoi aspetti immanenti.

Nelle sue pellicole troviamo tantissime note storiche del Giappone. Possiamo quasi parlare di neorealismo, anche se non è il suo vero obiettivo. Egli cerca di cogliere il sottile movimento dei suoi personaggi, secondo il quale un mondo incerto sorge dalle rovine di un mondo apparentemente solido. Fa un’invocazione spirituale. Si è parlato spesso dell’influenza della cultura zen. I suoi piani vuoti sono visti come le pietre disposte come figure nei giardini zen. Secondo questa visione il suo cinema diventa di relazione.

I piani vuoti sono, prima di tutto, oggetti di contemplazione cui si allacciano in Silenzio molti degli elementi impliciti del film.

Come ha osservato Octavio Paz: <l’essere si dissolve in un qualcosa che nessun linguaggio può definire, se non quello del Silenzio>. Afferma, anche, che: <Noi uomini siamo fatti in maniera tale da vedere anche il Silenzio come un linguaggio>.

Molte delle sue più importanti sequenze trascorrono in un denso Silenzio, carico di idee ed emozioni  che non vengono espresse apertamente. Con il Silenzio si imprimono le tracce dell’assente.

Qualche anno fa il regista Wenders intraprese un viaggio in Giappone, con l’intenzione di girare un filmato con cui prendere nota del cinema e della personalità di Ozu. Il risultato fu abbastanza magro, poiché non trovò molto.

 

In questo modo il Silenzio acquista una nuova importanza: ci insegna che il compito degli artisti consiste nel permetterci la contemplazione degli aspetti del mondo che stanno scomparendo. Lo sforzo di Ozu consiste nell’affermare l’istante fissandolo in immagini in cui si possa percepire il trascorrere del tempo.

Per fare questo vi è bisogno di strumenti di precisione e di una tecnica libera da ogni velleità personale.

Il regista mantiene il Silenzio per far parlare le cose. Vuole rimanere in incognito e sfumare la sua presenza così che possiamo osservare con chiarezza e trasparenza.

 

Capitolo 6Le illusioni dello Zeitgeist

L’idea secondo la quale attraverso la storia possiamo arrivare ad acquisire una comprensione  scientifica della società umana, trova la sua origine nell’illuminismo e si consolida durante il diciannovesimo secolo. La storia diventa un oracolo: essa definisce gli eventi e si pronuncia sulla direzione in cui avanza la storia. Questo pensiero diventa teoria estetica di Hegel. Da qui deriva l’importante notazione di Zeitgeist (spirito dell’epoca): l’opera artistica è l’espressione e il riflesso della struttura generale della propria epoca storica.

Questo pensiero introduce la concezione dell’esistenza di un protagonista collettivo che svolge il ruolo di guida nel divenire dell’arte.

A questo punto ci poniamo delle domande: chi determina lo Zeitgeist? E per quale motivo bisogna considerarlo come qualcosa di unico e monolitico, invece di ammettere la coesistenza di più spiriti, forse anche eterogenei?

Sono numerosi gli artisti che, negli ultimi due secoli, hanno subito le critiche di coloro i quali sponsorizzarono l’adesione al precetto di uno spirito dell’epoca definito a priori.

La loro poetica veniva accusata reazionaria, perché non corrispondente alle esigenze decantate.

Un esempio è del musicista Johannes Brahms. La sua musica è stata considerata superata, non al passo coi contemporanei come Wagner, Listz e Bruckner. A differenza della loro musica, la quale si identificava con la novità e il progresso. Brahms era considerato un guardiano delle vecchie tradizioni musicali.

In realtà la sua musica si connetteva a periodi molto più lontani, comprendendo brani di antichi compositori olandesi, la musica medievale e molte altre.

Dovettero passare alcuni decenni perché si potesse cogliere pienamente il significato della sua musica. Si comprese che il proposito di allacciarsi agli antichi racchiudeva una profonda intuizione. Che avrebbe spianato la strada alle ricerche del ventesimo secolo , tese al superamento del periodo post-romantico.

Egli non si lasciò mai influenzare da coloro i quali lo consideravano reazionario. Verso la fine dei suoi anni, mentre i suoi contemporanei si sforzano in sperimentazioni che sfiorano la disintegrazione formale, lavora ad un’architettura musicale sempre più consistente, precisa e trasparente.

Nelle sue opere (Quintetto in Si Minore, Opus 115), con impressionante sobrietà, porta in alto l’arte della variazione grazie ad una costruzione che si chiude circolarmente sul tema iniziale.

La forte emozione filtra attraverso l’essenzialità dei motivi e la solida articolazione della forma. La musica dei suoi contemporanei risulta ancorata allo spirito dell’epoca. La musica di Brahms sembra, invece, fluttuare nella stanza, dialogando con il passato e con il futuro.

Ci sono artisti che diventano sudditi dello Zeitgeist che coltivano e aiutano a modellare. Altri invece interpretano la loro epoca e la trascendono. In ogni caso, nessuno dei due atteggiamenti è disprezzabile. Ognuno di essi, a modo loro, forniscono la chiave di lettura della loro epoca.

 

Capitolo 7Rothko e il carattere sacro dell’arte

L’autore si appresta a descrivere la figura di Mark Rothko. Afferma che siamo soliti identificare la sua pittura con i quadri astratti che ha realizzato dal ’49 in poi e che corrispondono alla sua maturità artistica. Sono quadri di grande formato, immersi in campiture cromatiche che creano un effetto di infinito in cui fluttuano forme vagamente rettangolari, oblunghe, ai limiti della tela.

Dobbiamo però ricordare che arriva all’astrazione dopo un lungo e ragionato percorso.

Le pitture Untitled, che vanno dal ’46 al ’49, catalogate con i nomi dei colori che le compongono, trasmettono un forte senso di oggettività.

Rothko è preoccupato dal sospetto che la sua pittura potesse apparire un esercizio decorativo, un divertimento. Non si stancò mai di avvertire che la sua opera rifletteva contenuti che alludevano al mondo della mitologia e alle tragedie.

Insisteva a sottolineare la dimensione trascendente delle sue opere. La gamma cromatica utilizzata assume diversi ruoli. Colori crudi e vibranti, altre volte spenti e lugubri. Sfugge le combinazioni graduali, ne cerca di aspre e ruvide. Il colore è uno strumento per commuovere la coscienza dello spettatore.

Rothko si impone una rigorosa autolimitazione dei propri mezzi espressivi, non si vuole permettere il minimo grado di spettacolarità. Per questo motivo, forse, era preoccupato che il Silenzio che avvolgeva le sue opere potesse risultare opaco, chiuso in se stesso.

Il pittore concepisce la sua arte come un’arte delle idee, sperando che esse giungano in modo nitido allo spettatore.

Spesso il tema attribuito alle sue idee era religioso, nonostante si sia sempre definito un materialista. Un pittore, contemplando le sue opere, osserva che pur non essendo religiose sono l’opposto del profano. Esser furono considerate sacre.

Uno dei nodi della questione è determinato dal ruolo del mito. Esso, nonostante sia un tema arcaico e primordiale, nella sua costante riattualizzazione esprime l’idea della continuità e della ciclicità. Per Mircia Eliade i miti sono espressione  un tempo circolare, eterno ritorno che interrompe la linearità del tempo cronologico e costituiscono una manifestazione del sacro.

Allo stesso modo lavora la volontà di Rothko di non limitare la sua pittura alla stretta superficie della tela, ma di produrre una spiritualità in cui lo spettatore si vede immerso.

Rothko dipingeva su tele di formato molto grande per raggiungere l’intimità che il piccolo formato non gli permetteva di ottenere. Lo spettatore deve avere la possibilità di tuffarsi nel quadro, di sentirsi parte di esso, implicato.

L’artista pensa che ai nostri giorni sia compito dell’arte di definire le basi di quella comprensione rituale della realtà che è attribuita ai comportamenti religiosi. L’opera d’arte acquista valore sacramentale. Il suo lavoro si avvicina ad un campo mistico. Anche se dimostra che la volontà di trascendenza che un’opera d’arte può contenere proviene dalla manipolazione di elementi di esperienza umana.

Per Rothko non è qualcosa di inanimato, inalterato nel tempo, bensì una sorta di essere vivente che si mostra e si manifesta nell’incontro con altri esseri.

Afferma che: <il dipinto non può vivere isolato. Ha bisogno dello sguardo di un osservatore sensibile>.

L’esplorazione del concetto pittorico del Colorfield avvicina le opere di Rothko a quelle di altri pittori suoi coetanei, come Still e Newmen.

Questi ultimi, però, presentano le loro campiture come frammenti di un universo.

Rothko, invece,  vuole che le sue opere vengano percepite come un tutto, in modo che lo sguardo di un osservatore tende a fissarsi nell’opera, in un attitudine contemplativa.

Negli ultimi anni la sua pittura si carica di tensione e, a volte, provoca espliciti pensieri sulla morte.

Nel ’63 comincia a dipingere tele grigi e marroni. Tele severe e malinconiche. Queste ultime sembrano rappresentare il carattere effimero della condizione umana.

 

Capitolo 8Linguaggio e Silenzio

L’autore pone alla nostra attenzione due saggi, scritti da Steiner negli anni ’60: La fuga dalla Parola (’61) e Il Silenzio e il Poeta (’65). In questi saggi, Steiner affronta un indagine precorritrice sul linguaggio che lo condurrà ad esplorarne i limiti. Egli indaga le diverse eccezioni che il termine Silenzio può acquisire in relazione con il linguaggio, mostrando quanto queste possano essere divergenti. Una di queste è il Silenzio inteso come rinuncia, quasi autoimmolazione. <La parola non confina più con il fulgore, ma con la notte>.

Due poeti moderni, Holderlin e Rimberd, pensano che la Scelta del Silenzio è più forte della poesia.

Questo concetto è per Steiner un fenomeno storicamente recente, i cui sintomi hanno coinvolto un numero crescente di persone man mano che avanza il secolo.

Steiner elenca le possibili cause: dissoluzione dei valori della società borghese, prepotenza aggressiva del progresso tecnologico, disumanità delle vicissitudini politiche. Egli propone un riassunto: <Il Silenzio è un alternativa […] Niente parla più forte della poesia non scritta>. Quando la corruzione raggiunge persino il linguaggio, per il poeta la tentazione del Silenzio è sempre più forte.

Un’altra accezione si riferisce alla comparsa di ambiti sempre più estesi della realtà che non si fondano sul linguaggio verbale. Soprattutto quelli derivati dalle matematiche. Man mano che essa guadagna terreno, le formule di comprensione della realtà si allontanano dal linguaggio comune. È il fenomeno chiamato delle due culture. Il divario tra il linguaggio delle parole e quello matematico si fa sempre più ampio. Ai due margini ci sono uomini che reciprocamente, si considerano ignoranti.

Steiner constata che la parte del mondo che può essere descritta attraverso la parola si riduce, e osserva che aumenta la difficoltà ogni volta che il linguaggio incentra per esprimere qualcosa di significativo sugli oggetti artistici.

Il Silenzio, in questa prospettiva, è come un velo di nebbia che minaccia di invadere il mondo della cultura, rendendolo impraticabile.

Le prime accezioni del Silenzio analizzate hanno una marcata componente negativa: o costituisce una rinuncia che nasce come rifiuto davanti alle atrocità commesse dell’uomo oppure implica il riconoscimento della disfatta del mondo delle parole.

Ammette però una terza accezione. Il Silenzio viene visto come una categoria che possiede specifiche proprietà, come un principio poetico.

Con una profonda intuizione lo colloca nella metafisica. Nel buddismo e nel Taoismo l’anima è concepita come qualcosa che si eleva verso un Silenzio sempre più profondo. Il livello più puro dell’atto contemplativo è quello che ha appreso a lasciarsi il linguaggio alle spalle.

Questa trascendenza del linguaggio verso  il Silenzio è presente anche nella tradizione occidentale.

Da questa prospettiva il linguaggio può essere considerato come la soglia del Silenzio, si può riconoscere l’origine comune del linguaggio nel mistico e nel poeta.

Ambedue si muovono su un terreno di frontiera, sulla soglia di un mondo che conosciamo e di uno che ci è vietato. La differenza tra le due figure è che il mistico cerca di portarsi nel mondo soprannaturale, l’artista cerca di mettere in relazione le due dimensioni.

 

Capitolo 9Oteiza e la costruzione del vuoto

Jorge Oteiza è il quinto artista scelto da Arìs per il suo discorso sul Silenzio. Nato a Orio, concluse la sua carriera artistica quando aveva 50 ani. In questo modo entra nel gruppo di artisti che conclusero la loro opera con il Silenzio.

Il suo lavoro si basa su quello che lui stesso ha definito un proposito sperimentale.

Egli cercò sempre affannosamente il Silenzio attraverso la sua opera e, una volta raggiunto, considerò conclusa la sua ricerca scultorea.

Negli anni 50 diresse la sua ricerca principalmente in tre direzioni: svuotamento del cilindro, del cubo e della sfera. Il suo lavoro consiste in un processo di sottrazione, di disoccupazione spaziale, cui corrisponde la creazione del vuoto attivo, fonte di energia fisica e spirituale.

L’obiettivo è la conquista di un spazio evacuato in cui resti impresso il processo di lavoro.

Questo vuoto è carico di mistero, di domande, lo spettatore si pone davanti con atteggiamento d’attesa. Il Silenzio è assorbente e accogliente. Non è esagerato affermare che Oteiza  e Barragàn – il quale crea architetture vicine alla scultura – anticipino molte delle realizzazioni della scuola minimalista e, in certe misure, lo superino.

Adesso è necessaria una digressione per rendere un tributo che nessuna riflessione sulla poetica del Silenzio può eludere: il pezzo musicale di John Cage, 4 minuti e 33 secondi. Il titolo dell’opera allude al tempo durante il quale l’interprete deve rimanere immobile davanti al suo strumento, lasciando che il pubblico crei l’universo sonoro che la partitura in bianco rinuncia a definire.

Josep Quetglas ci avverte, tuttavia, che ci possono essere due risposte alla sua opera. La prima è interpretarla come una provocazione verso il pubblico. La seconda, interpretarla come passività.

In realtà Cage voleva dimostrare che il Silenzio non esiste, perché si sta sempre ascoltando qualcos’altro, per impercettibile che sembri.

Se però accettiamo che non ci sia ne passività ne volontà di provocazione dobbiamo riconoscere la banalità del pezzo. Il Silenzio non può mai essere completo, così come non esiste il vuoto allo stato puro. In realtà, il Silenzio di Oteiza è lontanissimo dal mutismo dei minimalisti. <L’autore non vuole dire, e la sua opera è conclusa, chiusa>.

Come osserva Quetglas, invece, <l’opera  minimalista […] è conosciuta per quello che occlude e ostruisce>. Essa impedisce allo spettatore qualsiasi tentativo di dare valore all’opera.

La scultura di Oteiza, al contrario, crea uno spazio concavo, recettivo, che permette allo spettatore di stabilire un dialogo. I processi con cui lavora sono palesi, lasciano una traccia che diventa l’ingrediente forte dell’opera. Si parla di vuoto come costruzione.

L’universalità del suo pensiero si esplicita con la chiarezza delle conclusioni del suo saggio Quousque Tandem…! : <L’arte consiste in un processo che integra e ricolloca l’uomo e la sua realtà. Si inizia con un niente e si finisce con un Niente che è Tutto, risposta limite e soluzione spirituale dell’esistenza […]. L’arte contemporanea sta entrando in una disciplina di silenzi e illuminazioni, per sfociare in un nuovo vuoto>.

Come artista è ancora sconosciuto, anche se la sua capacità riflessiva non è inferiore al suo immenso istinto poetico. In lui confluiscono molti dei fili tracciati nei discorsi dei capitoli precedenti.

 

Capitolo 10 – Il rumore, il silenzio e la parola

Oggi sappiamo che ci sono molte forme per interpretare il presente. Per questo motivo ci risulta difficile pensare che ad un’epoca corrisponda un solo modo di concepire l’arte, che esiste un solo spirito del tempo capace di dettare univocamente il linguaggio artistico che lo rappresenta.

Malgrado ciò, continua a gravitare intorno a noi il peso di uno Zeitgeist determinista che sembra costringerci a concedergli quello che, in teoria, i tempi reclamano.

Le regole di un codice non scritto impongono all’artista di rendere conto dell’attualità del momento che verrà giudicato dalla sua capacità di accentuare questi aspetti. Bisogna quindi distinguere chi pratica l’idolatria dell’attuale da coloro i quali concepiscono il tentativo di sintonizzarsi con la realtà come una ricerca che non garantisce in anticipo il valore dei risultati.

La prospettiva dichi fa, di chi è implicato nell’azione a volte non coincide con l’osservatore. Questa è l’origine di alcuni giudizi aprioristici in cui incorre la critica quando squalifica opere che dovrebbero essere giudicate con altri parametri.

Per fortuna ci sono anche opere che attendono con pazienza il momento di essere capite e accettate. E quando questo succede, l’epoca cui appartengono non può più essere osservata.

Viviamo in un’epoca assediata dal rumore, sottomessi ad un forsennato ritmo. Da questo nasce una cultura sempre più ossessionata dal dover registrare le palpitazioni del presente. Una cultura mediatrice, immersa nel rumore delle informazioni e dei fatti. Il rumore del mondo è oppressivo e assordante. L’unico in grado di opporsi è il Silenzio. Esso apre una profonda breccia nello scenario convulso della nostra vita quotidiana, genera uno spazio vuoto che ci distoglie dal vortice dell’attualità.

Paradossalmente, l’invocazione al Silenzio è una rivendicazione della parola. Esso, infatti, si oppone al rumore, suo acerrimo nemico.

Come ha osservato Josè Valente, esiste una intima relazione tra il Silenzio e la parola poetica. Quando un’pera ha la proprietà di generare intorno a se uno spazio di Silenzio, promuove uno sguardo diverso sulla realtà, grazie al quale il mondo si offre sotto il segno della contemplazione.

Attraverso questo Silenzio si riescono a cogliere le dimensioni occulte del reale. Pretende di trascendere il linguaggio. In una certa misura viene dopo la parola. Sorge quando questa, una volta pronunciata, ha perso il suo senso immediato.

 

PARTE SECONDA

Capitolo 1Astrazione in architettura: una definizione

È sempre più frequente trovare il termine astrazione riferito ad opere, artisti o tendenze architettoniche. Ciononostante non esiste accordo sul suo significato. Difatti è un’ingenuità pensare che sia sufficiente che due interlocutori pronuncino la stessa parola perché tra loro ci sia intesa sul significato.

Affinchè ciò succeda, bisogna definire con precisione i concetti con cui si ha a che fare, cominciando con la consultazione dei dizionari. La definizione coincide con l’operazione intellettuale attraverso cui si separa, mentalmente, ciò che nella realtà risulta inseparabile.

Da un punto di vista filosofico, l’astrazione è un procedimento conoscitivo che tende a separare gli aspetti accidentali o contingenti da quelli essenziali o necessari. In questo senso è possibile astrarre un concetto universale a partire da situazioni diverse od oggetti particolari. Astrarre equivale a tirar fuori qualcosa dalla totalità cui è unita. Nel linguaggio comune essere astratto significa aver la capacità di separarsi dagli oggetti e restare assorti nella meditazione o nella contemplazione; nell’accezione negativa allontanarsi dalla realtà, perdere di vista la dimensione tangibile delle cose.

 

In ambito filosofico il termine astrazione ha un carattere relativamente atemporale. Al contrario, in ambito artistico, risulta ristretto ad un periodo storico determinato che si identifica con il ciclo della modernità.

A partire dalla sua fase di fondazione, la pittura astratta rinuncia alla pretesa di imitare la natura. Essa supera l’illusione che il quadro possa essere una finestra da cui contemplare una scena che tenta di sostituirsi alla realtà. Essa concentra la nostra attenzione sulla composizione di forme e valori si di un piano.

Spogliando la tela di qualsiasi allusione rappresentativa, tentativo di evocazione o imitazione della realtà, si evitò che la dimensione aneddotica della pittura acquista un ruolo più importante di quello corrispettivo.

In qualsiasi disciplina artistica si tenderà a considerare astratte quelle opere che partecipano ala ricerca dell’essenziale e della rinuncia del particolare e del contingente.

Al lavoro di stabilire in cosa consiste l’essenza dell’architettura, può contribuire l’analisi di alcune espressioni del linguaggio comune.

L’architettura sarà tanto più astratta quanto più appare svincolata da tutte le questioni contingenti che la circondano (fine pratico, mezzi costruttivi, significati sociali e politici, ecc.). Tali questioni finiscono per essere irrilevanti quando si tratta di formulare un giudizio di valore sulle qualità artistiche di un’opera.

Presentiamo due esempi: la casa Farnsworth è astratta perché nella sua forma non solo non sono espressi i tratti dell’autore ma anche perché un qualsiasi osservatore può avere il dubbio di trovarsi di fronte ad una residenza privata o ad un piccolo tempio; la Casa del Fascio di Como è un’architettura astratta perché la sua forma si basa su pure regole geometriche dove non si ritrova nessuno dei significati che ha assunto. L’edificio potrebbe avere qualsiasi funzione.

L’opera astratta acquista un suo profilo, si distanzia dal mondo. Le relazioni in essa diventano importanti. Infatti l significato ultimo dell’opera risiede nella forma di queste relazioni, aldilà del valore specifico dei singoli elementi.

 

È possibile in architettura la distinzione tra astratto e figurativo? La distinzione è dettata dall’etimologia della parola forma in ambito architettonico: dal greco Eidos o dal tedesco Gestalt.

Nel primo caso la forma si indentifica con l’essenza interna costitutiva di un oggetto, alludendo alla disposizione e all’ordine generale delle sue parti, identificando la forma con il concetto moderno di struttura. Nel secondo caso la forma si riferisce a ciò che appare dell’oggetto, fino a diventare sinonimo di figura. La prima rimanda all’astrazione, la seconda al figurativo.

Il procedimento astratto porta il fare architettonico ad una dimensione sintattica, dando priorità ai principi di composizione. L’elaborazione figurativa si muove in una prospettiva semantica, che riconosce primaria importanza alla questione del carattere.

Il procedimento astratto tende all’universalità. Se utilizzato in modo banale o riduttivo rischia di produrre opere sdradicate dal contesto.

L’elaborazione figurativa stimola il coinvolgimento sentimentale nell’pera e l’esaltazione dei suoi aspetti particolari. I suoi difetti sono l’uso della forma come una finzione, e la tendenza all’eccesso di intenzioni. Ciò che è realmente difficile, in ambito figurativo, è definire il carattere dell’edificio senza ricorrere a convenzioni. Nel campo dell’astrazione è altrettanto difficile restare all’interno dell’essenziale senza incorrere in semplificazioni.

L’architettura astratta è qualcosa di concreto e tangibile, ma è anche frutto di un procedimento di astrazione.

  

Capitolo 2Interno Vuoto

Per Meyer la capacità di valorizzare le poche risorse disponibili è stata uno dei principali presupposti del suo lavoro di architetto, responsabile del risultato artistico ed economico.

In questo senso, l’austerità della sua architettura non è più una scelta, ma un’esigenza che obbliga a concentrarsi sull’essenziale.

Così è nei luoghi delle relazioni sociali e nell’ambito delle propria intimità. Questo è il senso del celebre interno Co-op che Meyer ha messo in scena nel ’26. Nel suo lavoro l’impulso etico che vede la rinuncia a tutto ciò che non è strettamente necessario coincide perfettamente con il sentimento estetico che concepisce la ricerca dell’essenziale come la fonte principale di raffinatezza e bellezza.

Il meno è più perché ogni sottrazione contiene la promessa di una maggiore ricchezza spirituale.

 

L’autore si ritrova davanti un articolo di giornale intitolato: Ritratto del Mondo. In questo articolo vengono fotografate alcune famiglie con tutti i loro mobili e utensili. Una famiglia indiana viene fotografata con in mobilio povero. L’autore si chiede se questa povertà può essere una forma di minimalismo. Non si trova d’accordo, poiché pensa che affinché il meno sia più, e necessario partire da un certo livello di generosità ed abbondanza. Solo così è possibile realizzare coscientemente la rinuncia.

Qualsiasi rinuncia viene compiuta per ottenere qualcosa. Nel caso di Meyer il segno meno costituisce una scommessa per una vita più libera, solidale, intensa.

 

Capitolo 3Eladio Dieste e la chiesa di Durazno

La chiesa costituisce un episodio eccezionale nell’opera di Dieste. Non troviamo ne volte ne pareti curve, solo grandi superfici piane di mattoni che, piegandosi e riflettendo la luce con intensità diverse, modellano lo spazio interno.

La luce penetra all’interno da due grandi finestre disposte sull’asse longitudinale dell’edificio (rosone e claristorio) e due sottili fessure orizzontali che costituiscono il coronamento delle pareti della navata centrale e illuminano l’intradosso della copertura. Grazie a queste linee di luce il piano del tutto sembra staccarsi dalle pareti, in modo tale da sembrare una massa senza peso, sospesa.

La luce, nonostante la sua inattualità, si converte in architettura. La addomestica con una maestria totale e le attribuisce il compito di esprimere il senso trascendente contenuto nella costruzione.

La graduazione della luce modella e articola lo spazio, imprimendogli dinamismo e profondità. Nelle navate laterali, basse e profonde, regna una penombra intensa; la navata centrale possiede una luce tenue e sfumata che esalta la tettonica di pareti e soffitti; infine un pezzo di luce incastrato nella sagoma della navata centrale attribuisce allo spazio una dimensione sacra.

L’edificio presenta sulla piazza una facciata tradizionalmente storicista, recuperata da un’antica chiesa, distrutta da un incendio nel 1967.

L’intervento di Dieste si occupa principalmente dello spazio interno. Mantiene la facciata e la campata del portico d’ingresso. Si è imposto di riprendere la pianta basilicale originale vuotando lo spazio interno di tutti quegli elementi strutturali che potessero ostacolarne una visione totale e unitaria.

Dieste descrive la chiesa come un sistema semplice, formato da tre fogli piegati: due sono le pareti unite al soffitto delle navate laterali, l’ultimo il tetto a falde della navata centrale.

C’è uno schema strutturale chiaro, la tecnica costruttiva utilizzata è mista. Per esempio, usa delle travi di cemento armato per il tetto delle navate laterali, dei pilastrini metallici, invece, su cui si appoggia la sospesa lastra della copertura.

Dieste cerca di ottenere la monumentalità senza ricorrere a grandi dimensioni. Per ottenere questo, cerca di spogliare la forma architettonica di ogni elemento non necessario. Austerità diventa una scelta estetica ed etica.

Dieste concepisce a Durazno, un artefatto che è in condizione di evocare la dimensione temporale e di provocare un’alterazione nella sensazione dello spazio. Il tempo mette in scena una frattura nell’omogeneità del tempo profano e allude al mito del tempo sospeso o dell’eterno presente.

E in queste capacità dell’architettura di ridefinire il senso del tempo, trova una forte analogia con la musica.

<L’architettura è la musica dello spazio>.

  

Capitolo 4il fondo di ghiaia

Ciò che rende stimolante e ricca la lettura di questo libro è il fatto di parlare di una sostanza tanto immateriale quanto il vuoto. Esso è ciò che, paradossalmente, da visibilità alle cose. È la distanza tra gli elementi del reale, l’ambito in cui si definiscono le loro relazioni. Questo pensiero non riscuote molto successo tra gli architetti, i quali hanno paura del vuoto, di ciò che resta aperto, incompleto.

Tutto deve essere riempito, non ci sono aperture per il Silenzio. Creano uno spazio opprimente e travolgente. E se entrano nell’ambito del privato, troviamo lo stesso pensiero. Tutto lo spazio è pieno di cose, non c’è lo spazio per l’indeterminato e l’imprevisto.

Quello che apprezziamo della cultura domestica giapponese è l’immagine della casa vuota e disponibile, frutto della declinazione di un solo concetto: il ma, equivalente al modulo, alla distanza tra elementi attigui.

Questo riferimento culturale appare spesso nel libro. L’autore di questo capitolo apprezza, alla stessa maniera di Aris, la passione per l’ideale di bellezza della casa giapponese e la sua preferenza per i registi nipponici, principalmente Ozu.

Afferma che i vuoti presenti nel cinema di Ozu sono tra gli stilemi più inquietanti e politicamente stimolanti che il cinema abbia mai inventato. Il loro ruolo nel flusso dei film è stato attribuito a quello delle pietre che si staccano dal fondo di ghiaia dei giardini zen. Questo è il compito principale che compete al vuoto: mantenere la separazione tra gli elementi mettendo in evidenza il campo delle relazioni.

Così procede, in linea di massima, tutta ‘arte moderna di matrice astratta.

Ricordando Dieste: <L’architettura è la musica dello spazio>. Essa, secondo lui, sarebbe un ritmo, una modellazione che ci permette di distinguere l’ordine dello spazio.

Analogamente, inventando i termini, <la musica è l’architettura del tempo>. In questo senso, la musica può attribuire estensione e consistenza corporea al tempo.

Per esistere, in ogni caso, musica e architettura devono stagliarsi dal fondo del Silenzio e del vuoto.

 

Capitolo 5Granai della memoria

Da sempre l’uomo lascia traccia della sua presenza sulla terra agendo sulla natura .L’ambiente si riempie di artefatti che finiscono per appartenere al paesaggio come sua ulteriore componente.

Questo dialogo tra uomo e natura (paesaggio antropizzato) in pochi luoghi del pianeta si manifesta come in Galizia. Il diffondersi degli insediamenti umani non è equivalente ad una profanazione della natura, bensì a un’esaltazione della sua sacralità.

La Galizia atlantica ,dove abbondano marine, estuari, viticolture(elementi geografici che si fondono tra loro) ci sorprende con episodi di dimensioni eroiche. Nonostante non sembrerebbe necessaria la presenza del vano, ne constatiamo comunque l’intervento, come nella costa di Fisterra, detta della morte.

La cultura popolare contadina offre, in Galizia, numerose tracce di come l’intervento individuale sul territorio possa esprimere il senso della collettività.

La laboriosità anonima di molti ha forgiato la forma dei villaggi e dei campi.

Uno degli elementi del mondo rurale della Galizia è l’Horreo (magazzino del grano), il quale non identifica solo la casa o le proprietà. Svolge il ruolo di complesso simbolico perché è in grado di stabilire una mediazione tra i problemi della sopravvivenza e ciò che rimanda ad una concezione sacra del mondo.

Forse per questo la sua forma rimanda a quella di un sarcofago. Nonostante la funzionalità (conservazione degli elementi), finisce per evocare l’idea della trascendenza e della morte.

 

Capitolo 6Arne Jacobsen: elogio della prosa

L’autore ci vuole parlare dei sentimenti che prova riguardo al lavoro dell’architetto danese. Dal suo punto di vista c’è nella tecnica di Jacobsen qualcosa che trascende il pragmatismo positivista, la luce che bagna i suoi spazi e un invito a penetrare in un mondo raffinato ed austero, un mondo senza meandri e rifugi ma non privo di intimità e radicamento.

Le sue opere non vogliono impressionare, si dispongono sul terreno con naturalità, seguendo forme geometriche elementari.

Sembrano concepite senza sforzo, le tracce del lavoro sembrano cancellate. C’è leggerezza, mancanza di drammaticità. Uno dei suoi coetanei, Louis Kahn, ci permette una comparazione tra i due. Difatti, nonostante i punti in comune (importanza per la struttura, luce che definisce lo spazio architettonico), il clima generale delle loro opere è differente.

Per Kahn l’architettura si identifica con il monumento, con la memoria e con la durata materiale delle istituzioni che simboleggiano la cultura umana.

Per Jacobsen l’origine di ogni architettura è la casa: nel suo lavoro, la dimensione sociale è solo un’astensione dell’universo domestico.

In Kahn c’è un istinto di trascendenza tradotto nella solennità delle sue opere. Jacobsen orienta la sua ricerca sulla costruzione di scenari di vita quotidiana con strumenti formali. Kahn rappresenta la poesia, Jacobsen la prosa.

Mettendo a confronto il regista Dreyer con lui, vediamo come i suoi interni sono sicuri solo in apparenza. Gli spazi sicuri di Jacobsen, qui, si trasformano in densità e in cerimonia, minati da forze distruttrici. Come con Kahn, c’è una contrapposizione di pensiero. Dreyer rappresenta la trascendenza, gravità e introversione. Jacobsen tende ad incarnare immanenza e leggerezza. Ciò non vuol dire che il suo lavoro sia poco serio, ma che cerca solamente il lato apollineo ed equilibrato della realtà. Come terzo elemento di confronto prende il regista Hawks. Egli si considerava un artigiano, non un’artista. Il suo lavoro si basava sulla raffinata conoscenza del proprio mestiere.

Jacobsen e Hawks sono simili da questo punto di vista. Alcuni tratti del cinema del regista sono in comune tra i due: dinamismo, freschezza, facilità, evidenza. Non c’è eccesso retorico. La grande stima per Jacobsen consiste nella rivendicazione d una dimensione artistica che significhi intelligenza e abilità: un’arte basata sulle regole del mestiere.