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autore |
YONA FRIEDMAN |
titolo |
L’ARCHITETTURA DI SOPRAVVIVENZA |
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editore |
BOLLATI BORINGHIERI |
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luogo |
PARIGI |
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anno |
1978 |
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lingua |
ITALIANO |
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Prima edizione |
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Argomento e tematiche affrontate |
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A chi spetta il diritto di decidere in materia di architettura? Come
assicurare questo diritto alle persone cui esso spetta? Come farlo in un mondo
che va verso una povertà crescente? Come sopravvivere in tale mondo? Sono
queste le domande a cui Yona Friedman cerca di
rispondere nel presente libro, che non vuole lanciare l'ennesimo attacco
all'architettura moderna, ma tentare di proporre soluzioni che rispettino le
condizioni di sopravvivenza della specie umana. Di fronte agli attuali
problemi di impoverimento e di esaurimento delle risorse diventa
indispensabile un'architettura "povera" che riscopra i valori
naturali e le tecniche compatibili con un modo di vita più sobrio. Risponde a
queste esigenze l'architettura di sopravvivenza. Essa, a differenza
dell'architettura classica che mira a cambiare il mondo per renderlo
favorevole all'uomo, cerca di limitare le trasformazioni, conservando solo
quelle necessarie a migliorare e rendere abitabili gli ecosistemi esistenti.
In altre parole, l'architettura classica trasforma le cose per adeguarle
all'uso umano, mentre l'architettura di sopravvivenza prova a modificare il
modo in cui l'uomo si serve delle cose. |
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Giudizio Complessivo: 7 |
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Scheda
compilata da: Alessandro Di Trani |
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Corso
di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013 |
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Autore |
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Yona Friedman (Budapest 1923) architetto e teorico
dell’architettura mobile si forma in Ungheria, assistendo ad alcune
importanti conferenze di Werner Heisenberg
e Károly Kerényi. Dopo la
guerra, che lo vede attivo nella resistenza antinazista, si trasferisce e
lavora per circa un decennio a Haifa, in Israele. Dal 1957 vive a Parigi. Ha
insegnato in numerose università americane e collaborato con l’Onu e
l’Unesco. La sua intensa attività saggistica spazia dall’architettura alla
fisica, dalla sociologia alla matematica. Negli ultimi anni l’opera di
Friedman è stata rivalutata dal mondo dell’arte contemporanea ed è stato
invitato alla undicesima Documenta di Kassel e a diverse Biennali di Arti
visive di Venezia. Fra i suoi libri ricordiamo Utopie realizzabili (Quodlibet, Macerata 2003); L’architettura di
sopravvivenza. Una filosofia
della povertà (Bollati Boringhieri, Torino 2009), il volume Yona Friedman a
cura di Luca Cerizza e Anna Daneri (Charta, Milano 2009) e Yona Friedman. L’ordine
complicato (Quodlibet
Abitare, 2011). |
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Yona Friedman |
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Contenuto |
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“L’architettura di
sopravvivenza è allo stesso tempo una tecnica, una filosofia e forse uno
stile, la cui principale qualità è di essere popolare perché non è altro che
la creazione dell’uomo qualunque – per il quale rappresenta lo strumento
stesso della propria sopravvivenza”. Il testo raccoglie i
contenuti delle ricerche svolte da Yona Friedman
riguardo all’importanza dell’autopianificazione,
proprio in funzione della necessità di uno sviluppo dell’architettura di
sopravvivenza. Per comprendere il
bisogno di un’architettura di sopravvivenza occorre, prima di tutto,
accettare la condizione di povertà che progressivamente coinvolge il mondo in
cui viviamo. In questi termini la
questione può sembrare allarmista, ma è innegabile che gran parte delle
risorse di cui ci serviamo sono deteriorabili e non rinnovabili. La condizione di
povertà costringe l’uomo abitante dei paesi ricchi a ricalibrare l’ordine
delle proprie necessità, eliminando il superfluo e concentrandosi sullo
stretto indispensabile alla propria sopravvivenza, che l’autore individua, in
una sintesi esemplificativa, negli elementi del tetto e del cibo. L’attuale habitat dei
paesi industrializzati è diviso in zone ad alta densità, in cui vivono
persone che producono oggetti e servizi, e zone poco popolate dove si produce
cibo destinato ad altri consumatori. Questo modo di organizzarsi genera delle
forti disuguaglianze, in quanto vincola il reperimento del cibo ad un sistema
di trasporto e stoccaggio che diventa molto costoso. Tale processo porta con sè due conseguenze importanti: da un lato vincola i paesi
cosiddetti ricchi a rivolgersi ad altri, dall’altro non riesce a soddisfare
il fabbisogno mondiale. Fondamentale quindi per
la sopravvivenza è il rendersi autonomi, che restringendo il campo ad
un discorso strettamente architettonico vuol dire praticare l’autopianificazione. Quest’ipotesi
rivoluziona il ruolo dell’architetto, così come siamo abituati ad intenderlo,
al quale invece spetterebbe il compito di insegnare all’uomo comune il
metodo per poter pianificare da solo gli spazi di cui si serve, riuscendo a
distinguere ed a difendere il suo interesse personale senza arrecare danno
agli altri, successivamente l’architetto dovrà coordinare i singoli progetti,
salvaguardando gli interessi comuni e prestando attenzione ad una complessiva
omogeneità estetica. Nella pratica, un modo
per garantire l’unitarietà formale, pur nella eterogeneità dei singoli
progetti, può essere favorito dalla povertà della tecnica applicata, aspetto
facilmente riscontrabile, per esempio, nei centri storici delle città.
L’oggetto architettonico può essere scomposto nei suoi componenti principali,
che sono le fondazioni e la struttura (estensioni del terreno), a
partire dai quali, servendosi delle piastre orizzontali e degli schermi (architettura
mobile), si possono realizzare i progetti più diversi. Nell’architettura di
sopravvivenza questi principi dovrebbero essere applicati limitando le
trasformazioni del mondo al minimo indispensabile per l’adattamento dell’uomo
e non trasformando il mondo per renderlo più favorevole all’uomo, come
viceversa avviene nell’architettura classica. Questo significa inoltre saper
sfruttare diversamente e nel modo più conveniente possibile le risorse che la
natura di ogni specifico luogo ci mette a disposizione. Altro aspetto
fondamentale al quale l’autore si è dedicato, al fine di diffondere ed
applicare le tecniche per lo sviluppo dell’architettura di sopravvivenza, è
stato lo studio delle modalità comunicative più adeguate. I manuali a fumetti
che Yona Friedman ha prodotto nel corso delle sue
ricerche sono un esempio significativo: essi, servendosi di illustrazioni
semplici, sono un compendio delle conoscenze minime necessarie per insegnare
l’autopianificazione a qualsiasi tipo di pubblico. L’autore ha potuto
constatare come, a volte, l’organizzazione spontanea di tipo socio-economico
delle bidonville (che avviene solo nel momento in cui gli abitanti smettono
di credere alle promesse dei governi ufficiali), è l’esempio che più si
avvicina all’architettura di sopravvivenza, per due motivi principali: in
primo luogo l’asseto sociale auto-organizzato; in secondo luogo, gli abitanti
fondano la propria sopravvivenza attraverso il baratto, sulla produzione e
scambio dei beni che direttamente garantiscono la loro sopravvivenza. Questo esempio porta di nuovo in luce uno dei principali messaggi
che l’autore vuole comunicare al proprio pubblico: “è meglio essere poveri e
indipendenti che ricchi dipendenti da altri” . |
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CAPITOLI |
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CAPITOLO 1 - L’architettura
decisa dall’abitante |
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In questo primo capitolo
l’autore comincia con una considerazione su un “ oggetto architettonico”
individuando infatti i due processi che esso racchiude: quella della sua
realizzazione e quello del suo utilizzo. Questi due processi conferiscono
quindi un ruolo fondamentale a due protagonisti che chiamiamo appunto
architetto e abitante. Ci si interroga quindi sulla ragione dell’ “oggetto
architettonico”, su chi deve avere la priorità tra i due protagonisti e se i
due ruoli potrebbero essere svolti dalla stessa persona. Appaiono evidenti le
risposte che la ragione di un oggetto architettonico è quella di soddisfare
l’abitante, altrettanto evidente che l’abitante deve avere la priorità sul
costruttore e che quindi è possibile pensare che la stessa persona possa
assumere entrambi i ruoli. Purtroppo ci si trova in una situazione assurda in
cui nella pratica succede l’esatto contrario. La causa fondamentale di questa
situazione è dovuta e causata dall’impossibilità o dall’estrema difficoltà di
comunicazione perchè il futuro abitante sa cosa
vorrebbe dire ma non sa come dirlo e l’architetto ignora cosa voglia dire il
suo interlocutore. Per ristabilire questa comunicazione e far si che
l’abitante possa “fare il piano” della sua casa l’autore propone alcuni
semplici metodi e l’esistenza di un manuale che possa portare all’autopianificazione così che l’abitante una volta
assimilati i metodi, che lo aiuteranno a progettare la propria abitazione
diventerà il proprio architetto e dunque auto pianificatore. |
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CAPITOLO 2 - I
nuovi ruoli dell’abitante e dell’architetto |
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Nel primo capitolo si è visto
come il rapporto tra architetto e abitante stia cambiando per l’impossibilità
di comunicare e che quindi l’abitante, “abbandonato” dall’architetto diventa
quindi autopianificatore. L’autopianificazione
si basa quindi sulla conoscenza di un linguaggio che permetterà all’utente di
un edificio di individuare le proprietà secondo il proprio progetto di vita e
secondo il modo che intende avere di vivere. E’ proprio questo linguaggio che
sta alla base di un dialogo tra l’abitante e la casa ed è necessario per l’autopianificazione. E’ un linguaggio che si parla ma di
questo non esistono ne un vero vocabolario ne una vera grammatica. Diventa quindi una della nuove funzioni
dell’architetto quella di scrivere ed insegnare questa grammatica; con il
quale l’abitante dunque dopo averla imparata potrà prendere le giuste
decisioni. Per l’architetto quindi oltre
alla funzione di “insegnate” esiste anche quella di “consigliare su
appuntamento” in cui appunto il consulente non agisce al posto del cliente
che può consultare o meno questi “insegnanti” e prendere delle decisioni in
base a ciò che gli è stato consigliato. La caratteristica principale di
questa funzione è quindi il suo aspetto facoltativo. Dunque in sintesi l’atto dell’autopianificazione
per il singolo abitante non consiste nel semplice fatto di poter fare il
piano della propria casa ma nel comprendere il quello che fa facendo il piano
della propria casa. |
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CAPITOLO 3 - La
scoperta della povertà |
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Questo capitolo si concentra
fin dall’inizio sul concetto di povertà, di cui Yona
Friedman fa alcuni esempi per ogni epoca diversa e che lo porterà a scrivere
che la povertà deve essere scoperta concretamente e riscoperta periodicamente
dal momento in cui essa non si manifesta sempre allo stesso modo nelle varie
epoche e quindi si potrà parlare di “nuova povertà”. Si dovrà quindi parlare
anche di “nuovo povero” cioè colui che nell’epoca moderna non possiede altro
che denaro e non ne ha abbastanza per procurarsi le cose (alloggio, cibo) in
quantità sufficiente a soddisfare le norme dell’epoca. E’ a questo punto che
l’autopianificazione diventa necessaria, non solo
per difficoltà di comunicazione, ma anche per ragioni economiche. Questa
condizione di povertà porta l’uomo però ad individuare degli elementi
indispensabili: l’acqua e il cibo i quali diventano i due elementi base
dell’architettura di sopravvivenza. Per far fronte a questa povertà l’autore
propone alcune possibili soluzioni che però non fanno altro che evidenziare e
dimostrare l’indissociabilità dei due elementi
base. Tutti questi ragionamenti che hanno condotto l’autore ad affrontare
questo tema si basano su due fattori fondamentali; il primo è i fatto che le
nostre risorse principali esistono solo in quantità limitate e secondo (già
mostrato nei precedenti capitoli) è l’impossibilità di comunicazione a
livello mondiale. Ed è proprio a causa di questi che in futuro l’unico modo
per sopravvivere potrebbe proprio essere imparare ad essere poveri. |
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CAPITOLO 4 - L’architettura di sopravvivenza |
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Alla base dell’architettura di
sopravvivenza sta quindi l’habitat umano e quindi un architettura puo essere considerata di sopravvivenza se non rende
difficili tutti i fattori principali dell’essere umano (la produzione di
cibo, l’approvvigionamento di acqua, la protezione climatica e anche l’organizzazione sociale). Con
habitat l’autore dunque vuole intendere l’insieme di funzioni ambientali che
sono indirettamente o direttamente necessarie alla sopravvivenza dell’uomo
(presenza di atmosfera, acqua, cibo, gravità, un supporto solido ecc); ed è
appunto in base alla presenza o meno di questi fattori che l’uomo applicando
l’architettura di sopravvivenza riesce a produrre ecosistemi artificiali o
migliorare e rendere abitabili quelli esistenti; infatti bisognerebbe abitare
un ecosistema senza distruggerlo ma piuttosto limitare gli interventi al suo
interno. L’architettura di
sopravvivenza consiste infatti nel cercare di limitare le trasformazioni,
conservando solo le piu necessarie perchè l’uomo sia in grado di sopravvivere in condizioni
sufficientemente favorevoli ed è
dunque la ricerca di un architettura di vita che riduca la dipendenza di un
individuo dagli altri (comportamento che è stato messo in pratica dalle persone
povere ben prima che venisse analizzato) tutto cio perchè essa è caratterizzata piu
da uno specifico comportamento egli abitanti che da mezzi tecnici. |
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CAPITOLO 5 - La
città povera |
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L’autore individua nelle
“bidonville” come i “laboratori del futuro” per un mondo che va verso una
povertà generalizzata ed è proprio perchè gli
abitanti delle bidonville si devono confrontare con i problemi della
sopravvivenza e dispongono solo di un ventaglio limitato per sostentarsi che
fa di esse un prototipo. Per l’autore infatti le bidonville sono cio che si avvicina di piu
all’architettura di sopravvivenza per due motivi fondamentali: il primo
l’assetto sociale auto-organizzato non supera mai quello che l’autore
definisce gruppo critico, ovvero il giusto numero di persone che garantisce
una corretta comunicazione reciproca ovvero il mezzo indispensabile per una
rapida ed efficace operatività del gruppo e il secondo il fatto che tali
abitanti fondano la loro sopravvivenza sul baratto, sulla produzione e sullo
scambio di beni che garantiscono loro la sopravvivenza e non piu quindi sulla produzione di denaro. |
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CAPITOLO 6 - Che fare? |
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Quasi alla fine di questo
libro l’autore sente il bisogno di parlare di quanto si può realmente fare di
fronte alle situazioni che ha analizzato nei capitoli precedenti. Il primo
passo da affrontare è la diffusione dell’informazione che secondo lui deve
avvenire non in modo troppo didattico, attraverso un linguaggio semplice e soprattutto veicolata da un supporto
semplice ed economico tutti elementi che si riscontrano secondo l’autore
nell’utilizzo di manifesti. Il secondo passo fondamentale per la tecnica di
sopravvivenza richiede una mescolanza di due tipi di comportamento
fondamentali : l’adattamento dell’organismo all’ambiente e l’adattamento
dell’ambiente all’organismo. in virtù di essi potremmo seguire semplici
schemi come ad esempio il continuare a comportarsi come abbiamo sempre fatto
preparando l’adattamento dell’uomo al potenziale impoverimento del pianeta.
Un terzo precetto importante per preparare l’architettura di sopravvivenza è
l’accettazione del fatto che il futuro non è prevedibile; accettare
l’imprevisto significa quindi dare prova di umiltà e pragmatismo. |
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CAPITOLO 7 - Sarà bello? - Conclusione |
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Per concludere questo libro
l’autore prova a riconsiderare questa sua nuova architettura di sopravvivenza
con gli occhi di un critico di architettura. l’architettura di sopravvivenza
quindi dice è allo stesso tempo una tecnica, una filosofia e forse uno stile,
la cui principale qualità è quella di essere popolare perchè
non è altro che l’invenzione dell’uomo qualunque per il quale rappresenta lo
strumento stesso della sopravvivenza. Ne individua due caratteristiche
fondamentali: la prima è che questa tecnica deve essere alla portata di
tutti; la seconda, che deriva dalla prima, è che l’architettura di
sopravvivenza implica delle tecniche che richiedono un’attrezzatura molto
rudimentale e ben pochi esecutori.
L’architettura della sopravvivenza è dunque legata alla povertà:
questa povertà non è necessariamente dovuta alla mancanza di denaro ma deriva
piuttosto dalla penuria di una risorsa essenziale. Quest’architettura non
lascerà monumenti grandi e duraturi alla storia dell’architettura ma saprà
soddisfare gli abitanti. L’architettura di
sopravvivenza non è da considerarsi quindi un nuovo stile ma piuttosto la si
può considerare come un “protostile” nella misura
in cui essa rappresenta un nuovo atteggiamento nei confronti dell’abitante,
della professione dell’architetto e dell’oggetto architettonico. |