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autore |
ADRIAN FORTY |
titolo |
PAROLE E EDIFICI. UN VOCABOLARIO PER L’ARCHITETTURA |
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editore |
PENDRAGON |
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luogo |
BOLOGNA |
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anno |
2004 |
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lingua |
ITALIANO |
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Prima edizione: Londra, 2000 |
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Argomento e tematiche affrontate |
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Come ben sintetizzato dal titolo, questo testo si occupa
del rapporto che intercorre tra l’architettura e il linguaggio. Quest’ultimo è
il principale mezzo con il quale le persone si relazionano, e l’architettura
non può considerarsi un argomento estraneo ad esso; eppure questo rapporto
non è mai stato affrontato approfonditamente ed in maniera adeguata, ed è
proprio questo l’obiettivo che si pone Adrian Forty nel suo saggio. L’assunto fondamentale per comprendere il nocciolo della
questione è che non è possibile considerare il linguaggio verbale come un
semplice accessorio, ma un sistema a sé stante che va posto sullo stesso piano
dell’architettura stessa intesa nel suo significificato più generale. Se le tendenze del passato tendevano ad identificare
l’architettura soprattutto come un’attività mentale, o con l’invenzione
creativa, questo libro mira ad una concezione più ampia che rivaluti ogni
processo su cui l’architettura si fonda, a partire proprio dal sistema della
parola. In quanto sistema infatti il fenomeno linguistico tema
di questo libro è il costante flusso tra le parole e i significati, la
ricerca di significati e i significati che sfuggono alle parole stesse. Tutto
ciò viene principalmente affrontato da due particolari punti di vista: in
termini storici e come fenomeno in atto tra un linguaggio ed un altro.
Risulta infatti semplice intuire come i nostri problemi principali siano
quello di recuperare i significati delle parole cosi come le intendevano dire
coloro che le usavano, e quello del rapporto che intercorre tra linguaggi
differenti, in quanto è evidente che potendo parlare una sola lingua alla
volta le parole assumono necessariamente il significato della lingua in cui
sono pronunciate. In particolare è importante considerare l’attribuzione
di un significato specifico ad una parola come un processo di accumulo, nel
corso del quale nuovi significati e flessioni si aggiungono a quelli
precedente, senza per forza sostituirli. Trovare e conoscere il significato di una parola in
qualsiasi momento, e quando la si pronuncia,è dunque fondamentale, e permette
di sfruttarne tutte le sue potenzialità espressive. |
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Giudizio
Complessivo: 7 (scala 1-10) |
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Scheda compilata da: Giovanni Zanaboni |
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Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2
a.a.2012/2013 |
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Autore |
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Adrian Forty è docente di Storia dell’Architettura presso la Barlett School of Architecture a Londra. Laureatosi ad
Oxford nel 1969 In Storia, ha proseguito i suoi studi laureandosi nel 1971 in
Storia dell’Arte al Courtauld Institute
e conseguendo il Dottorato in Filisofia a UCL di
Londra nel 1989. Le sue prime
ricerche riguardano il rapporto tra i manufatti, sia architettonici che a scala
ridotta, e le persone che li vivono e ne usufruiscono, di quanto questo
rapporto sia fortemente complesso, ma in realtà quasi ignorato nella pratica
dell’insegnamento dei mestieri di Architetto e Designer. Queste ricerche lo
portano alla pubblicazione del suo primo testo “Objects of Desire” nel 1986,
nel quale affronta queste tematiche in rapporto ai beni di consumo. Successivamente le
sue ricerche si spostano verso il modo in l’architettura viene comunicata
attraverso il linguaggio e pubblica nel 2000 il testo “Parole e Edifici” La sua ultima
pubblicazione dal titolo “Concrete and Memory” del 2005 affronta invece il
tema dei materiali, il cemento in particolare,e la diffusa (ed erronea)
convinzione che i materiali abbiano un ruolo unico e proprietà determinanti
per la definizione di principi architettonici assoluti. |
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Adrian Forty |
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Contenuto |
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Questo libro è
diviso in due parti. La prima parte è una ricerca sul linguaggio, scritto e parlato,
dell’architettura moderna. Essa tratta alcuni compiti generali che il
linguaggio svolge in architettura, i processi del linguaggio in relazione
all’architettura e la formazione delle metafore. S’interroga su quale
linguaggio sia dato e utilizzato dall’architettura e dove il linguaggio
l’abbandoni, sui suoi limiti e sulle potenzialità invece ancora inespresse. La seconda parte è presentata invece sotto forma di
vocabolario, è un dizionario storico e critico delle parole che costituiscono
il nucleo del vocabolario della critica modernista in ambito architettonico.
Essa ci dice come le parole siano sempre inadeguate a esprimere significati e
come i significati sfuggano le parole alla ricerca di nuove metafore, |
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CAPITOLI |
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Capitolo 1 – Il linguaggio del modernismo |
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L’avvento di quella che è stata definita l’architettura
moderna ha portato con sé, oltre che nuovi stili costruttivi, anche un nuovo
modo per parlare di architettura. Quando usiamo termini come spazio, forma,
design,ordine o struttura stiamo usando termini tipici del periodo
modernista, e disturbare uno di questi termini comporta il disturbarli tutti
in quanto parte di un sistema generale. Questo primo capitolo si occupa del
rapporto contrastato tra linguaggio e modernismo, in particolare del sospetto
del movimento nei confronti del linguaggio e della tendenza a negargli un
ruolo nella pratica che si vuole discutere, nonostante oggi sia evidente di
come il linguaggio sviluppatosi in quel periodo sia di fatto uno degli aspetti
più duraturi del modernismo e che più abbia influenzato il dibattito
architettonico successivo. Questo “orrore” per il linguaggio è principalmente dovuto
secondo Forty alla trasformazione della critica
avvenuta ad inizio del XX secolo in seguito alla rivoluzione in estetica
operata da Kant nella sua “Critica del giudizio”, che spostò l’attenzione
dall’oggetto al soggetto che vive l’esperienza dell’arte, un’esperienza che
dovrebbe escludere ogni forma di conoscenza a priori ma essere legata
esclusivamente all’impressione visiva. Il linguaggio critico cominciò quindi
ad occuparsi del significato ultimo delle cose, della loro idea più profonda,
mettendo a rischio la presunta superiorità delle arti che volevano dimostrare
la propria unicità esclusivamente attraverso il proprio mezzo espressivo, e
naturalmente l’architettura era tra queste. E’ però proprio in questo contesto che trova spazio e
legittimazione il linguaggio della critica modernista, il quale attua un’epurazione delle metafore del
vocabolario critico classico, sviluppando una serie di astrazioni e denotando
una marcata tendenza generale a rendere astratto ciò che è concreto. Il più
chiaro e autorevole esempio di questa tendenza ci viene dato dal critico
inglese Colin Rowe, il quale nei suoi saggi assegna
al linguaggio una specifica e limitata area di competenza posta tra “il
vedere e il capire”, occupandosi della tensione creata da un’opera
architettonica tra l’esperienza dei sensi e quella dell’intelletto, fra ciò
che l’uomo vede con i suoi occhi e la conoscenza della mente, ottenuta
mediante l’analisi di piante e sezioni che Rowe da
per scontato siano già fisse nella mente del lettore. |
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Capitolo 2 – Linguaggio e disegno |
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Oggetto del secondo capitolo è il rapporto che intercorre
tra linguaggio e disegno nei confronti dell’architettura, interrogandosi in
quali aspetti il secondo è effettivamente superiore e più efficace del primo.
Il disegno è sicuramente considerato in epoca moderna il principale mezzo di
comunicazione da parte degli architetti, anche se in passato non fu sempre
così. Prima del XV e XVI secolo infatti, il ruolo del disegno fu nettamente
minore, se non nullo; solo con l’avvento del Rinascimento Italiano e
l’invenzione della prospettiva,i disegni divennero un aspetto significativo
della produzione degli edifici. Questo avvenne anche come conseguenza del
passaggio di responsabilità di una parte della costruzione di alcuni edifici
a persone che non esercitavano mestieri edilizi ed erano invece istruiti
nelle arti visive della pittura e della scultura, dando all’architettura lo
status di lavoro intellettuale e garantendo agli architetti di mantenere il
controllo assoluto ed esclusivo su quella parte del processo edilizio
costituita dal disegno. Nonostante tutto, come si evince dalle parole di Le Corbusier influenzate dal pensiero neoplatonico, gli
architetti rimasero piuttosto cauti nei confronti del disegno, in quanto se
effettivamente esso ha il compito di trasportare l’idea dalla mente
dell’architetto all’edificio creato, d’altro canto esso soffre degli
svantaggi di essere sempre ritenuto inferiore all’idea, e dunque, di
degradarla. Contemporaneamente si sviluppò una visione del disegno non come
realtà degradata delle cose, ma come realtà eguali; Forty
si chiede quindi perché possiamo pensare il disegno in questi termini ma non
possiamo fare altrettanto con il linguaggio? A questo proposito sono
analizzati 5 punti di divergenza tra linguaggio e disegno: -i disegni ambiscono alla precisione e alla certezza. Al
contrario il linguaggio lascia quel senso di potenziale ambiguità che è alla
base del significato, permettendo agli architetti di occuparsi di qualsiasi
cosa, anche la più difficile; -il linguaggio al contrario del disegno è basato sulle
differenze. Parlare di qualcosa usando certi termini implica necessariamente
escluderne altri, per un processo che lavora sul principio degli opposti,
cosa che il disegno non può fare, invocando in primo luogo solamente ciò che
esso stesso rappresenta; -la suddivisione tra linguaggio dell’oggetto e
metalinguaggio, che permette al linguaggio di essere al contempo ambiguo e
preciso, viene meno nel disegno, che mira invece ad aderire al “linguaggio
dell’oggetto” e a limitare i “significati addizionali mutati”; -l’essenza del linguaggio di essere concepito come una
sequenza lineare. Se il disegno si presenta agli occhi immediatamente nella
sua interezza, l’esperienza dello spazio vissuta attraverso il tempo
assomiglia certamente alla sequenza delle parole legate in un discorso; -la presunta chiarezza dei disegni nei confronti del
linguaggio. Il disegno comporta in realtà una dose di astrazione e finzione
(basti pensare alle proiezioni sia ortogonali che prospettiche) assente nella
pratica del linguaggio, che permette invece di agire direttamente sulla
mente, e alle percezioni di esistere all’interno di essa. |
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F.O.Ghery, schizzo
per la Weatherhead School of Management. Lo schizzo è la tecnica del disegno che più si avvicina al linguaggio. |
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Capitolo 3 – Sulla differenza: maschile e femminile |
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Come già detto il linguaggio è di per sé un sistema di
differenze e le descrive in modo più efficace di quanto non lo facciano
disegni e fotografie. Gran parte del vocabolario critico si occupa della
scelta di metafore e strutture par articolare il pensiero e l’esperienza. Il
primo esempio di schema organizzato su opposizioni linguistiche è quello
presentato da Sebastiano Serlio nel Libro VII del
suo trattato, che, oltre a fornirci un modello del ruolo del linguaggio in
architettura come strumento che distingue tra “questo” e “non questo”,
stupisce per la mancanza della metafora riguardo al genere, vale a dire la
distinzione tra maschio e femmina. Il terzo capitolo si occupa principalmente
di analizzare il percorso di questa particolare coppia di opposti nel corso
del processo storico, a partire dagli ordini greci dorico, ionico e corinzio,
passando gli slanci del gotico, arrivando alla sua improvvisa decadenza e
scomparsa nel periodo modernista. Due forono le ragioni più
probabili di questo fatto: l’appartenenza dei termini maschile e femminile ad
un vocabolario critico condiviso, e quindi non in grado di descrivere le
specificità architettoniche, e l’esplicito orientamento maschile della
metafora, da sempre utilizzata esaltando la “mascolinità” di un’opera considerando negativo invece ogni aspetto
“femminile”, in un periodo caratterizzato dalla presenza di regimi totalitari
in Europa che facevano degli aspetti della mascolinità i propri punti di
forza. L’assenza di tale metafora non significa però che questa
distinzione abbia cessato di esistere del tutto, essa è infatti riscontrabile
in parte in alcune teoria sulla forma, e sarebbe falso negare che le
differenze tra uomo e donna forniscono agli architetti un sistema
preesistente di distinzioni. Risulta infine chiaro come nel vocabolario critico
dell’architettura classica sia presente una marcata polarità binaria, che
fatichiamo a trovare per i termini preferiti dal modernismo, quali forma,
spazio, ordine, presentati generalmente come degli assoluti che implicano il
loro altro, contribuendo notevolmente all’impenetrabilità del linguaggio
moderno. |
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Capitolo 4 – Metafore linguistiche |
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Il quarto capitolo si occupa di quelle metafore usate in
architettura nell’atto di leggere un progetto e derivate dal linguaggio. Esse
vengono presentate cronologicamente attraverso sei categorie generali: -Contro l’invenzione. Qui le metafore si rifacevano al
linguaggio per opporsi all’invenzione e all’innovazione, in un atteggiamento
conservativo nei confronti di ogni tipo di cambiamento. Questo atteggiamento
comparso per la prima volta nel XVII secolo, ritornò regolarmente nei tre
secoli successivi, fino al modernismo, la cui raison
d’etre sta nell’innovazione, per poi ricomparire
nelle tendenze conservatrici postmoderniste degli anni ’80 del XX secolo. -Ciò che rende l’architettura un’arte. Queste metafore
derivano dal bisogno del XVII e XVII di affermare l’architettura come arte
liberale e non meccanica, mostrando come l’architettura era conforme alla
concezione oraziana di poesia basata sulla corretta disposizione delle parti,
e sulla consapevolezza del “potere delle parole usate nei luoghi giusti ai
momenti giusti”. -Le origini storiche dell’architettura. Oggetto di queste
metafore è la ricerca della risposta alla domanda sulle origini
dell’architettura. Fu Quatremère de Quincy sul finire
del XVIII secolo a sostenere che l’architettura non ebbe origine in nessun
luogo ma, in modo simile al linguaggio, fu sempre un’evoluzione delle
attività umane. In seguito fu Goffred Semper ad arricchire questa teoria dell’aspetto
analogico, scrivendo nel 1860 in introduzione a “Der
Stil” che
“l’arte possiede il suo particolare linguaggio, che risiede nelle tipologie
formali e nei simboli che si trasformano nei modi più svariati”, scoraggiando
definitivamente la pretesa classica di essere il punto d’arrivo
dell’espressione architettonica. -L’architettura come mezzo di comunicazione. Queste
metafore hanno come obiettivo la discussione della semantica
dell’architettura. L’architettura come testo ha alle spalle l’idea che le
opere architettoniche possano essere “lette” proprio come le opere
letterarie, per Morris ad esempio ogni arte vivente
doveva abbellire una superficie e raccontare una storia. Complementare a
questa teoria è quella che l’architettura abbia le stesse proprietà del
linguaggio vernacolare compreso ai più. -Analogie con la grammatica. Nel 1802 l’architetto Durand cercò di dimostrare che, così come la grammatica,
l’architettura era un’arte che poteva essere facilmente e rapidamente
insegnata. Queste teorie furono largamente riprese e riutilizzate nel corso
del XIX e XX secolo, nonostante la principale critica mossa a tale analogia
riguarda il non irrilevante problema dell’apprendimento dei principi
dell’architettura: se fare architettura è semplice come imparare una grammatica,
allora chiunque potrebbe praticarla. -Applicazioni semiotiche e strutturali all’architettura.
Secondo la semiotica e lo strutturalismo il linguaggio non fornisce una
metafore dell’architettura, ma quest’ultima è essa stessa un linguaggio. La
semiotica è la scienza dei segni, , non è interessata a cosa le cose
significano, ma a come si forma il significato, per cui l’architettura ha
fornito ai semiologi un importante caso di applicazione di questo modello.
Aldo Rossi trasportò questo modello ad una scala urbana sostenendo che gli
edifici erano capaci di di infinite modifiche di
utilizzo e significato, pur rimanendo immutati nelle forme. Un ulteriore
sviluppo fu quello apportato da Eisenman in ottica
maggiormente strutturalista, anche se da lui stesso abbandonato poco dopo. |
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Capitolo 5 – “Meccaniche spaziali” - Metafore scientifiche |
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Il
quinto capitolo si occupa di indagare le condizioni che fanno si che alcune
metafore scientifiche abbiano successo e altre falliscano. Il primo gruppo di
metafore sul quale Forty si sofferma è quello
derivato dalla “circolazione”, termine convenzionalmente usato per descrivere
il movimento degli uomini dentro o intorno un edificio. Ripercorrendo la
storia dell’utilizzo di questo termine, chiaramente derivato dalla
fisiologia, ci si accorge di come non sia entrato nel lessico architettonico
fino alla metà del XIX secolo, utilizzato per le prime volte da Cèsar Daly e Viollet –le-Duc. Quest’ultimo
ne fa un uso interessante, legandolo al termine di funzione, sottolineando
così il grado in cui la circolazione poteva essere ritenuta un sistema a sé
stante, non riferito alla fisicità degli edifici ma alla possibilità di
circolare al suo interno. Edmund Husserl amplia e
conferisce ancora maggior importanza all’atto del movimento, sostenendo che è
proprio attraverso il senso di movimento presente nel soggetto immobile che
avviene la conoscenza dello spazio. Tuttavia questa metafora contiene un
errore di fondo: invita il lettore a pensare all’edificio come a un sistema sigillato,
autosufficiente, proprio come un corpo, quando in realtà non è affatto così,
e altre metafore (come la “respirazione”) parrebbero più fedeli a descrivere
il movimento umano negli edifici. Eppure questa metafora permette di parlare
di ciò che non è vero come se lo fosse, senza pericolo di entrare in
contraddizione, e ha avuto il merito di ricondurre l’architettura a un metodo
scientifico, due ragioni che bastano per giustificare il suo successo. Il
secondo gruppo di metafore di cui si occupa Forty deriva dalla meccanica fluida e statica. Le
ragioni per cui tali metafore, nonostante utilizzino termini tratti dalla più
materiale delle scienze per descrivere la spazialità architettonica, hanno
così successo è che queste metafore descrivono anche sentimenti e stati
emozionali dell’uomo, descrivendo non tanto le forze reali che agiscono
nell’edificio, ma il modo in cui l’architettura le comunica allo spettatore.
Nel 1950 Colin Rowe parla addirittura di meccanica
spaziale nella sua descrizione della cappella di La Tourette,
e, facendo largo uso di queste metafore, riesce a trasmettere al lettore una
rappresentazione più esaustiva che la sua visione. In
conclusione le metafore scientifiche devono il loro successo non tanto alla
loro “scientificità”, bensì al fatto che rafforzano determinati modi di
percepire l’architettura che possono essere radicati in desideri sociali o
psicologici. |
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Capitolo 6 – “Vivo o morto” – descrivere “il sociale” |
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Se prima dell’epoca modernista gli architetti e i critici non aspiravano
ad un’architettura sociale ma, al massimo fecero coincidere l’architettura
con l’incarnazione del lavoro e la libertà di coloro che avevano costruito
gli edifici costituiva il grado della loro qualità sociale, l’architettura
moderna si prefiggeva invece di realizzare e migliorare l’esistenza sociale
dell’umanità. Il sesto capitolo si occupa dunque di questo tentativo, e
dell’incapacità del vocabolario modernista di esprimersi in maniera chiara
quando fu chiamato a descrivere le qualità sociali cui mirava nei suoi
lavori. L’idea di base era che l’architettura poteva dare espressione
all’esistenza sociale collettiva e migliorare le condizioni della vita
sociale in maniera più significativa. Questo poneva due difficoltà: la prima
riguardo il modo in cui l’architettura dovesse rappresentare la società, e la
seconda si occupava di trovare un mezzo per includere l’uso all’interno
dell’estetica architettonica. L’inadeguatezza che questi architetti
riscontrarono nel vocabolario architettonico utilizzato sino ad allora fu
sicuramente un ostacolo a ciò che volevano realizzare. Forty prosegue quindi
analizzando i tentativi e i modi con cui gli architetti cercarono di di
esprimere il contenuto sociale dell’architettura nei vari Paesi europei nel
corso degli anni, passando dalla Germania degli anni ’20, al concetto di
realismo Italiano espresso da Quaroni e Ridolfi, per approdare infine ad
architetti più recenti come Herman Hertzberger, allievo del maestro Aldo van
Eyck. La teoria di Hertzbeger è particolarmente interessante: egli ha una
visione della natura sociale dell’architettura che paragona al modo in cui
l’umanità si distingue sulla base del suo uso del linguaggio, così essa si
adatta e conferisce significati agli spazi con una certa facilità. Come il
linguaggio, l’architettura non è qualcosa che possa essere controllato da
qualunque individuo, bensì essa è socialmente negoziabile, perciò in tali
circostanze gli architetti non possono far altro che creare opportunità per
un uso individuale e sociale dello spazio costruito, ma non determinarne il
risultato. L’intenzione di Hertzberger fu quella di dare al linguaggio
dell’architettura moderna un’inflessione sociale, creando un vocabolario più
carico di valori sociali. La conclusione di Forty in definitiva è che nel tentativo di descrivere
gli aspetti sociali dell’architettura il linguaggio abbandona l’architettura,
e in questo campo il punto di forza del linguaggio ( la creazione di
differenze) è in raltà molto limitato. |
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PARTE II - VOCABOLARIO |
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“Un vocabolario inizia quando
non da più il significato alle parole, ma alla loro funzione” – Geoges
Bataille, L’Informe, 1929 |
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Nella parte seconda Forty passa in rassegna i termini di quasi tutto il
vocabolario modernista, vengono qui sotto riportati i 5 ritenuti comunemente
la base della critica modernista: Spazio, Design, Ordine, Forma e Struttura. |
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Design – Il termine design entrò nel vocabolario modernista negli
anni ’30, avvalendosi di tutti i suoi significati precedenti, riassunte nelle
parole del Vasari (1568) come “null’altro che un’espressione visiva dell’idea
che si ha nell’intelletto”. Questo permise al modernismo di avere un termine
che fosse in grado di distinguere l’opera nella sua materialità e l’opera
architettonica come rappresentazione di un’idea sottostante. Il termine
design risulta quindi strettamente legato con la forma, poiché è proprio attraverso
l’attività del design che la forma si realizza e viene portata al mondo. Le
cause della diffusione del termine design furono molteplici, ma un’importante
fattore fu sicuramente il grado di ambiguità, l’intrinseca confusione tra
“espressione visiva di un concetto nell’intelletto” e il disegno. Non meno
importante è il legame che ha il design con le opposizioni binarie che esso
costituisce: il design crea un’opposizione tra un edificio e qualunque cosa
non sia materiale di architettura, compresa la costruzione. Di fatto è
proprio a questa seconda motivazione che dobbiamo la nascita del termine
design. Quando infatti l’architettura sentì il bisogno di essere considerata
un’attività intellettuale trovò nel termine design la condizione che gli
permise di riferirsi esclusivamente a
quella parte della produzione che era il puro risultato dell’attività
mentale. Con la separazione tra formazione e pratica avvenuta nei primi anni
del XX secolo, il design cessò di rappresentare un aspetto particolare
dell’architettura, e iniziò a essere considerato un’attività a sé stante,
pure e autosufficiente. Questo fece si che l’architettura venisse insegnata,
e non appresa attraverso l’esperienza. |
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Forma – Il termine forma è probabilmente il concetto più importante, ma anche il
più difficile dell’architettura di questo secolo. La forma è importante per
qualsiasi arte pratica, ma l’architettura gode di un particolare privilegio
riguardo alle questioni relative alla forma, in quanto conferisce un aspetto
fisico agli oggetti materiali e agli spazi che ci circondano. Proprio questa
proprietà però sta alla base dell’ambiguità intrinseca del termine forma.
Essa infatti posside da un lato il significato di “fattezza” e di “idea” o
“essenza” dall’altra: l’una descrive la proprietà delle cose cosi come si
presentano ai sensi, l’altra come si presentano alla mente. Forty passa in rassegna tutte le concezioni, le teorie,e
i significati assunti dal termine forma dal passato nel dibattito critico
filosofico, partendo da Platone e Aristotele, passando da Neoplatonismo e
rinascimento, fino a Kant, Goethe e l’idealismo, arrivando al formalismo e
infine approdando al Modernismo. Per quest’epoca il termine forma diventò
fondamentale per svariate ragioni: implica che la vera sostanza dell’architettura
si trova oltre al mondo sensibile, rapporta l’apparato mentale della
percezione estetica al mondo materiale, e infine offre agli architetti una
descrizione di quella parte del loro lavoro sulla quale essi esercitavano un
controllo esclusivo. Nessuno di questi rappresenta però il significato del
termine forma nel discorso modernista, che Forty ritrova invece in una serie
di opposizioni tra la forma e alcuni concetti, ad esempio contro
l’onamento, contro la cultura di
massa, contro il funzionalismo e il significato. Pare evidente dalla lettura di questa voce di quanto il
termine forma sia equivoco, e di come questa categoria non sia affatto
permanente o eterna nel discorso architettonico.Di fatto la forma è un
concetto che oggi è sopravvissuto alla sua utilità, fossilizato nella sua
concezione e che non trova più sviluppo. |
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Spazio - Sebbene lo spazio sia considerato la più
pura ed irriducibile essenza dell’architettura, quella in grado di differenziarla
da tutte le altre pratiche artistiche, il suo significato appare tutt’altro
che chiaro e definito, inoltre fino alla fine del XIX secolo parlare di
spazio non avrebbe avuto alcun senso, essendo un termine connesso con lo
sviluppo del modernismo. Molte delle ambiguità riguardo il termine spazio
derivano dalla propensione di confonderlo con una categoria filosofica
generica, ciò significa che lo spazio oltre ad essere una proprietà
dell’estensione è allo stesso tempo una proprietà della mente. Una cosa che
gli architetti possono manipolare e, allo stesso tempo, una costruzione
mentale attraverso la quale si conosce il mondo. La confusione riguardo il
termine spazio deriva principalmente da questa duplice concezione, e Forty dedica buona parte del capitolo muovendosi tra le
varie concezioni filosofiche che costituirono le precondizioni dello spazio
modernista, essendo comprovato che il discorso sullo spazio si sviluppa
dapprima in estetica e poi in architettura. Gli
architetti dei primi anni ’20 furono fortemente condizionati dalla concezione
di Gottfried Semper per
cui il primo impulso dell’architettura è quello di circoscrivere lo spazio,
delimitandolo e, addirittura, creandolo. Fu Camillo Sitte
ad estendere successivamente il discorso sullo spazio anche allo spazio
esterno degli edifici, introducendo un tema che divenne fondamentale negli
anni ’20. Un’ulteriore visione venne invece fornita da Kant il quale nella
sua “Critica della ragion pura” definisce lo spazio come una proprietà della
mente, parte dell’apparato attraverso il quale la mente rende intellegibile
il mondo, esistente a priori nella nostra mente e a prescindere
dall’esperienza. Fu Hildebrand invece che affidò alle arti visive il compito
di ricostruire, attraverso un’unica immagine, lo spazio naturale all’interno
del quale esistevano gli oggetti, e il movimento del soggetto attraverso il
quale le forme di tali oggetti sono rivelate. Le teorie di Hildebrand
suggeriscono almeno tre delle idee di spazio che ebbero notevole importanza
nel periodo modernista: lo spazio come soggetto dell’arte, lo spazio come
continuum e, infine, lo spazio animato dall’interno. Schmarsow
fece un ulteriore passo, applicando la teoria della percezione degli oggetti
direttamente allo spazio, sostenendo che quest’ultimo esiste perché noi
possediamo un corpo, e il “costrutto spaziale” è un’emazione
dell’essere umano presente, una proiezione dall’interno del soggetto
indipendentemente dal fatto di essere posizionati fisicamente nello spazio o
ci proiettiamo mentalmente. Tutte
queste teorie trovarono in realtà poche applicazioni pratiche
nell’architettura costruita, anche se alcuni esempi dimostrano una
particolare attenzione per il dibattito attorno al termine spazio. Le
architetture di Berlage e Behrens,
o quelle del raumplan di Adolf Loos
si identificano come l’estensione delle teorie sullo spazio come
delimitazione, la Bauhaus e il movimento olandese De Stijl
si mossero verso lo spazio inteso come continuum e infine Moholy
–Nagy sposò le teorie di Schmarsow
sullo spazio come estensione immaginaria del corpo all’interno di un volume e
identificò il compito dell’architettura nel condurre l’umanità alla
consapevolezza della coscienza di spazio. Il
capitolo si conclude infine tra una comparazione su due indagini di natura
prettamente filosofica sul termine spazio di Lefebvre e Heidegger,
che, sebbene non riguardino espressamente l’architettura, ci fanno intendere
alcuni dei limiti delle nozioni architettoniche di spazio. |
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Struttura – Il
termine struttura in architettura ha avuto tre diversi utilizzi: 1. Qualunque
edificio nella sua interezza, 2. Il sistema di sostegno di un edificio,
distinto dagli altri suoi elementi, 3.Uno schema attraverso cui un progetto,
un edifico o una città diventa intellegibile. Il secondo e il terzo
significato sono in realtà profondamente legati, essendo il secondo
nient’altro che un caso particolare del terzo. Per uscire da questa ambiguità
bisogna ricordare che la struttura è una metafora, o meglio, rappresenta ben
due metafore differenti, presi da campi altrettanto differenti: dalla storia
naturale e dalla linguistica. 1-La
struttura come quell’elemento distinto del tutto connesso con i suoi mezzi di
sostegno. Il principale sostenitore e divulgatore di questa teoria fu il
francese Viollet-le-Duc,
il quale sosteneva che la struttura fosse la base di tutta l’architettura.
Questo concetto trovò terreno fertile soprattutto in Francia, dove Auguste Perret descrisse i grandi edifici del suo tempo formati
da “una struttura corporea, un’intelaiatura d’acciaio o in cemento, che sta
all’edificio come lo scheletro di un animale”. Viollet
fu colui che rese normale in architettura pensare la distinzione tra
struttura e l’apparenza esterna dell’opera architettonica. 2-“Struttura”
come mezzo grazie al quale le cose diventano intellegibili. All’inizio del XX
secolo la biologia cedette il posto alla linguistica, fornendo un nuovo
modello di struttura. Ciò che rendeva il linguaggio intellegibile non erano i
significati delle singole parole, ma il sistema in cui le parole erano usate.
Applicando questo modello alla struttura, quest’ultima cessa di essere una
proprietà degli oggetti, sebbene possa essere percepita attraverso di essi.
Questo nuovo significato linguistico di struttura offrì possibilità di analisi
completamente nuove: lo spazio, cosi come il linguaggio, non è una sostanza e
, quando considerato come spazio sociale piuttosto che spazio architettonico,
rappresenta una delle proprietà attraverso cui le società si costituiscono.
Per Barthes “l’attività strutturale è una
fabbricazione veritiera di un mondo che assomiglia alla realtà al fine, non
di copiarlo, ma di renderlo intellegibile”. |