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Descrizione: COPERTINA

autore

NICOLA EMERY

titolo

L’ARCHITETTURA DIFFICILE. Filosofia del costruire

editore

CHRISTIAN MARIANOTTI EDIZIONI

luogo

MILANO

anno

2007

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

 

 

Descrizione: COPERTINA

Argomento e tematiche affrontate

In questo testo Nicola Emery sviluppa il tema della responsabilità dell’architettura. Ritiene infatti che spesso essa si lasci influenzare dall’estetica e trascuri le esigenze dell’uomo e del paesaggio. La bellezza non può vivere separata dalla comunità che la abita. Egli perciò invita gli architetti a pensare alla loro funzione principale. Si ha l’impressione che l’architettura si esaurisca in un gioco di forme, che si svalutano rapidamente. La ricerca estetica, al contrario, dovrebbe andare di pari passo con l’organizzazione dello spazio, inteso come bene comune.

 Vale, in tal senso, la massima di Aristotele secondo il quale: “un profondo desiderio ci domina: vogliamo avere ancora delle città in cui vivere, non soltanto sicuri e sani, ma anche felici.”

 

Giudizio Complessivo: 7 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Agnese De Cagna

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

 

Descrizione: Nicola-Emery

Autore

Nicola Emery, nato a Lugano nel 1958 è docente di filosofia ed estetica dall’anno della sua fondazione all’Accademia di architettura di Mendrisio, Università della Svizzera italiana. Laureato in Filosofia all’Università di Venezia, ha conseguito successivamente il dottorato di ricerca in Filosofia a Roma. Ha svolto attività didattica presso l’Università di Venezia con Umberto Galimberti e successivamente è stato assistente di Massimo Cacciari. E’ autore dei libri Lo sguardo di Sisifo. G. Rensi e la via italiana alla filosofia della crisi (Milano 1997); L’eloquenza del nichilismo (Roma 2001); L'architettura difficile. Filosofia del costruire (Milano,2007); Progettare, costruire, curare. Per una deontologia dell' architettura (Bellinzona, 2007).

Nicola Emery

 

CAPITOLI

Capitolo 1 – L’architettura della legge: Platone

“Non sono leggi giuste le norme che non sono stabilite per tutta la comunità statale”. Platone è il primo autore che Emery analizza.  Agli occhi del filosofo la ricerca della novità è paradossale, appartiene invece all’essenza dell’arte la possibilità di non mutare. Le innovazioni sono ciò che è lontanissimo dal mantenersi uguale, non perfezionano alcuna legge.

Dal III libro delle Leggi, emerge ciò che è necessario per Platone, cioè l’abitazione comune. Occorrono   recinzioni e muri per delimitare i pascoli e costruire la casa comune. Solo in questo modo l’umanità fa fronte alla solitudine della terra immensa e abbandonata. Nello spazio domestico si fa possibile il confronto tra usi e costumi diversi.  Qui la dimensione inanimata dell’ambiente abitativo genera abitudini e modo di soggiornare che consente all’umanità di non sopprimere se stessa. L’organizzazione della terra e il progetto della città non è affatto un compito da affrontare unilateralmente. La costruzione del territorio, il controllo dell’edilizia, la sorveglianza dello spazio, rientra nella concezione platonica della politica.

Secondo Platone non bisognerebbe raffigurare in architettura tutto ciò che richiami il vizio, la bassezza, la volgarità in quanto la comunità finirebbe per crescere tra immagini viziose.

La dote del buon artista e dell’architetto sta nel saper seguire e ripetere, ripetendo infatti coglie l’essenza di ciò che è decoroso.

Ippodamo di Mileto, nel V secolo, elaborò uno tra i primi progetti tesi a sostituire un piano regolatore al tessuto della città antica. Egli affiancava la sua attività di urbanista ad una riflessione di tipo filosofico.

Vi è un legame tra politica e progettazione, sono uniti in uno sforzo di riflessione. Qualcosa di questo genere si può notare anche in Platone. Per mantenere l’ordine, agli stati occorreva eleggere tre tipi di magistrati: astynomoi, agoranomoi, agronomoi. Astynomoi e  agronomoi non sono affatto technites, la loro opera organizza lo spazio di vita della polis e pertanto il loro compito rientra nella costruzione della politica che deve costruire la bella città (kallipolis). La bellezza non è separata dall’utilità pubblica-politica, ma proprio la congiunzione di funzione e utilità che determinerà la posizione incerta delle arti costruttive nel sistema delle belle arti.

 

Capitolo 2 – Astrazione e Metropoli: Mondrian

Mondrian ricorre spesso alla nozione di “purificazione” e di “distruzione” indicando nella distruzione la chiave dello sviluppo storico dell’arte. Ne aveva fatto il postulato dell’arte nuova, da Picasso a Kandinskij  tesi a decomporre e rompere la forma, a Le Corbusier  e Ozenfant tesi a purificarla in una resa più o meno astratta.

Il neoplasticismo di Mondrian porta a compimento il movimento dell’arte nuova: “nell’arte nuova l’equilibrio non è una condizione statica priva di azione, ma al contratrio, un’opposizione continua di elementi uguali che si distruggono reciprocamente”.

La sua pittura, a partire dal 1917, non si interessa più dei corpi delle cose, ma transita dalla forma al rapporto. L’artista è chiamato a vedere attraverso le cose, bisogna guardare attraverso il naturale. Obiettivo della sua arte astratta è  la manifestazione della dimensione universale. L’arte precede la vita. La verità dell’opera di Mondrian va capita criticandola. Come infatti scrisse Theodor Adorno, filosofo tedesco, ogni opera d’arte per poter essere vissuta ha bisogno del pensiero e quindi della filosofia.

Quando Mondrian parla dei movimenti artistici che lo hanno preceduto, parla in fondo di se stesso, egli li prova tutti.

L’astrazione intesa come rifiuto delle forme fenomeniche della natura, corrisponde all’iconosclastia.  Se l’immagine più ingannevole è anche la più mimetica, l’immagine non ingannevole sarà la più astratta: questa sarà la via di Mondrian.

Per lui, l’architettura è l’arte nella quale risulta possibile realizzare il superamento della concezione dell’opera, intesa come l’espressione plastica dei rapporti.

In architettura la materia può essere denaturalizzata in vari modi, con superfici, colori e composizioni. La metropoli è il luogo manifestativo per eccellenza, l’essere umano non cercherà più di abbellire le strade e i monumenti con piante e fiori, ma costruirà città belle e sane contrapponendo edifici a spazi vuoti.

La contemplazione disinteressata, secondo Schopenhauer, innalza l’uomo al di sopra della sua natura. L’idea platonica è l’oggetto dell’arte e tutte le cose sono più o meno belle a seconda che facilitino un grado maggiore o minore di una contemplazione oggettiva. Mondrian raccoglie da Schopenhauer l’istanza contemplativa dell’estetica.

Emery, pur sostenendo l’importanza della visione olistico-utopica di Mondrian, critica la logica della metropoli, che è lo spazio con maggiore accumulazione entropica. Riprende Simmel, il quale sostiene che le stimolazioni dell’ambiente esterno a cui è soggetto l’uomo metropolitano sono tali da condurlo a uno sviluppo delle capacità di riflessione dell’intelletto.

 

Capitolo 3 – La decolonizzazione dello spazio

“Il lavorare sulle cose saltuariamente o a spizzico, purchè sia unico all’analisi critica, è il modo principale per raggiungere risultati pratici nelle scienze sociali oltre che in quelle naturali”.

Popper scriveva nel 1944 ciò che oggi sarebbe difficile sostenere. I rappresentanti dell’olismo metodologico non hanno riconosciuto che gli interi, sono della totalità. Per questo non possono essere studiati o controllati dalla nostra conoscenza in quanto essa è selettiva e limitata. Il lavoro “a spizzico” è diventato un lavoro imprudente; la questione ambientale non richiede questo tipo di logica, ma un quadro strategico il più completo possibile. Il prof. Emery cita Rem Koolhas e la sua abiura della “trappola dell’identità” in favore della “generic city”, la città liberata dalla schiavitu’ del centro, concludendo che il mito della sua possibilità infinita di rinnovarsi da un punto di vista energetico ecologico e filosofico, è di fatto vuoto. Nello stesso capitolo critica anche Jean Nouvel che si fa difensore di una progettazione “par petites touches”, per piccoli tocchi che dovrebbe realizzare la preoccupazione etica di rendere la situazione più positiva dopo ogni intervento.

Gli architetti non devono dimenticare che nel concetto di abitazione è implicito il concetto di ecologia. Imparare ad abitare vuol dire impostare una ecologia sostenibile. Heidegger sostiene che per costruire bisogna saper abitare. La trasformazione dell’ambiente ha raggiunto un’estensione tale da influenzare ogni aspetto dell’esistenza. Secondo Rifkin c’è bisogno di un punto di svolta, un “modello climax” e quindi operare in primo luogo un capovolgimento sul piano del valori. Le grandi città dovranno diminuire il numero di abitanti e transitare verso una situazione di riduzione dell’impatto entropico.

Heidegger elabora la nozione della “svolta”, la quale chiama la filosofia a spostarsi dal pensiero basato sulla figura del soggetto, al pensiero dell’essere. Il progetto, per lui, è un progetto gettato. Chi getta non è l’uomo ma l’essere stesso. Abitiamo collocandoci in una rete di relazioni, e in essa si esprime la nostra stessa situazione esistenziale.

La svolta si colloca ricongiungendo techne  e poesis, deviando arte e artificio dal loro rapporto oppositivo nei confronti della natura. La poeticità dell’abitare di Heidegger implica un ri-orientamenteo dell’artificio. La poesia rende possibile la sostenibilità, dunque anche il presupposto dell’architettura.

Secondo Bataille, scrittore e filosofo francese, l’architettura è espressione della società nello stesso modo in cui la fisionomia umana è l’espressione degli individui. E’ tramite la forma delle cattedrali e dei palazzi che la chiesa e lo stato si impongono alla moltitudine.

Joseph Beyus, artista tedesco,  ritiene che l’arte contemporanea abbia conosciuto un’evoluzione che la porta verso un’arte che vuole andare “oltre l’arte” e diventare “plastica sociale”. L’architettura sociale ha viva la consapevolezza della situazione di rischio ambientale nella quale si trova la civiltà contemporanea.  Per questo la cura dell’ecosfera deve occupare un posto fondamentale: “possiamo decidere di allineare la nostra intelligenza con quella della natura”.

 

Capitolo 4 – Oltre le leggi: la corona della città

“…a me pare che alle nostre leggi risulti mancare ancora questo, e cioè che noi diciamo come potrà necessariamente ingenerarsi in loro la forza naturale irreversibile”. Ciò afferma Platone nel XII Libro dei Nomoi, le Leggi,  pone in evidenzia il problema fondamentale di una mancanza, un’incompiutezza. Nei libri precedenti sono state enunciate leggi e disposizioni, ma questo non è risultato sufficiente per poter ritenere di aver portato a termine il proprio compito. A mettere in evidenza questa incompiutezza è proprio il protagonista dei Nomoi, l’Ateniese, persona in possesso di conoscenze matematiche ed astronomiche. Conoscenze che “portano in alto” , il pensiero se ne nutre e “..mancando tali conoscenze non si troverà mai nella città chi possa divenire veramente felice”. Contemplando il movimento degli astri l’uomo capisce qual è la vita migliore ed è una condizione imprescindibile affinchè la città possa diventare una felice comunità.

L’Ateniese marcia con Megillo lo spartano e Clinia il cretese, il quale è descritto come membro di una commissione istituita a Cnosso per fondare una nuova città sulla grande isola, una nuova polis.

Il percorso della spazialità anabasica, in prossimità della vetta dei Nomoi, non nasconde il timore di aver compiuto uno sforzo inconcludente e che “tutto rimanga incompiuto, imperfetto”. Il percorso rimane ateles, forma un cerchio incompleto, e dunque non telos, cerchio, corona,fascia.

Portare la corona è un segno di appartenenza, costringe l’uomo al dovere e richiede una certa prestazione, dunque l’affermazione dell’Ateniese delle Leggi significa che non si è giunti ad una comunità di appartenenza tra i tre interlocutori e che quindi, nel XII Libro, non raggiungono ancora il tempio di Zeus.

Platone nel Libro III descrive il superamento della vita primitiva dei tempi selvaggi e narra poi il successivo passaggio alle prime forme di comunità. Qui sembra recuperare l’idea dei raduni circolari, in cui gli uomini si raccolgono in comunità più numerose, ricercando maggior protezione dalle insidie naturali. L’aggregazione avviene prima che povertà e ricchezza abbiano senso, prima che il senso di proprietà rovini il senso di coappartenenza.

Al centro del raduno i rappresentanti presentano le leggi  e le norme, i valori propri di ognuna di esse. Questa è l’origine, l’archè, lo scopo della legge. Legge è essenzialmente quella che riesce a stare al centro del cerchio, quella che resta eretta raccogliendo a sé tutte le spinte, tutti gli interessi delle parti.

Lo spazio della città si apre con l’avvento della comunità e le forme successivamente costituite dovrebbero avere il senso di una cura distributiva valida per tutti. Tutto ciò che si definisce privato, viene strappato alla vita dell’uomo.

Bruno Taut, architetto tedesco, concepì nel 1910 un progetto per una città nuova, nel testo Die Stadtkrone. Qui sottolinea come in ogni epoca l’architetto abbia in sé “la conoscenza e la coscienza di tutte le più profonde sensazioni e concezioni che stanno alla base della comunità a cui è destinata la sua opera”. L’architetto deve introdursi nell’anima del popolo, ritrovare se stesso e dare un’espressione materiale a ciò che dorme in ogni uomo. Se gli architetti non conoscono il loro vero scopo, se non aspirano al meglio, la loro esistenza non ha alcun valore. Il loro ingegno si spreca nelle piccolezze.

“Un profondo desiderio ci domina: vogliamo avere delle città in cui poter vivere, come dice Aristotele,non soltanto sicuri e sani, ma anche felici”.

Taut era convinto che arte e popolo dovessero formare un’entità. L’Arte non è più il lusso di pochi, ma deve raggiungere le masse.

 

Descrizione: images

Stadtkrone, veduta aerea da est (da BRUNO TAUT, La Corona della città, a.c., L. Quaroni, Milano, 1973, P.51).