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autore

NICOLA EMERY

titolo

DISTRUZIONE E PROGETTO. L’ARCHITETTURA PROMESSA

editore

CHRISTIAN MARIOTTI EDIZIONE

luogo

MILANO

anno

2010

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

Titolo originale: Distruzione e Progetto l’architettura promessa (Prima edizione)

 

 

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Argomento e tematiche affrontate

L’autore, con quest’opera, mira alla comprensione del fenomeno che ha reso la nostra società, quindi il mondo in cui viviamo, inabitabile ed inospitale,  in cui noi stessi ci troviamo a disagio.

La situazione attuale risulta essere causata da uno sviluppo incontrollato della tecnica che da mezzo è divenuta fine di ogni progetto, il quale risulta delegittimato.

Il saggio propone anche una serie di soluzioni che possano sgravare la natura dal carico di distruzione ed inquinamento a cui fino ad ora è stata sottoposta.

Si verifica come l’umanità sia soggetta all’infelicità, sia a causa delle pulsioni che vengono represse nel rapporto con gli individui e nel momento in cui viene assoggettata la natura (teoria di Freud), sia in conseguenza dell’industrializzazione che ha reso il lavoro estraniante ed alienante (teoria di Marx).

Riflettendo proprio su quest’ultima teoria ne consegue che l’importanza acquisita dal denaro nell’ottica capitalista ha fatto assumere ad ogni oggetto un valore di scambio, portando tutto sullo stesso piano, facendo perdere alle cose il proprio significato.

Lo stretto legame tra sviluppo imprenditoriale e tecnico influirà sulle conseguenze apportate dal progetto sull’ambiente. Ciò viene attestato riflettendo sull’energia utilizzata nei processi, la quale viene prodotta a partire dall’ambiente ma che con i procedimenti termodinamici degenera, divenendo di qualità sempre peggiore; il risultato finale sono danni ecologici alla terra stessa.

Viene illustrato come dall’età Greca ai nostri giorni il rapporto tecinca-natura sia cambiato. Infatti nel passato la natura era vista come incontrollabile e la tecnica era necessaria per la sopravvivenza, ma doveva sempre rispettare le restrizioni imposte dall’ambiente (lo si riscontra nel “De Architectura” di Vitruvio); mentre con la diffusione della dottrina ebraico-cristiana che (come si osserva nelle teorie di Bacone) legittima l’uomo a sfruttare la tecnica per migliorare le sue condizioni, e con l’avvento dell’Illuminismo che porta al superamento delle limitazione dettate dalle paure e dalla religione, rendendo l’uomo padrone delle proprie azioni e libero di controllare il proprio futuro; si giunge al sopravvento della tecnica sull’ambiente.

Il discorso relativo alle tecnologie, in generale, è affrontato con un accezione positiva, infatti le si considerano  procedure necessarie che plasmano la terra per garantire all’uomo un luogo abitabile, in quanto egli non può contare su un habitat proprio. Il problema che viene evidenziato, consiste nella perdita della consapevolezza delle conseguenze negative in cui si potrebbe incorrere, non attuando un controllo e non trovando dei limiti in sintonia con la natura.

Il cambiamento che ha fatto diventare irrazionale, il processo di razionalizzazione e di costruzione del mondo, vede l’atto tecnico diventare non più mezzo ma fine di ogni operazione.

Tutto ciò ha le sue ripercussioni anche nell’ambito architettonico essendo esso una diretta espressione della circolazione del capitale. Secondo le idee di Sant’Elia e Le Corbusier le costruzione dovranno perdere la qualità della durevolezza per diventare elementi in continua evoluzione.

Si arriva alla descrizione della condizione attuale in cui si riscontra il superamento della posizione dell’imprenditore a discapito del team di manager, siamo nell’epoca del “capitalismo finanziario” dominato dalla azioni bancarie; in questo contesto le nuove edificazioni (come attesta Rem Koolhaas) assumono dimensioni spropositate essendo governate dall’impiantistica e non si riescono più ad instaurare relazioni con la città e con il paesaggio, ci si trova di fronte alla tabula rasa globale.

Il tentativo di opposizione, alla situazione riscontrata, viene sviluppato proponendo una serie di alternative.

Heidegger considera un nuovo modo di approcciarsi al progetto, attraverso il quale si presta attenzione alle preesistenze accrescendo il sentimento di cura dell’ambiente.

Jeremy Rifkin propone l’avvicinamento ad un “modello climax” che comporta una diminuzione delle spreco di risorse.

Romano Guardini vuole instaurare una nuova disciplina della forma che non deve falsificare e nascondere l’oggetto architettonico realizzato.

Kurt Schwitters ritiene opportuna l’applicazione della teoria “Merz”, con la quale si vuole arrivare,  costruendo ex-novo sempre meno, a scelte di riqualificazione, recupero e riprogettazione.

Yona Friedmann presenta “l’architettura di sopravvivenza” che comporta una libertà progettuale slegata dalle logiche tecnico-economiche e capace di utilizzare meglio ciò che già esiste.

 

 

Giudizio Complessivo: 7

Scheda compilata da: Matteo Bardoneschi

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

 

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Autore

Nicola Emery, nato a Lugano nel 1958, è docente di filosofia e di estetica dall’anno della sua fondazione all’Accademia di architettura di Mendrisio, Università della Svizzera italiana. Laureato in Filosofia all’Università di Venezia; ha conseguito successivamente il dottorato di ricerca in Filosofia a Roma. Ha svolto attività didattica presso l’Università di Venezia con Umberto Galimberti, poi è stato assistente di Massimo Cacciari. È autore dei libri Lo Sguardo di Sisifo G. Rensi e la via italiana alla filosofia della crisi  (Milano 1997),L’eloquenza del Nichilismo (Roma 2001), oggetto di numerose recensioni. Ha curato edizioni in Italia per Adelphi e in Francia per Allia, ha scritto saggi per riviste e opere collettanee, fra cui il Dizionario delle opere filosofiche. Alcune sue  pubblicazioni sono frutto della sua collaborazione didattica con l’atelier di celebri  architetti, come quello dello  svizzero Valentin Bearth e quello di Peter Zumthor.

Nicola Emery

  

CAPITOLI

Capitolo 1

Il primo capitolo risulta essere un’introduzione per gli argomenti che verranno trattati in tutto il libro; in esso vengono riportati una serie di avvenimenti come: il ritrovamento di un operaio che dormiva nella cripta di un cimitero, l’uscita di un film in cui il protagonista è recluso in una bara, l’episodio dei trentatre minatori cileni intrappolati nel sottosuolo per diverse settimane. Partendo da questi episodi iniziano le riflessioni sul fatto che gli esempi narrati sono in qualche modo in affinità con la condizione umana contemporanea, che risulta essere mortificata.

Si iniziano a scoprire le tematiche del libro tramite ulteriori citazioni, come quella di Adorno il quale paragona le abitazioni contemporanee a degli astucci che sono preparati da esperti e che non hanno nessun rapporto con gli abitanti e quindi inabitabili; oppure come la vicenda di Buckminster Fuller, che prima di costruire case leggerissime in serie, aveva fatto esperienza in una azienda di inscatolamento della carne e aveva progettato elementi di veloce e facile costruzione per l’esercito, dalla quale si può intuire come il costruire vive intimamente nel distruggere e che la produzione della morte accompagna la costruzione e ne governa le invenzioni.

Continuando le riflessioni in questo senso, l’autore afferma come sono le situazioni disastrate ad essere laboratori per concepire e sperimentare nuove costruzioni, quindi non solo la prestazione ma anche la distruzione sono qualità insite a priori nel costruire.

Si illustra una visione della condizione attuale in cui non si può non tener conto che le promesse dell’illuminismo e del modernismo si sono capovolte in distruzione; infatti l’affidarsi alla “soluzione tecnica” risulta essere una situazione procedurale non orientata ad uno scopo, ma solo concentrata alla sua stessa riproduzione.

Il capitolo si conclude con la dichiarazione d’intento dell’autore di comprendere la genealogia storica-economica del capovolgimento che ha portato ad avere il progetto al servizio della tecnica al posto della tecnica al servizio del progetto e che rischia di ridurre il compito dell’architetto ad una funzione di impiegato dell’impianto tecnico-finanziario globale, facendogli perdere libertà e responsabilità.

 

Capitolo 2

L’autore, per esprimere la condizione in cui si trova l’umanità, riporta ragionamenti derivanti dal libro di Freud “Il disagio della civiltà”, che suggerisce come il processo di civilizzazione sia ambivalente; infatti al progredire si associa uno stato di infelicità e di disagio. L’opera illustra come l’uomo si impegni nel costruire la civiltà per realizzare due scopi: proteggersi dalla natura e regolare le relazioni tra gli uomini. Solo il secondo obbiettivo fa nascere disagio e disdetta, il primo grazie alla tecnica è visto unicamente come portatore di vantaggi.

Il disagio deriva proprio dalla rinuncia pulsionale che l’uomo deve compiere per poter vivere in civiltà con gli altri uomini.

Emery aggiunge che è evidente come anche l’assoggettamento della natura è esposto alla stessa disdetta, in quanto le forze che sono chiamate a costruire la civiltà, proteggendo l’uomo dall’ambiente, perseguono un appagamento che si può realizzare solo come impulso distruttivo derivante dalla necessità dell’essere di ricercare un dominio onnipotente. Il malessere della civiltà quindi nasce proprio dalla compresenza di forze costruttive e distruttive all’interno dello stesso individuo.

Riprendendo l’idea di Freud, si comprende che è grazie alla presenza del “Super Io” che “l’Io”, il quale porta alla luce le pulsioni distruttive, viene ingabbiato e inquadrato. E’ questo controllo che genera una sofferenza necessaria, quindi si afferma che “l’uomo ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza”.

L’analisi della situazione contemporanea prosegue riferendosi ad un ulteriore scritto di Freud “Il Perturbante”, nel quale si denuncia la condizione dell’abitare che diventa estraniante, alienante, non più accogliente; da qui si osserva che è cambiata la visione dello psicoanalista il quale fa trasparire come l’uomo munito della tecnica non compie più un opera positiva, poiché non riuscendo a smorzare la sua eccitazione finisce a compiere azioni dagli effetti distruttivi.

 

Capitolo 3

Il quadro storico utile a comprendere la condizione contemporanea si avvalora dell’analisi di Marx il quale afferma: “nella nostra epoca ogni cosa sembra essere gravida del suo contrario”. Ciò deriva dall’aver osservato il risultato dell’industrializzazione che ha portato la svalutazione del lavoro dell’operaio. Questa situazione vede l’oggetto che il lavoro produce contrapporsi ad esso come un essere estraneo, indipendente da colui che lo produce; il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, arrivando così all’oggettivazione del lavoro.

Si insiste sulle conseguenze, infatti si è generato uno stato di alienazione ed estraneazione poiché è negata l’essenza dell’uomo, ossia la sua soggettività, a causa delle esigenze di profitto del capitalismo. Tutto ciò porta alla mortificazione, la vita è svalutata a tal punto da renderne difficile il riconoscimento dal suo contrario; si sprofonda nella condizione della perdita dell’autocoscienza e quindi di lutto.

Si può osservare un avvicinamento tra Marx e Freud, nonostante per il primo il lavoro risulta ciò che può portare fine al disagio dell’uomo mentre per il secondo la sofferenza è implacabile; entrambi raggiungono la consapevolezza della presenza del malessere e considerano fondamentale effettuare una modifica dei rapporti di proprietà come terapia dell’inabitabilità del mondo.

 

Capitolo 4

Si approfondisce l’ideologia Marxista che pone l’alienazione come la forma storica in cui l’intera esistenza viene determinata, quindi questo sentimento di estraneazione si rispecchia e si diffonde in tutti i tessuti del nostro corpo, gli strati della società e gli spazi del mondo.

Continuando il ragionamento, si osserva come il valore della merce non sia più legato al valore d’uso, che è mortificato, ma assume solo il valore di scambio che la rende omogenea, tutta sullo stesso piano; tutto ciò è causato dall’utilizzo del denaro che ha la capacità di sussumere dentro di sé ogni tipo di bene, così la differenza delle cose risulta solo quantitativa. Il denaro diviene, grazie alla logica capitalista, una “forza divina” e un “dissolvitore universale”, capace di “svuotare il nocciolo delle cose” così che si considerano di uguale importanza i palazzi e le scale e quindi non si riesce più a trovare differenza tra le discipline.

In quest’ottica l’architettura capovolge il suo significato diventando inabitabile, poiché smarrisce il proprio principio fondamentale cioè l’abitare, divenendo unicamente legata alla logica del valore di scambio.

Il concetto di dimora estranea ed ostile è esteso ad ogni costruzione, lo si evince anche dalle affermazioni di Adolf Loos che ironizza sul “povero ricco” che vive in una casa in cui non si sa più dov’è la giusta posizione per i diversi oggetti.

Allargando ulteriormente gli orizzonti della riflessione sulla società viziata dal capitalismo, si osserva come un concetto intrinseco ad essa è l’espansione continua della produzione, che non deve e non può avere limite e che comporta la strumentalizzazione dei beni naturali e la loro trasformazione e degradazione in “natura putrefatta”. I problemi ecologici sono l’esplicita manifestazione della “distruzione creatrice” prodotta da questa politica d’espansione che genera “terre desolate”.

Si riflette, in conclusione, sullo spazio fisico della città, che è esploso sotto la pressione della continua riproduzione la quale risulta sottomettere ogni teoria architettonica ed urbanistica.

  

Capitolo 5

Si ragiona ancora sull’affermazione di Marx: “nella nostra epoca ogni cosa sembra gravida del suo contrario”, l’autore ne vuole dimostrare l’autenticità trattando l’ennesima contraddizione della società contemporanea colpita dalla sempre più insistente sensazione di disagio.

Si osserva come lo sviluppo capitalista incentra la sua fortuna sulle macchine, le quali sono concepite ed inventate per rispondere alle esigenze di crescita e che si rapportano in modo puramente quantitativo con le forze naturali e le materie prime; infatti “la natura quantificata è messa al lavoro in vista della crescita della produzione”. Si genera un rapporto di sfruttamento, di dominio e di mortificazione nei riguardi dell’ambiente.

Gli elementi naturali danno origine all’energia necessaria per i vari procedimenti. E’ la riflessione su questa risorsa ad avvalorare la tesi iniziale. L’energia ha differenti gradi di qualità e, riprendendo il secondo principio della termodinamica, quando è impiegata nei processi tende ad assumere forme sempre meno pregiate.

Tutto ciò comporta che la qualità dell’energia coinvolta nelle procedure termodinamiche non può migliorare, essa diventa “meno di sé” e concretamente diviene “contro di noi”,  in quanto non si verifica mai un uso dell’energia che non implichi degradazione della sua qualità e quindi la sua dispersione si ripercuote negativamente sull’ambiente.

Nessuna invenzione risulta in grado di sfuggire a questo paradosso, ogni vantaggio porta con se il proprio contrario, la visione del mondo estrapolabile dagli effetti della termodinamica compone un quadro nel quale “il carattere di tempesta del progresso” si fa estremamente perturbante e minaccioso.

Il mondo diviene inabitabile poiché, utilizzando le parole dell’autore, “ogni risorsa, dall’acqua che beviamo all’aria che respiriamo, da ogni cibo da cui ci nutriamo ad ogni spazio nel quale situiamo, può sempre sinistramente rivelarsi gravida di veleno”.

  

Capitolo 6

Si riprende il problema legato al consumo di energia (entropia) e si incomincia a proporre una soluzione riportando una linea di pensiero innovatrice.

Si cita Jeremy Rifkin il quale riconosce come l’entropia dell’ambiente è diventata troppo elevata e che dichiara la necessità di passare ad un nuovo quadro di risorse energetiche, a creare nuove tecnologie e a configurare nuove istituzioni economiche e politiche.

La soluzione da lui proposta, con il tentativo di non essere complice del degrado, consiste in una svolta critica, che vede come sviluppo sostenibile l’avvicinamento ad un “modello climax”.

Il modello climax è ripreso dagli studi del biologo Alfred Lotka e corrisponde ad una successione di fasi, in cui l’uomo entra a contatto con l’ambiente. Prima le “fasi di colonizzazione” impostano uno sviluppo legato al massimo consumo di energia, poi le “fasi climax”si traducono nell’adeguamento delle diverse comunità nel loro ambiente specifico, nel quale si sfruttano al meglio le caratteristiche residue ricercando una frenata della crescita entropica e la riduzione dei flussi energetici.

Questa proposta mette in luce come la ricerca di un cambiamento non possa esimersi da un’interrogazione sul rapporto dell’uomo con la tecnica, rispetto a come si è configurato nella storia; inoltre la discussione non deve avere come finalità la criminalizzazione della produzione di artifici, ma deve portare il soggetto a governare e curare la relazione di questi processi di sviluppo con il mondo.

La connessione con la natura deve divenire l’elemento fondamentale a cui tende la tecnica poiché è la speranza tecnica stessa; l’idea del passaggio alla fase climax dovrebbe corrispondere ad un rapporto con la natura non più fondato sull’esclusivo punto di vista dello sfruttatore.

Il conseguimento dei risultati qui auspicati, non può essere slegato da una differente visione storica-sociale della natura, per mezzo della quale si potrà arrivare  al concetto di “tecnica di alleanza” che vede una separazione dalla produzione allargata, un distacco dalla condizione estraniata e dominata dal capitale, tramite un diverso accesso ai beni comuni e alla loro differente distribuzione.

Si evidenzia ancora con vigore la necessità del contenimento degli imperativi economici, citando Guy Debord il quale considera la nostra società sempre più malata e allo stesso tempo sempre più potente essendo stata capace di modificare tutto il mondo, rendendolo ambiente e scenario della sua malattia.

La conclusione del capitolo porta con se un lieve ottimismo, in quanto si afferma come il riconoscimento del disagio non coincide affatto con la rassegnazione.

  

Capitolo 7

L’autore inizia una riflessione che verifica come l’uomo non abbia un ambiente specifico, poiché egli è caratterizzato da carenze istintuali, che lo portano ad essere inadatto per qualsiasi luogo, da “sprovvedutezza biologica” e da “incompiutezza”. Così viene a mancargli la capacità di ancorarsi e legarsi al mondo. Gli animali, invece, accolgono gli stimoli esterni, in quanto la natura ha donato loro organi adatti a determinati istinti, così viene ad esistere per ogni specie il suo habitat.

La condizione di non avere spazi vitali geograficamente naturali porta l’uomo a doversi ritagliare e progettare  i propri spazi.

Tutto ciò diviene per l’individuo sia una risorsa, poiché esso può accedere ad una ricchezza ed a una varietà nel tipo di vita, sia un problema, in quanto genera dei piani costruttivi che non si armonizzano con le altre forme di vita.

Si insiste su questo tema, infatti si identifica la “necessità di plasticità” dell’uomo che lo porta a stabilire un ordine per edificare di volta in volta il proprio mondo. Si appura che l’individuo è fatto per la dimensione creativa o che addirittura vi è costretto, quindi la plasticità è la sua condizione di possibilità, il modo per trovare sé stesso e per arginare la pressione della situazione in cui si trova.

In contrapposizione con queste legittimazioni rimane sempre il pericolo di un eccesso di pulsioni che porta con sé esiti distruttivi, capovolgendo le situazioni precedenti l’inizio del processo in nuove e pesanti condizioni ostili, antagonistiche, inabitabili e inospitali.

Risulta cosi necessaria una strutturazione del fare ottenuta con educazione, inibizione, istanze di controllo e limitazioni.

Allineato a queste riflessioni con un’accezione più negativa, viene proposto il punto di vista di Ortega Y Gasset che vede l’uomo incompatibile con la natura, cioè un intruso, la cui ambizione che risulta solo un desiderio irrealizzabile, è abitare la natura.

Il mondo è visto come inabitabile, quindi l’atto tecnico è necessario ma verrà ripetuto continuamente in vista di uno scopo irraggiungibile, divenendo un fare senza fine, destinato a risultare fine a sé stesso quindi si perderà la definizione di limite.

La conclusione risulta una naturale conseguenza di tutte le precedenti riflessioni, infatti bisogna rendersi conto di come la tecnica moderna possa davvero mettere a rischio il mondo e di come si iniziano a perdere i rapporti con le condizioni iniziali della natura che in realtà sono la base e il punto di inizio di ogni azione, quindi è fondamentale la scoperta di un nuovo sentimento umano di moralità e di responsabilità capace di perseguire la cura della natura e di controllare la tecnica.

  

Capitolo 8

Si continua ad insistere sulla necessità di autocontrollo nel rapporto uomo-natura teso ad evitare risultati autodistruttivi.

L’autore ci sottopone l’analisi di Heidegger sull’essenza dell’uomo che non viene più visto come posizionato nel mondo, ma come essere che si fa carico della propria esistenza; è una presenza pratica che si manifesta nel fatto che egli abita il mondo.

Il progettare è visto come un abitare, o meglio  per progettare bisogna saper abitare, anzi bisogna imparare ad abitare ponendo la situazionalità come condizione del progetto.

Il progettare non viene inteso ne come semplice presenza, ne come atto di soggettività onnipotente, ma come “cura”, ossia comprensione ed attenzione nei riguardi di ciò che ci sta intorno.

L’abitare deve diventare un salvare, inteso nel senso antico del termine, cioè “liberare qualcosa per la sua essenza propria”; quindi la terra non deve più essere assoggettata e sfiancata, ma ad essa, nel momento in cui la si vuole progettare, bisogna accostare una visione ambientale legata ad una sospensione critica del costruire.

La situazionalità qui ricercata, non è solo in relazione alla natura, ma anche alla cultura e alla storicità, quindi risulta necessario, in ambito progettuale, fare attenzione alle preesistenze in modo da rivalutarle, mediarle e trasformarle in funzione dei bisogni attuali, evitando la loro distruzione.

La riconversione ha differenti punti di vista.  Gadamer afferma che essa non deve essere una svalutazione che rende l’esistente opera d’arte (critica ai monumenti del passato), in quanto ciò equivale alla demolizione, ma deve risultare una reintegrazione nella vita.

Ritornando alla riflessione più generale, rimane come questione centrale il progettare come forma di cura dell’ambiente, che deve risultare rispettato e preservato e che deve essere reso accessibile a tutti.

La visione di natura che diviene fruibile,  è strettamente legata allo spazio come bene comune, che si potrà ottenere solo distaccandoci dagli artifici tecnico-speculativi presenti ora nelle nostre città.

 

Capitolo 9

“I mondi che gli uomini abitano emergono e si emancipano dagli ambienti-propri immediatamente dati, ma sembrano dovere al contempo restare in relazione con essi, trovare una mediazione all’interno della separazione.”

Così si apre il capitolo con cui l’autore riporta l’attenzione sul rapporto tecnica-ambiente e ne traccia lo sviluppo storico, indicando il diverso modo di prevalere l’una sull’altro.

A partire dal mondo greco, la tecnica era considerata come un tributo limitato alla necessità, e non come un progresso che si autogiustificava. In Aristotele si evince come la tecnica miri ad imitare la natura e come entrambe ubbidiscano al principio della ricerca della causa finale; è quindi la ricerca di uno scopo la ragion d’essere di ogni fare.

La tecnica, nel pensiero antico, porta soccorso alla vita senza dover essere concepita come autonoma ed opposta rispetto alla forma propria della natura; è in particolare grazie all’architettura che l’uomo distingue il suo mondo dall’ambiente e allo stesso tempo ne diviene custode.

Il rapporto  che si viene a creare tra i due elementi non può non avere al suo interno anche contrasti e urti, ma essi rimangono non unilaterali, non sfrenati e non illimitati. Infatti rimaneva sempre aperta una connessione tra tecnica e natura.

Questa relazione dipendente costituiva un vicolo ed era sentita come una condizione insuperabile; gli ambienti e i beni naturali non erano quantità commerciali, ma rimanevano qualità riconosciute come termini o luoghi di una relazione, di cui l’uomo non era il principio.

Nuove idee iniziano a diffondersi e con Cartesio si ha una visione dell’individuo che inizia a pensarsi possessore della natura e che assume la tabula rasa come sua possibilità; così le opere dell’uomo non devono  più mediare con la terra, ma devono  trasformarla e continuare a produrre.

Questo cambiamento diventa possibile poiché la fede in un progresso terreno e illimitato, si sostituisce alla provvidenza di Dio, in quanto proprio il progresso si incaricherà di provvedere e prevedere il futuro.

Un forte impulso verso una visione moderna è apportata dall’Illuminismo, che si è sempre posto come obbiettivo di togliere agli uomini la paura, per renderli padroni delle loro azioni. Ciò darà inizio ad una trionfale sventura, infatti si è giunti ad una morale industriale che è costitutivamente priva di etica.

Non è lo sviluppo della tecnica moderna in sé il problema, ma la sua funzione nell’economia attuale.

Non bisogna auspicare ne una rinuncia ne un ritorno alla morale agricola, ne che la tecnica diventi onnipotente, ma si dovrebbe intraprendere la via della saggezza e della prudenza, impostando un’etica differente che sostenga le necessità ecologiche.

Ciò si potrà perseguire tramite una mediazione politica che orienti il mondo tecnico in modo tale che sia costruttivo e non più distruttivo.

   

Capitolo 10

Il capitolo è tutto dedicato a Vitruvio, il quale con il suo trattato “De Architectura” introduce dei temi riguardanti la tecnica, utili per districarsi nella realtà moderna.

Si attesta che, nonostante le possibilità, bisogna sempre pensare che esista un punto di arresto, e che questo limite virtuoso permetta di distinguere la vera tecnica, capace di realizzare i suoi scopi e produrre autentici beni per l’uomo, e la tecnica superflua, arbitraria e dannosa per la vita.

Si riconosce, in quest’opera, l’insostituibile funzione civilizzatrice delle tecniche che, però, devono sempre essere condotte, governate, contenute, collocate e orientate entro le giuste e necessarie misure.

Il rapporto con la natura è visto non come sottomissione ma in forma di imitazione, o meglio, si teorizza l’importanza di trarre dei modelli da essa e sulla loro base costruire applicazioni utili all’esistenza, poiché  quando non risultano tali generano l’infelicità.

L’attributo che attesta la viva intelligenza progettuale, per Vitruvio, è la “sollertia”, tramite la quale si fa valere l’interesse per l’intero in contrapposizione con le soluzioni esclusivamente tecniche, che sono applicate rigidamente ed unilateralmente senza mediazione, risultando così dannose.

L’autore latino ritiene che l’arte direttiva di grado più alto sia la politica, che deve subordinare sé e le altre arti, assegnando a ciascuna il posto e il limite che le spettano, ponendosi come fine ultimo il bene umano.

A questo concetto si accosta una visione più allargata, in cui le virtù politiche dovrebbero essere distribuite a tutti; così anche le competenze di gestione e costruzione del territorio dovrebbero essere riconosciute alla totalità delle persone.

Il termine competenze, come illustra Jacques Derrida, significa che ogni cittadino, vivendo gli spazi, ha diritto a porre domande sull’architettura, quindi deve essere politicamente autorizzato ad interrogare le autorità architettoniche su quello che fanno, così da arrivare a condividere una certa conoscenza professionale.

 

Capitolo 11

Vengono descritte le premesse riscontrabili nell’ideologia ebraico-cristiana che trasformeranno il rapporto tra natura e tecnica, rendendo la prima succube della seconda.

Il nuovo messaggio che si diffonde rispecchia l’ideologia di Francesco Bacone, il quale dichiara come l’arte e la tecnica dovrebbero tramutare e scuotere nel profondo la natura e che questo principio dovrebbe insinuarsi con radicalità nelle menti degli uomini.

Il filosofo cinquecentesco attesta come l’umanità dovrebbe rinunciare all’armonia con l’ambiente in cambio di un aumento di “utilità”, che viene a corrispondere con la verità.

Le arti meccaniche sono intese come la manifestazione di uno spirito vitale che, oltre a far progredire in termini di sapere e potere produttivo, contribuisce alla formazione di una differente umanità.

L’aumento di produzione, per Bacone, permette all’uomo di porre su un altro piano i desideri e gli interessi che dovrebbero incentrarsi e superarsi in rapporto ad una cultura dell’ospitalità e della condivisione del sapere; l’artificialità umana non ha più limiti naturali.

Egli elimina i limiti di sviluppo relativi alla natura, ma riconosce come ne sono necessari altri come il controllo etico e il governo della trasformazione-produzione in termini ed in ottica di una “retta ragione” e “vera religione”.

Questa visione e questa speranza nella fede si dimostrano ai giorni nostri fallimentari, in quanto il dominio tecnico oltre che la natura ha scavalcato e sottomesso anche l’uomo, che non è riuscito ad orientare tale potere se non verso un risultato autodistruttivo e di inabitabilità.

Viene riproposta un’ulteriore riflessione di Bacone, la quale osserva come l’incremento delle funzioni produttive dovesse essere orientato verso la saggezza e non verso la ricerca del profitto; il processo di dominio della natura doveva rimanere distaccato dal mondo degli affari.

Anche questa speranza è smentita dalla tecnica moderna che è legata indissolubilmente al gioco capitalista e alla produzione allargata.

A ciò che viene constatato, è aggiunto un messaggio di riscatto di Werner Sombart che ricorda a tutti noi, che non ci troviamo di fronte allo sviluppo della tecnica come davanti ad un processo naturale ineluttabile, ma che si può esercitare un’influenza su di esso attraverso una riorganizzazione della vita economica.

  

Capitolo 12

La riflessione sulla condizione attuale, riporta l’accento sul rapporto tecnica moderna e capitalismo, che sono co-originati, entrambi trovano nell’aumento di produttività e di plusvalore la loro ragione d’essere. Ciò ha portato oltre all’emancipazione dei limiti organici dell’uomo, anche lo svincolamento dai margini naturali dello spazio locale e delle circoscritte e finite risorse.

Si osserva che si continuano a realizzare macchine grazie ad altre macchine, così che la grande industria vada avanti da sola, quindi il mezzo di lavoro diviene anche fine del processo; di conseguenza l’utopia del capitale è l’eliminazione di ogni barriera, che ha come suo rovescio la creazione di città autodistruttive o junkspace.

Questo fenomeno è trattato tramite le teorie di Max Weber, che afferma come il mondo sia piombato in una “gabbia di acciaio” cioè un luogo di reclusione, generato dal processo di razionalizzazione, in cui è negata ogni libertà progettuale.

L’agire razionale è inteso come processo problematico ma necessario. Infatti tramite esso si realizza la libertà e la personalità del soggetto che riesce così a costruire il mondo, ottenendo risultati voluti dagli individui adeguando i mezzi ai propri scopi; da ciò deriva che la libertà è vincolata ai mezzi e che la si deve intendere come responsabilità nel connettersi ai mezzi in vista dei fini.

Questa logica nella società capitalista si è trasformata in irrazionalità, in quanto il mezzo usurpa la posizione del fine, diventando esso stesso fine. La razionalità finalizzata allo scopo perde il suo senso, così il mezzo si autonomizza,  si passa a produrre per il produrre e questo è portatore del concetto di distruzione.

  

Capitolo 13

L’autore dichiara di voler analizzare il modo in cui l’architettura si sia rapportata alla tecnica nel corso del novecento.

Si affrontano le idee di Peter Behrens il quale riconosce che è avvenuta una separazione tra arte e tecnica già a partire dall’Illuminismo, e che si è persa la sintesi tra idea costruttiva e bella espressione, sancendo il primato calcolante degli ingegneri a scapito di quello architettonico-artistico.

Le conseguenze sono gli effetti offensivi nei confronti della bellezza del paesaggio.

La tecnica da mezzo tende a divenire fine a se stessa, così che si perde ogni senso e ogni dimensione di cultura; “l’artisticità” viene chiamata a correggere questa affermazione.

Egli ritiene che l’industria abbia la possibilità di creare cultura se solo riunisse l’arte con la tecnica; in realtà fino ad ora il mercato ha strumentalizzato questa possibilità creando un divenire della forma sempre continuo, così da incrementare produzione e consumi.

Behrens voleva riuscire a conciliare la quantità con la qualità, sia nella produzione degli oggetti, sia nella costruzione degli impianti di fabbricazione. Trattando questo secondo punto, egli osserva come le opere fino ad ora realizzate utilizzino l’architettura come un accessorio; il territorio viene a trasformarsi in “paesaggio da officina”.

È sancito lo stretto legame tra edilizia e capitalismo, in quanto la costruzione è un momento realizzativo della circolazione del capitale, in particolare questo si verifica nelle idee di Sant’Elia, per il quale l’architettura deve disfarsi del senso della permanenza e deve acquisire quello di caducità e transitorietà (“ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città”) o di Le Corbusier, che identifica la casa come uno strumento al fine di costruire abitazioni in serie.

La guerra è generatrice delle condizioni storiche che permettono che questo si possa realizzare e da essa si deve apprendere la proprietà di distruzione continua, da applicare alla sfera delle costruzioni, così che ogni prodotto verrà pensato per poter essere superato.

In contrapposizione viene riferita la denuncia di Heidegger che identifica tutto ciò come follia, in quanto si perde ogni capacità di rielaborare il passato per generare il futuro, pensando di ottenere prestazioni vincolate solo agli interessi del presente.

Si arriva in ultimo a proporre il riconoscimento del lutto ambientale-sociale che si è creato, così da superarlo grazie ad una visione etico-pratica di recupero e di trasformazione in antitesi con la logica del costruire-distruggere-costruire.

  

Capitolo 14

Il capitolo riporta l’evoluzione più radicale del capitalismo che ha conseguenze sempre più gravose nella società contemporanea; inoltre si dimostra quanto sia profonda l’analogia tra lo sviluppo e il destino della produzione e lo sviluppo e il destino dell’architettura.

Il punto di partenza sono le riflessioni di Schumpeter che evidenzia come si sia entrati in una fase di decadenza della funzione dell’imprenditore, in quanto evapora la proprietà solida sostituita dalle azioni, così l’intraprendenza personale perde la sua importanza in favore del calcolo e dello studio di team di manager specializzati. Si arriva all’attuale “capitalismo finanziario”.

Questa condizione si è trasferita anche nell’ambito della tettonica, che non dipende più da un principio direttivo specifico, ma è regolata e dominata dall’impianto tecnico che la dispone.

Rem Koolhaas riconosce come le tecnologie, che vengono intese come “impiantistica”, non sono più un accessorio ma hanno assunto, a causa di una necessità sentita come inarrestabile, una posizione centrale e dominante.

Le conseguenze, secondo l’architetto olandese, sono un dimensionamento inaudito delle costruzioni, che non sono più disponibili a stabilire relazioni con la città e il territorio e che sfruttano la condizione di tabula rasa globale.

Il “grande edificio” o “bigness” indipendente dal contesto è l’unica forma di architettura che possa sopravvivere e che, legata alla logica del liberismo, porterà ad una ricostruzione deregolamentata lontana da ogni forma di politica del territorio legata al welfare, occludendo e privatizzando senza controllo lo spazio pubblico, ottenendo delle condizioni ambientali ad una scala che ci risulta estranea e disumana.

Ormai la consapevolezza dell’uomo non riesce più ad essere all’altezza di ciò che la possibilità dell’impianto tecnico realizzano, in modo addirittura autonomo; la distruzione dello spazio fisico della vivibilità viene eseguito come compito impersonale, così facendo si osserva il tramonto dell’architettura in favore dell’archi-tecnica.

 

Capitolo 15

La rinuncia, in relazione alle riflessioni precedenti, che viene qui proposta è di un teologo italiano, Romano Guardini, il quale afferma l’esigenza di una rinnovata disciplina della forma da anteporsi alla caoticità apportata dalla tecnica moderna.

Egli registra la confusione di forme attuale che segna anche i territori italiani, in cui si presenta lo scontro tra la cultura legata al contesto e l’età delle macchine.

Il paesaggio si ribalta da ospitale ad inabitabile, all’interno del quale anche l’uomo rischia di diventare spaesato, senza patria.

Il teologo non si pone come avversario della modernità ma dichiara che si possa dialogare con l’architettura moderna, utilizzando un atteggiamento critico nei confronti della tecnica.

La forma adeguata risulta essere quella che non “maschera” e non “falsifica” poiché nessun contenuto umano potrebbe esserlo. Infatti l’uomo innalza i fenomeni naturali, li modifica, portandoli sulla sfera della cultura; però il distacco così creato implica che vengano stabiliti dei limiti.

L’oggettivazione prodotta dalla scienza fa si che nascano forme autonomizzate che si impongano violentemente sulla natura senza rispettare proporzione ed equilibrio.

Egli aspira a costruire un “ordine nuovo”, che si dimostri in grado di contenere le spinte verso l’oggettivazione del mondo, apportate dal progresso tecnico.

Il raggiungimento del risultato di una nuova cultura della forma non risiede, per Guardini, nella critica politica ma nel rinnovamento dell’esperienza cristiana della fede; da qui si intuisce come la nuova disciplina formale acquisisca un significato etico di ricerca della vera cultura.

  

Capitolo 16

Il capitolo, molto breve esprime come l’arte sia offuscata dalla contraddizione della produzione-alienazione-distruzione e sia possibile la sua riproduzione solo in circostanze simili a quelle del prodotto tecnico-industriale.

Anche l’architettura è un prodotto industriale, infatti tra l’opera e la sua replica non c’è distinzione, così non si può trovare ne un limite ne uno scopo ed entrambe risultano essere sottomesse al regno dei mezzi.

Queste costatazioni portano con se una serie di domande che esprimono la necessità di trovare un’altra forma di architettura e di progettualità, separata dalla distruzione e non più strettamente legata alle logiche capitaliste.

  

Capitolo 17

L’autore propone un’alternativa alla situazione esistente, partendo dalla costatazione che per recuperare i resti e le rovine lasciati dal capitalismo, in ottica di una salvezza rispetto alla crisi contemporanea, bisogna uscire dal dominio dello spirito commerciale.

È così riproposta la teoria “Merz” di Kurt Schwitters che ricerca una forma originaria del fare intesa come raccogliere, rielaborare, riformare e curare; a tal proposito viene coniato il termine “merzare” che indica il fare o il costruire con una nuova prospettiva di trattamento e di riconversione di detriti e di scarti.

Questa alternativa alla società che potrebbe essere applicata ad ogni campo, è qui sviluppata in relazione al discorso sull’architettura. Infatti si specifica come abitare implichi “merzare” e quindi per saper abitare bisogna riuscire a non costruire, riaggiustando, recuperando, riprogettando al di fuori della distruzione creatrice e arrivando a “riabitare l’altro” ossia saper condividere il mondo con gli altri.

Bisogna indirizzarsi verso la sempre minore costruzione ex novo, in favore della trasformazione e della riqualificazione dell’esistente; questa scelta etica può essere l’antidoto agli esiti autodistruttivi in cui il progetto sta incorrendo.

Lo “spirito merz”, qui proposto, non ha come obbiettivo il singolo edificio ma l’intera grande metropoli, ponendosi come antagonista alle logiche di sviluppo capitaliste, ricreando, anche tramite prudenti e critiche distruzioni, una grande opera d’arte “merz”.

La prospettiva di tutto ciò consiste in un nuovo principio di cittadinanza basato sul diritto comune di abitare e slegato dalla dittatura economica.

  

Capitolo 18

Si mette in discussione il costruire come caratteristica fondamentale per l’architettura. Infatti, come si osserva oggi, sempre più si ricercano vie alternative all’edificare. Una soluzione proposta è “l’architettura di sopravvivenza”.

La pratica qui citata è definita da Yona Friedmann come il tentativo di limitare le trasformazioni, conservando solo le più necessarie a mantenere l’uomo in condizioni sufficientemente favorevoli; quindi, se non vengono messi in discussione i termini del fabbricare, l’architettura diventerà complice della desertificazione del mondo.

Si vuole creare un metodo che conduca ad una libertà progettuale slegata dalla catena tecnica-industriale-economica, in modo tale da riuscire anche ad utilizzare meglio ciò che già esiste.

Si tenta di sancire un’alleanza tra progetto, recupero e welfare in modo tale da perseguire l’estensione del bene comune, riuscendo a riconvertire e riutilizzare anche gli spazi della ricchezza ora inseriti nella logica della costruzione-distruzione.

L’architetto ungherese estremizza il più possibile le sue teorie, proponendo di trovare conforto al disagio della civiltà, creando una natura “abitabilizzata” come la foresta organizzata.

Così si spingerebbe l’architetto a lavorare con l’archetipo del giardino, modo per sviluppare la cura, la contemplazione e l’etica del paesaggio.

L’idea di natura-rifugio riflette la protesta contro la realtà tormentata dal punto di vista sociale ed ambientale; essa per fuoriuscire dalla logica utopica deve portare con sé un cambiamento sostanziale dell’economia  senza ne padroni ne servi, in modo tale da permettere una ridistribuzione del territorio.

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