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autore |
IGNASI DE SOLA-MORALES |
titolo |
ARCHEOLOGIA DEL MODERNO. DA DURAND A LE CORBUSIER |
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editore |
ALLEMANDI & C. |
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luogo |
TORINO |
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anno |
2005 |
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lingua |
ITALIANO |
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Prima edizione |
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Argomento e tematiche affrontate |
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L’argomento affrontato da Sola Morales in questo testo
riguarda la volontà di dare un nuovo fondamento agli interrogativi
sull’architettura attuale, passando in rassegna tutti quei periodi
architettonici del passato fino all’architettura moderna. Affronta i temi e i
dibattiti che hanno caratterizzato tutta la storia dell’architettura partendo
dal problema del classicismo visto come mimesi ovvero come una pura copia di
quei grandi riferimenti quali l’architettura greca e romana e la contrastante
nozione di arte intesa come processo di creazione. Un tema fondamentale, che
caratterizza tutte le nuove forme di pensiero rispetto al classismo, è l’astrazione
della concezione classica, elemento fondante di numerosi pensieri, a
riguardo, al ruolo dell’architettura nella storia. Inoltre va ad indagare i caratteri fondamentali
dell’architettura classica quali simmetria, proporzione e ordine definendo il
loro risvolto nei diversi periodi culturali e architettonici che si sono
susseguiti fino al Movimento Moderno. L’analisi accurata che Sola Morales propone arriva a spiegare le ragioni dei tratti
fondamentali che caratterizzano i diversi periodi e i diversi risvolti
architettonici nella storia. |
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Giudizio
Complessivo: 8 (scala 1-10) |
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Scheda compilata da: Federica Adretti |
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Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2
a.a.2012/2013 |
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Autore |
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Ignasi de Solà Morales (1942-2001) si è laureato in architettura e
filosofia a Barcellona, dove ha insegnato presso l’Universitat
Politecnica de Catalunya. È stato direttore del master internazionale “Metropolis” e insegnante in numerose altre università.
Tra le sue opere di critico e studioso si ricordano: “Eclecticismo
y vanguradia El caso de
la arquitectura moderna en catalunya
“ (1980), “architettura minimale a Barcellona” (1986) e “Decifrare
l’architettura” (2001). Membro fondatore della rivista ANY, come progettista
ha realizzato la ricostruzione del padiglione tedesco di Mies
(Barcellona 1984-86), il piano urbanistico Joliette-Saint
Charles (Marsiglia, 1993) e la ricostruzione e ampliamento del Gran Teatre Del Liceu (Barcellona,
1994-99). È stato direttore dell’Archivo Historico de Arquitectura, Diseno y Urbanismo del Colegio Oficial de Arquitectos de Cataluna y Baleares con il
quale svolge compiti ideologici e di propaganda tanto che ha avuto un ruolo
importante nel divulgare il movimento Catalano. |
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Ignasi De Sola Morales |
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Contenuto |
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“Archeologia del Moderno” si compone di una serie scritti,
appartenuti a Ignasi De Sola-Morales, che comprende i suoi saggi sulla
tradizione Beaux-Arts e sui grandi teorici e architetti della storia
dell’architettura quali Durand, Viollet Le Duc, Ruskin, Gaudì, e Riegl in un
percorso che cerca di risalire alle fonti e di esplorare le origini della
modernità. Disegnando in modo inedito le relazioni tra le opere e architetti
e ricostruendo i nessi con i grandi movimenti di pensiero, Sola Morales cerca
in realtà di dare un nuovo fondamento, anche se in via indiretta, agli
interrogativi sull’architettura attuale. |
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CAPITOLI |
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Mappe immaginarie |
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Ignasi De Sola Morales
appartiene in modo profondo alla cultura catalana, la quale ha avuto nei secoli
un alterno affermarsi. La storia della Catalogna è passata attraverso un
naturale nazionalismo che nel periodo storico più recente ha preso le forme
dell’opposizione al franchismo e della rivendicazione della lingua.
Quest’ultima è stata il primo input di un processo di auto-riconoscimento e
di costruzione di una coscienza che vede la lingua catalana molto radicata.
Ma se la lingua catalana è stata lingua di popolo, il “catalanismo” è stato
un fenomeno di classi proprietarie e dirigenti: classi benestanti e
dinamiche, ricche di capacità d’intrapresa. Da questo quadro deriva la figura
di Sola-Morales e certi tratti del suo carattere
che lo hanno portato ad avere un ruolo fondamentale nello scoprire e
divulgare quello che è stato chiamato il movimento catalano. Nella
“invenzione” del movimento catalano v’è stato intreccio tra la scuola locale
e gli studi internazionali che nei secoli hanno portato all’auto-definizione
e poi all’affermazione della cosìddetta scuola di
Barcellona. Il modo di Sola Morales di trattare d’architettura va ricondotto sia alle
sue qualità e al suo talento che alla sua duplice formazione di architetto e
filosofo essendosi laureato in Architettura nel 1966 e in Lettere e Filosofia
nel 1968. Nei suoi scritti comunque prevale la formazione filosofica che ne
ha determinato l’originalità: un punto di vista esterno all’architettura
capace di far si che l’architettura trovi radici e continuità nella cultura e
nel passato storico. Va
ricordato che per Ignasi l’architettura ha una
scarsa considerazione della realtà materiale del farsi e disfarsi del mondo
costruito. In architettura il confine tra critica e storia è stato e rimane
ancora assai incerto a causa di labilità di statuti disciplinari e per la
propensione dello storico a sconfinare nel giudizio. La critica dovrebbe
essere, almeno in un certo grado, “critica operativa”, andare al di là delle
polemiche. In questo ambito la posizione di Ignasi
risulta quasi erede dell’elaborazione di Manfredo Tafuri:
immaginare sia la critica, sia la storia come intrinsecamente lontane dal
concepire e dal fare. Lo storicismo supponeva un tempo una narrazione
continua, dove gli eventi si legavano a catena con una certa linearità tra i
fatti visti nel loro succedersi. Ignasi,
all’opposto, sostiene che la storia è
una costruzione che si svolge nel tempo, con un alto grado di precarietà,
ricca di incrinature e soggetta a crolli, non vi è in essa, a priori, nulla
di stabile e di obiettivo. Non a caso insiste sull’idea di “Topografia” come
se lo storico, individuando legami e percorsi, finisse per costruire mappe
immaginarie. La storia non procede in modo diverso da ogni altra scienza,
cioè fabbrica il proprio oggetto e lo mette in “opera” secondo visioni
preconcette. I testi di Ignasi rimangono
“irrisolti” da questo punto di vista in quanto chiusi nell’idea di una
critica intesa come “disegno topografico”. La storia si pone all’architetto
in modo diverso da come si pone al critico e allo storico. |
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Capitolo 1 – Origini
dell’eclettismo moderno. Le teorie dell’architettura in Francia, all’inizio
del XIX secolo |
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Nella storia
dell’architettura, le interpretazioni del significato dell’opera di
Jean-Nicolas-Louis Durand tendono ad attribuirgli
il ruolo di primo teorico del razionalismo di fronte alla nuova espansione di
architettura eclettica che stava prendendo piede nel XIX sec. in tutta
Europa. Nel metodo progettuale di Durand e negli
insegnamenti dell’Ecole des
Beaux-Arts troviamo rispettivamente le origini
degli atteggiamenti detti razionalista ed eclettico. Nonostante questo le
opere di Durand ebbero un importante influenza su
tutta l’architettura europea e dunque anche sulla cosiddetta architettura
eclettica. Ciò suggeriva quanto fosse difficile verificare la divisione tra
razionalisti ed ecclettici ma anche la compenetrazione delle due concezioni.
L’analisi proposta parte dalla convinzione che eclettismo e razionalismo non
rappresentino due situazioni storicamente opposte, ma due aspetti di uno
stesso processo storico che si sviluppa sul piano teorico e pratico
nell’architettura del primo Ottocento. Rispetto al passato il processo di
astrazione del metodo progettuale è solo una componente di un cambiamento di
valori che l’architettura ha della sua storia e la relazione tra l’idea
classica dell’arte come mimesis e la nozione
moderna dell’arte come processo di creazione. Nell’Ottocento, grazie alla
diffusione dei viaggi e dell’antiquariato, viene messo in discussione il
modello unico di riferimento portando all’attenzione dei conoscitori
dell’architettura del passato nuovi materiali e introducendo così il
pluralismo di altre culture: egiziana, cinese, indiana, araba e così via.
L’esperienza del pluralismo porta con sé la crisi dell’idea di mimesi, di
imitazione come concetto centrale dell’estetica classica, per aprirsi a
principi più dinamici che coinvolgono il cambiamento come idea centrale di
concepire la realtà architettonica. Nel 1788 Quatremere
de Quincy propone l’idea che si debbano riconoscere tre diverse
origini dell’architettura: la grotta, la capanna e la tenda corrispondenti a
tre stadi naturali dell’uomo primitivo: il cacciatore, l’argicoltore e il
pastore. Ammettendo questa pluralità rompe con la teoria del modello unico e
accetta la possibilità che si siano sviluppati processi paralleli. Da questo
momento si presume che l’architettura si sia sviluppata nelle diverse culture
in modi differenti per cui l’idea di mimesis viene sottoposta a cambiamenti:
essa è assunta in modo metaforico scartando il fatto che costituisca una
copia in quanto in architettura ciò che l’architetto imita è il carattere del
modello ideale. Esso apre così una nuova strada verso il pluralismo e
determina uno spostamento dei modelli formali inerenti all’imitazione a
contenuti determinati dalla percezione del soggetto. In questo modo la storia
plurale che ipotizza e il nuovo concetto di mimesi assumono un’apertura verso
un nuovo uso dell’invenzione. Da Quatremere a Durand si realizza il processo
di costruzione di un modello aperto di produzione dell’architettura: dove
essa non è più un manufatto creato copiando modelli del passato ma un
prodotto che nasce dall’analisi logica delle possibilità tecniche della
costruzione e delle necessità del programma che l’edificio deve accogliere.
Durand afferma che non vi è nessuna teoria che permetta di definire modelli,
ne tanto meno che permetta di conservare un metodo legato ai sistemi
architettonici. Al contrario esso dev’essere preposto dall’architetto durante
la progettazione dell’edificio, in modo che sia un processo creativo. Il
materiale storico non deve essere visto in termini di valori precostituiti ma
deve costituire un buon contributo a quel nuovo progetto che è la costruzione
di una nuova architettura. Da ciò si determina che la relazione tra Durand e
l’ecclettismo è del tutto diretta e immediata. Secondo Durand vi è quindi la
possibilità di un nuovo tipo di storia dell’architettura senza necessità di
ricondurla a modelli originari o ad altre spiegazioni che non siano il suo
ordine formale e il suo contenuto significativo. A questo proposito
Jaques-Guillaume Legrand fa un passo avanti rispetto a Durand: parla
dell’architettura come arte creativa, un processo di creazione che si serve
delle opere passate per disporne nel presente. Secondo lui la storia è uno
strumento di progetto a disposizione dell’architetto che deve affrontare
nuovi programmi e nuovi bisogni. Legrand analizzando le architetture del
passato vi scopriva caratteri e fisionomie diversi legati alla costruzione e
alla forma, ciò che invece Durand reclama è la possibilità di usare questi
linguaggi come strutture formali di base. Agli inizi del XIX secolo vi è
un'altra teoria riguardante il problema del pluralismo che è quella di Humbert de Superville che
imposta una grammatica delle forme significative considerate in astratto cioè
una grammatica di base del significato delle forme geometriche elementari,
ovvero una riduzione astratta del significato. Passando da Durand a
Superville la riduzione astratta del significato doveva trasformarsi in un
sistema di simboli assoluti dell’arte introducendo la possibilità di una
lettura soprastorica dei materiali della storia dell’architettura. La teoria
dell’arte moderna non è estranea a questa concezione, convertendo
l’astrazione del significato a una serie di segni schematizzati. |
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Capitolo 2 – Dalla
memoria all’astrazione: l’imitazione architettonica nella traduzione
Beaux-Arts |
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L’idea di
imitazione architettonica della tradizione Beaux-Arts
ha un ruolo decisivo nella cultura architettonica moderna. Il pensiero
teorico Beaux-Arts è un sistema di dottrine che
derivano dal classicismo e consiste in una sua elaborazione conclusiva. Nel
corso del XIX sec. vi è uno smantellamento progressivo della concezione
classica dell’imitazione, sostituendone il ruolo centrale con un sistema di
nozioni più astratte e soggettive. In Quatremere
l’imitazione architettonica è intesa come metafora di qualcosa di reale,
l’architettura non cerca di copiare o di riprodurre elementi di quei primi
archetipi (capanna, grotta e tenda) ma solo di alludervi. L’imitazione deriva
per lui dal gioco linguistico tra l’opera attuale e i modelli riconoscibili
nella storia come originari, essa costituisce il tentativo più deciso di
spiegare la molteplicità delle origini proponendo la referenzialità come
concetto chiave ed elaborando un sistema estetico in cui ogni riferimento
diviene possibile. Propone di imitare la natura e sviluppa l’idea che in
architettura l’imitazione può e deve essere ideale, legata alle leggi formali
che legano la natura e l’ordine cosmico. Si tratta di giustificare la
validità di alcune leggi di ordine, simmetria e proporzione che non nascono
per semplice replica di architetture precedenti, ma si pongono come leggi
generali delle forme di natura. Il gioco estetico non consiste quindi nel simulare
il modello tramite la replica, ma nel formulare un sistema di norme astratte
la cui osservanza garantisce l’efficacia estetica. Gli attacchi alla teoria
dell’imitazione non si fanno attendere: per Cousin
esiste una distinzione ovvia tra le arti che non hanno fondamento imitativo e
la arti in cui il riferimento a realtà precedenti è in certo modo obbligato
affermando che il fondamento del fatto estetico non è l’imitazione ma
l’espressione. Anche Hippolyte Taine insisterà
sulla condizione non imitativa dell’architettura e sul suo carattere
espressivo di contenuti spirituali, sostenendo che lo scopo dell’architettura
è essere capace di suggerire nelle opere il “carattere essenziale”,
rifacendosi alla vecchia teoria del carattere. È chiaro che è avvenuto un
passaggio teorico da una concezione in cui l’architettura si riferisce ad
altri oggetti storici o archetipi, a una concezione dell’opera in cui essa
suggerisce contenuti soggettivi. Durand sviluppa
una critica totale all’idea del piacere imitativo quale obiettivo
dell’architettura, indicando come assurdo il fondamento mimetico degli ordini
e della struttura del tempo classico e giungendo alla conclusione che altri
devono essere i principi della produzione moderna. Anche Leoncè
Reynaud espone una concezione antimimetica
dell’architettura, essa non ha referenti e non ha nulla da imitare in senso
concreto ma dev’essere del tutto astratta. Da un lato osserviamo che la
critica all’imitazione privilegia un idea di arte come produttrice di
oggetti, più che come semplice specchio e riflesso della realtà. Da un altro
lato l’arte è intesa come espressione di sentimenti e vicende soggettive, di
valori propri dello spirito che devono riflettersi nell’opera. Le norme
oggettive degli elementi architettonici, il rapporto tra tali elementi, i
valori e l’espressione del soggetto sono le coordinate su cui si organizza la
teoria accademica Beaux-Arts nel corso del XIX sec.
l’insegnamento Beaux-Arts era un insegnamento
sostanzialmente pratico basato sull’apprendistato diretto in atelier, in cui
solo in modo complementare si tenevano corsi di teoria che affrontavano
problemi teorici generali. In questo periodo le teorie della proporzione
diventano oggetto di ricerche importanti che coinvolgono le architetture del
passato e che tentano di mettere a punto metodi di controllo formale sempre
più generali e flessibili in grado di adattarsi a tradizioni architettoniche
diverse. Il loro carattere astratto porta ad una duplice conseguenza: da una
parte supponeva il mantenimento di criteri sempre più astratti e puramente
geometrici, dall’altra sottintendeva un modo speciale di considerare la
storia, di riordinarla. Il carattere astratto e generale delle nozioni di
ordine, simmetria e proporzione è quello che avrebbe reso possibile la rottura
con il concetto di tipo che Quatremere vedeva quale
oggetto più di imitazione che di copia. Contro questa concezione mimetica del
tipo si sarebbe introdotta una concezione più strettamente
geometrico-formale, estranea a ogni nozione di permanenza e di naturalità,
come lo era la nozione di parti (“partito”). Nella strategia del progetto di Beaux-Arts si realizza quindi un passaggio progressivo
dalla totalità architettonica implicita nella nozione di tipo, alla
versatilità e alla flessibilità del “partito”. La teoria del carattere era
una risposta al problema della particolarità, della distinzione e della
differenza. Tutti i riferimenti ad edifici concreti sono pieni di
considerazioni circa il carattere di questo o di quell’edificio, ma il lato
più interessante è costituito dalla volontà di schematizzazione astratta cui
si vuole arrivare definendo i caratteri. Basandoci sull’idea di Superville
che aveva tentato di tipizzare i caratteri psicologici secondo linee
essenziali, Blanc formula una teoria per la quale a
diverse strutture formali corrispondono necessariamente e naturalmente
determinati contenuti emotivi e psicologici. La teoria architettonica Beaux-Arts, che vuole cessare di essere una teoria
imitativa, non può praticare uno storicismo puro ma il rapporto con la storia
esiste ed è decisivo: la storia rappresenta il materiale grezzo su cui
lavorare induttivamente per formulare leggi e regole generali, si tratta di
una storiografia senza tempo, un uso dei materiali storici secondo i metodi
propri delle scienze naturali. Si arriva così a una concezione dell’idea di
imitazione della tradizione Beaux-Arts del tutto
paradossale: un’architettura modellata su materiali storici, ma priva del
senso storico di questi materiali; questa imitazione si sviluppa non come
memoria del passato ma su una base d’astrazione. È fuor di dubbio che il
movimento moderno abbia ereditato queste componenti di astrattezza
formale. |
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Capitolo 3 – Viollet
Le Duc e l’architettura moderna |
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Nel XIX sec. a fronte della corrente classicista,
accolta dagli architetti accademici, vediamo apparire un nuovo interesse per
il gotico. Il movimento romantico e nazionalista trova nel gotico un
riferimento sia al passato del paese sia a una certa idea della libertà
individuale e della creatività. In quegli anni l’aspetto più importante in
Francia è il lavoro storiografico e di restauro intrapreso da posizioni che
si pongono non solo come corpus teorico ma come una riflessione più ampia sul
problema dell’architettura nella società industriale. È in questo contesto
che si forma la figura di architetto di Eugene-Emmanuel- Viollet Le Duc che
malgrado il suo interesse per l’arte e l’architettura, si rifiuta di studiare
all’Ecole des Beaux-Arts in quanto “ l’Accademia rimane uno stampino per fare
architetti tutti uguali”. Alla ricerca di un alternativa al corpo dottrinale
dell’accademia, Viollet scrive tra il 1854/69 “ Dictionnarie raisonnè de
l’architetcture Française” proprio in forma di dizionario in modo da facilitarne
lo studio. Il Dictionnaire sviluppa un opera costante di riflessione: si
tratta di considerare tutti e ciascuno degli elementi che caratterizzano il
corpus gotico come un insieme, di definire i termini e le relazioni al di la
della loro concreta esistenza storica. La ragione ultima della sua opera
risiede nella convinzione che le forme del passato, intese razionalmente nei
loro principi, servono a comprendere anche i problemi presenti
dell’architettura. Il valore dello studio della storia sta nell’esercizio
razionale che esso suppone, nel lavoro di spiegazione delle ragioni della
forma come esercizio di critica architettonica. Viollet fa del gotico non
solo un caso di studio, ma un modello dei problemi che ha l’architettura del
suo tempo. L’opposizione di Viollet all’Accademia nasce nei suoi anni
giovanili e si protrae nel periodo della maturità, ma in una situazione in
cui la scelta dell’apprendimento e il rifiuto del formulario degli stili si
sono estesi ad ampi settori della cultura. Da questo dibattito nasce il
progetto di riforma dell’insegnamento delle belle arti del 1863, con il quale
si introducono cambiamenti importanti: è la cosiddetta vittoria dei
razionalisti rispetto all’Accademia. Negli “Entretiens” Viollet riprende
l’intenzione che già aveva manifestato nella sua opera precedente ovvero
quella di fare della storia qualcosa di più che sola eruduzione. La sua opera
passa dall’analisi dei quattro grandi cicli della storia dell’architettura
che precedono la situazione presente ( l’architettura greca, l’architettura
romana, il periodo gotico e il Rinascimento e Barocco che insieme individuano
il quarto periodo) all’architettura del tempo. La trattazione di Viollet
diventa così una diagnosi sull’architettura attuale. Viollet propone la necessità
di uno stile proprio e peculiare del XIX sec., i ragionamenti di esso partono
dalla critica dello stilismo eclettico, ma finiscono per denunciare
l’incapacità professionale a rispondere in modo adeguato alle nuove esigenze
e alla nuova scala dei problemi del tempo. Per arrivare alla formulazione di
principi che possono guidare la ricerca di un architettura che appartenga
alla sua epoca dovremmo segnalare che la ricerca di Viollet parte dai
presupposti costruttivi che sono all’origine di ogni processo di
edificazione. Le coordinate sulle quali imposta la nuova architettura sono il
programma funzionale e i procedimenti di costruzione, annunciando queste due
coordinate pensa in concreto ai nuovi programmi edilizi e ai nuovi materiali.
In sintesi i problemi centrali sono per Viollet lo studio delle
trasformazioni costruttive e le possibilità offerte da un nuovo materiale che
sembra dover trasformare radicalmente l’industria delle costruzioni, il ferro
come nuovo materiale e come nuova tecnologia è visto da Viollet come
contributo trasformatore capace di mettere in dubbio i procedimenti ereditati
dal classicismo. Ai linguaggi codificati dell’Accademia può solo opporre un
astratto credo razionalista nella sincerità tecnologica, nell’uso dei nuovi
materiali e nel primato della costruzione sulla figurazione. Le insufficienze
del movimento moderno deriverebbero da una sorta di contaminazione accademica
già presente nelle sue origini. La pratica secondo Banham si sarebbe
incaricata di tradire i presupposti e i manifesti antiaccademici con modi di
progettare ancora legati a quella tradizione. Nonostante questo in Banham c’è
il desiderio di radicalizzare la situazione a favore di una certa ortodossia
del Movimento Moderno nel quale si romperebbe definitivamente con l’accademismo.
Nell’opera di un discepolo di Viollet, Auguste Choisy, troviamo riflesse in
modo evidente l’interpretazione e la diffusione del suo pensiero riguardo
all’architettura del passato, senza trasformarle in semplici ipotesi
storiografiche. Secondo lui bisogna considerare l’architettura come l’arte
del costruire e determinare le ragioni interne della buona costruzione in
funzione dei materiali, dei mezzi e dei programmi che ogni cultura propone.
Nelle forme di rappresentazione ricorrenti nella storia di Choisy c’è un
evidente processo di astrazione che rimanda alla coerenza interna delle leggi
che reggono l’organizzazione dell’opera architettonica considerata in se come
tutt’uno. D’altra parte proprio il procedimento di rappresentazione
utilizzato insiste su questo tipo di valori: la visualizzazione contemporanea
di pianta, alzato e sezione mediante disegni assonometrici, privi di ogni
naturalismo tende a insistere sull’interrelazione tra le parti e su una
visione dell’edificio come “machine” come, cioè manufatto costruito da pezzi
o da elementi costruttivi che la semplicità dei tratti porta ad identificare.
Non esiste un razionalismo astratto ma esiste un razionalismo che si traduce
in una teoria degli stili che tende a tipizzare la storia per cicli autonomi.
Il ruolo di Viollet e dei suoi seguaci in difesa delle mansioni
professionali, delle associazione degli architetti, ecc. e insieme a
un’assimilazione della nuova tecnologia come semplice realtà di progresso,
possono illustrare come il senso civile si traduca nella pratica nell’idea
del ruolo professionale dell’architetto: legandosi all’idea della società
nella quale è nato. La battaglia contro l’Accademia è una battaglia che si
svolge all’interno del sistema e che non implica alternative globali. Si tratta
di riforme tecniche che non presuppongono un cambiamento preventivo ma si
pongono all’interno di quell’ordine senza distanze. La difficoltà enorme
della teoria di Viollet sta nella sua traduzione in termini figurativi, il
razionalismo di Viollet è solo un’ enunciazione di princicpi che sono
soltanto strumenti critici, capaci di chiarire o di correggere i linguaggi
esistenti, ma di per se insuffcienti a creare un nuovo linguaggio. |
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Capitolo 4 – Jhon
Ruskin, sette parole sull’architettura |
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L’opera di Ruskin “le sette lampade dell’architettura” è
rappresentata dal realismo di ciò che è immediatamente e direttamente
percepibile dall’occhio: i suoi modi dilatati di avvicinarsi alla pittura e
all’architettura, alla scienza e alla religone, ecc. hanno in comune una
forma di comprensione che parte da ciò che lo sguardo può da solo cogliere di
queste realtà. Osservazione e attività intellutuale sono due momenti di un
attività teorica, nella quale nulla può essere pensato senza contemplazione,
ma niente ha efficacia senza il concorso di un’intelligenza che assuma le
cose viste come materiale del discorso. La realtà appare come un libro aperto
in cui è necessario guardare: non è una concezione del soggetto, ne il frutto
di un determinato punto di vista. La sua è una costruzione teorica che
propone un aspetto caratteristico della cultura moderna: l’interconnessione
epistemologica dei saperi. L’arte non inventa ma compone la natura, e
guardandola la comprende e la spiega. L’obiettivo finale dell’arte non è la
bellezza ma la verità: una verità morale alla quale Ruskin associa la
felicità degli individui e della società. “Le sette lampade dell’architettura
“ è il tentativo di chiarire la pratica, l’esperienza personale e la
condizione estetica dell’architettura attraverso un sistema di parole chiave,
che serve anche a far luce complessivamente sulla funzione e sugli obiettivi
dell’architettura come fenomeno sociale. Nelle prime bozze del libro le
categorie annotate da Ruskin per organizzare i diversi capitoli si chiamavano
Spirits: spiriti nel senso delle diverse intenzioni e valori che
necessariamente devono essere resi visibili nella realtà dell’architettura.
Sono parole morali legate a certi modi di intendere il comportamento umano e
che possono essere trasferite alla realtà fisica e visibile
dell’architettura. Questi Spiriti, che finiranno per chiamarsi lampade
dell’architettura, sono guide luminose con cui indicare la retta strada per
raggiungere qualcosa che interessa l’uomo e la società. Esse definiscono un
punto di vista sicuramente nuovo e caratteristico della nostra cultura
moderna. Questo testo è la riflessione di un cittadino colto e sensibile,
conoscitore di certe architetture di fronte alla rivoluzione del 1848.
Ruskin, infatti, manifesta comprensione per gli eccessi rivoluzionari quando
espone le ragioni di frustrazione di una classe operaia sfruttata. La lampada
del Sacrificio è un appello al valore del lavoro in se stesso, il lavoro che
Ruskin considera umano: quello in cui l’individuo offre la propria
intelligenza e la propria abilità manuale. La seconda lampada proposta è
quella della Verità che si basa sulla contrapposizione tra il vero del lavoro
manuale - artigianale e la menzogna del lavoro meccanico - industriale. La
terza, quarta e quinta lampada ovvero Potere, Bellezza e Vita, riguardano le
teorie che circolavano in quel momento riguardo al valore dell’opera d’arte.
Il suo sforzo è quello di passare dall’aneddoto alle categorie cioè
dall’osservazione alla discussione teorica. La lampada della Bellezza non gli
serve solo per chiarire problemi importanti come quello dell’imitazione in
architettura ma è anche il luogo in cui sviluppare alcuni degli elementi più
positivi della sua teoria astratta dell’architettura. La lampada della Vita
diventa il punto culminante delle sue teorie proprio per l’importanza che la
conoscenza concreta dell’architettura del passato ha per Ruskin. Conferma la
supremazia del lavoro concreto sull’organizzazione a priori, il valore della
decisione esecutiva sui pregiudizi progettuali. Negli ultimi due capitoli si
lasciano da parte le analisi formali per entrare di nuovo nel merito di
questioni di tipo generale. La lampada della Memoria comprende di nuovo il
significato sociale dell’architettura nel tempo. Si ritorna a una critica
spietata ai restauratori e al vecchio sistema accademico dell’imitazione.
Solo l’Obbiendienza, ultima lampada del libro, può ricomporre un’architettura
perduta e una società smembrata. Il testo è segnato da un nuovo orizzonte di
interessi, al punto che la sua importanza non può essere considerata solo
quella di riassumere le discussioni sull’eredità e sul futuro del gotico, ma
soprattutto quella di introdurre un punto di vista nuovo dell’organizzazione
del discorso sull’architettura. Tutta l’ambiguiutà del progetto moderno si
ritrova con chiarezza nel suo libro: l’architettura moderna non è possibile
senza un cambiamento della società. L’opera di Ruskn pone le basi
dell’ideologia dell’avanguardia in un duplice senso: da un lato perché crea
un collegamento tra la qualità dell’architettura e la qualità delle relazioni
sociali, dall’altro perché suppone con una concettualizzazione di tipo morale
e volenteroso che la riforma morale dei soggetti sia la sola strada
percorribile per trovare una via d’uscita alla crisi dell’architettura,
accettato come dato incontrovertibile. Esso definisce un’altra delle nuove
coordinate che da questo momento caratterizzano il discorso moderno sull’arte
ovvero il primato della pratica sulla teoria, vedere è la sola attività
conoscitiva che si possa sviluppare di fronte ai fenomeni architettonici. |
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Capitolo 5 – Gaudì,
Berlage e Sullivan nella crisi della’architettura dell’età classica |
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Comparando Gaudì con altre figure di primo piano della
cultura occidentale quali Sullivan e Berlage, possiamo andare oltre al
circolo chiuso dell’ottica spagnola e cogliere un punto di vista universale.
Tutti e tre sono personaggi strettamente legati ad una città, alla sua
costruzione e al suo clima sociale e culturale: Barcellona per Gaudì,
Chiacago per Sullivan e Amsterdam per Berlage. È comune a tutti e tre lo
sviluppo dell’opera e la creazione parallela di un corpo teorico, con il
quale cercano di articolare un discorso generale sull’architettura e sul
significato nella crisi culturale del tempo. Ma l’opera teorica più
strutturata e accademica è quella di Berlage: a partire dal problema dello
stile esso sviluppa un’interpretazione particolare dell’evoluzione storica
delle forme e del ruolo della geometria nella definizione dell’arte e
dell’architettura. Nel loro pensiero architettonico troviamo caratteristiche
comuni: l’architettura è una realtà vincolata alle condizioni che regolano i
fenomeni naturali, e le sue trasformazioni seguono il modello di comportameno
proprio di quel mondo. Per tutti e tre la storia dell’architettura è una
storia che passa da condizioni semplici ed elementari a grandi progressi di
complessità e di rigorosa perfezione. Per Gaudì questo processo di perfezione
diventa evidente in un’idea del gotico, appresa da Viollet, e nella
possibilità di determinare nel presente un nuovo salto tecnologico che
perfezioni le relzioni tra forma, possibilità dei materiali e necessità
costruttive. Nel caso di Sullivan il suo evoluzionismo tende a caratterizzare
la visione della nuova architettura secondo la logica di un processo
indefinito e sempre in crescita. Per Berlage invece è l’evoluzionismo delle
teorie che lo guidano in un’idea di stile come sistema progressivo di
adattamento alle sollecitazioni sempre più complesse nell’ambito naturale. È
dunque un naturlismo evoluzionistico quello che i tre condividono. Nonostante
le differenti ideologie su cui poggiano il loro sistemi, essi condividono un
pensiero che è per tutti la chiave di un sistema di ragionamenti sul futuro
dell’architettura. Per Gaudì la giustificazione ultima di un’opera di
architettura si basa su ragioni teologiche: l’arte è tale perché si pone a
servizio dell’unione tra l’uomo e la divinità. Nel caso di Sullivan l’ideale
che finisce per giustificare tutto è la democrazia: l’architettura della
democrazia è impegnata in valori autentici ed è necessario lavorare in questa
direzione perché in essa si trova la possibilità di raggiungere la coerenza.
Per Berlage, infine, è l’ideologia socialista che opera un dispositivo
concettuale simile. E’ un elemento necessario attraverso il quale gli
obiettivi di trasformazione dell’architettura si integrano a un progetto
collettivo più ampio. Un parallelismo che invece riguarda gli attaggiamenti
estetici che caratterizzano la loro posizione è dato da un confronto fra le
varie eredità delle forme storiche, realizzano un’architettura che non è
estranea all’esperienza del passato ma che nemmeno si pone in stretta
continuità. In Gaudì gli anni della maturazione corrispondono a opere in cui
la rielaborazione dei linguaggi gotici, barocchi e mussulmani costituiscono
il modo di far affiorare una sua maniera personale di intendere le forme.
Anche nel caso di Sullivan è possibile vedere le cose allo stesso modo: la
riconsiderazione delle forme storiche attraverso libere interpretazioni. Per
Berlage inceve dobbiamo prendere in considerazione l’eclettismo puro dei
primi progetti, ma anche tutto ciò che nella sua fase più matura si pone come
avvicinamnto e apprendimento dell’architettura civile, soprattutto medievale.
La relazione con il passato esplode e si dilaga su differenti livelli
autonomi dando luogo a diversi tipi di elaborazione: la definizione della
struttura portante, la scelta tecnologica e l’affinamento del disegno hanno
costituito il filo conduttore che porta alla definizione dell’opera.
L’elaborazione strutturale di Gaudì parte dal tempio e dalla basilica e
consiste nel muovere una libera, creativa e acuta discussione sul modo
migliore di perfezionarli. Quelil di Sullivan partono invece dall’ingegneria
industriale dell’Ottocento, esso cerca di migliorarli e assumerli come
principali elementi di definizione di nuovi tipi architettonici. In Berlage
il discorso strutturale assume un ruolo di mediazione tra i vecchi repertori
eclettici e la ricerca di una nuova architettura, cioè una ricerca sul
sistema costruttivo misto. Questo interesse dominante per il problema
strutturale ha il suo rovescio nella preoccupazione per l’ornamento: essi
sono interessati sia alla sua rielaborazione che alla sua nuova collocazione.
Gli strumementi per elaborare il nuovo ornamento sono da un lato
l’espirazione geometrica e dall’altro l’integrazione di elementi
naturalistici stilizzati tipici del gusto di fine secolo. Inoltre Il colore
fa la sua comparsa come elemento d’uso corrente insieme al gioco delle luci e
delle ombre. L’ornamento per questi architetti di fine secolo costituisce un
terreno d’invenzione fondamentale per conferire carattere alla loro
architettura ed è uno dei tratti fondamentali che la rende originale. Il
gusto arcaicizzante che troviamo in loro è l’ultimo elemento comune da
leggere come affinità autentica con la cultura del tempo. Per cui la
relazione geometrica tra le forme stabilite da principi accademici e la loro
razionalità sono sostituite da relazioni formali più immediate. Fanno la loro
comparsa così in Gaudì l’esperienza di spazi elementari trattati come
concavità chiuse in sé stesse e il loro collegamento con gli spazi contigui,
anche in Sullivan troviamo la stessa dissoluzione dell’ordine distributivo
classico nell’organizzazione immediata degli spazi nei suoi edifici. In
Berlage osserviamo fenomeni di contrazione e di contiguità spaziale. In tutti
e tre retrocedere in qualcosa di percepito come arcaico e come originario
rappresenta la risposta alla crisi di civiltà di fine secolo. |
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Capitolo 6 – teoria e
storia dell’arte nell’opera di Alois Riegl |
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L’opera di Riegl prende forma nel particolare contesto della
Vienna di fine secolo, in una situazione di ambiguità, dato che in essa si
incrociano i resti della cultura dell’Ottocento in crisi e i tentativi di
delineare nuove ipotesi che segneranno il modo di operare del XX sec. In
questo periodo a Vienna fiorisce un rinnovamento delle arti applicate, la
cosiddetta Wiener Verkstatte in cui si assiste in particolare al rinnovamento
in campo musicale, psicologico con Freud e in campo dell’analisi logica con
Wittegenstein. La difficoltà cui Riegl si trova davanti è quella di dare una
spiegazione a questa situazione mutevole, al di là di una pura
giustificazione. Per spiegare la coerenza tra l’opera e i suoi prinicipi
estetici e quale sia la relazione tra l’oridine visivo di un’opera e i
concetti fondamentali che la rendono possibile, rendendo esplicito la
mutevolezza della produzione artistica per logiche interne, conia un termine:
Kunstwollen o volontà artistica. Il fatto di fondare un modo diverso di fare
arte avveniva per una scelta creativa e innovatrice di dire altre cose con
altri mezzi, diversi da quelli che erano tipici del classicismo. Questa idea
della libera scelta non è usata da
Riegl solo per i grandi periodi della storia, viene utilizzata anche come
volontà individuale di fronte alla volontà formativa dei contemporanei,
spostando il tema dal piano dei grandi cicli storici all’analisi minuziosa
dei cambiamenti individuali. Il problema che Kunstwollen lascia aperto è
quello del suo significato ultimo: Riegl vuol fare della storia dell’arte una
scienza dotata di autonomia, questo lo porta ad adottare un atteggiamento
positivo di fronte ai fatti. La spiegazione scientifica per essere tale ha
bisogno di riferirsi a modelli unici e la sua audacia è stata nel prendere a
modello la sua stessa ipotesi, così che il Kunstwollen è allo stesso tempo
un’ipotesi in senso letterale ma anche l’oggetto e la tesi della sua ricerca.
Il termine Kunstwollen rimanda la logica della produzione artistica a una
totalità che non può essere ignorata: è la totalità della cultura come fatto
complesso che ha relazioni reciproche con altri elementi. “Problemi di stile”
è la prima opera di Riegl, i suoi interessi sono legati a due aspetti: lo
studio della decorazione floreale dalla cultura egiziana alla cultura araba è
quasi un pretesto per mostrare come, sulla scorta di elementi decorativi
minimi ma essenziali, si possano ricostruire problemi fondamentali della
produzione artistica e in secondo luogo propone la prima formulazione di una
serie di concetti e di ipotesi innovative nel campo della storiografia
dell’arte. Riegl vuole dimostrare l’indipendenza delle forme decorative dalla
tecnica e dal materiale, per questo mostra la continuità, nel tempo e in
diverse culture, delle stesse forme. Cerca di dimostrare che l’autonomia
degli archetipi formali esiste in modo indipendente dalla sfera del concreto,
dato che una volta presa forma essi acquistano una vita propria che permette
loro di traslare nello spazio e nel tempo. Riegl partecipa alla ricerca dei
gesti essenziali che possono essere la base dei grandi sistemi stilistici e
non è casuale la scelta di partire dalla minore e più meccanica tra le forme
artistiche cioè il motivo della
decorazione floreale. L’idea di volontà di stile compare già in quest’opera
per giustificare l’indipendenza delle forme dal loro supporto materiale e per
indicare come sia una volontà di forma a spiegare le peripezie dell’ornamento
del mondo antico. Questa dislocazione dei valori estetici nel tempo
rappresenta senza ombra di dubbio il primo sforzo di diversificazione che
Riegl realizza e che diviene una costante della sua opera. |
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Capitolo 7 – Per un
museo moderno: da Riegl a Giedion |
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L’esperienza di Riegl come teorico e storico dell’arte viene
dal museo, dalla sua esperienza di conservatore del Museo di Arti Decorative
di Vienna, lavoro cui dedicò buona parte della vita, soprattutto negli anni
della maturazione del suo pensiero. Il suo pensiero nasce come sforzo per
reimpostare il senso e il significato dell’opera d’arte, nel momento in cui
lo schema illuminista del museo come collezione entra in crisi e dunque entra
in crisi la storia dell’arte come mera classificazione. Classificare era
stato il principio che aveva permesso di eleborare una prima forma di
tipizzazione delle opere d’arte. Per Riegl era necessario pensare il museo
- cioè pensare la storia e
l’interpretazione dell’arte - in altro modo ovvero rifiutare i compartimeni
stagni degli stili e delle diverse discipline artistiche. Era il momento di
ribaltare i criteri derivati dalle condizioni dell’oggetto, per capire
l’opera d’arte in base al soggetto che la produce e soprattutto al soggetto
che la contempla. Compare qui un’idea essenziale della modernità, quella
dell’arte come produzione, come cosa generata dalle facoltà del soggetto. Il
suo pensiero comporta due livelli diversi di elaborazione: da un lato lo
sviluppo della metodolgia del purovisibilismo, dall’altro lo sviluppo del
problema del significato cioè del contenuto conoscitivo che l’opera d’arte
implica. La storia dell’arte e dell’architettura è in realtà una
continuazione di esperienze visive, ha carattere storico e viene elavata a
protagonista nel divenire arte. Le categorie purovisibiliste della visione
sono il risultato di una volontà produttiva del soggetto in rapporto al mondo
oggettivo. Per Riegl l’arte è manifestazione sensibile, un’espressione la cui
definizione e la cui conoscenza sono prodotte dall’arte stessa. Nella sua
proposta di museo l’aspetto visivo non si esaurisce in se stesso, ma è
veicolo di significato, esso non è un museo separato dagli altri campi del
sapere ma è parte integrante della cultura. Il pensiero del museo di Giedion
è connesso a quello di Riegl, infatti anche in lui troviamo la capacità di giudicare
contemporaneamente fenomeni visivi di campi diversi. Inisieme a questo
aspetto visuale della cultura moderna troviamo una relazione profonda con
un’interpretazione globale del senso della storia. In Giedion si manifesta la
sua capacità non solo di spiegare il passato ma di comprendere il presente,
legando l’analisi storica ai problemi contemporanei. Le età dello spazio in
Giedion sono età consecutive e implicano a loro volta un’idea di cambiamento,
di progresso e di crescita dialettica rispetto alle fasi precedenti. Il museo
della modernità in questo modo si configura all’interno di una tradizione che
va da Riegl a Giedion, come un percorso continuo e in crescendo. |
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Capitolo 8 –
Classicismi nell’architettura moderna |
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Esiste una chiara discrepanza tra gli obiettivi
dichiarati dall’avanguardia, che supponeva il rifiuto della tradizione
accademica, e il panorama reale dell’architettura. Con la trasmissione dei
principi del Movimento Moderno si arriva solo a mettere in contrapposizione
tra loro una serie di episodi puntuali, utili a dimostrare che la linearità
di questa storia accademica non è poi tale e che ci sono elementi discordanti
che pretendono una lettura non linearmente evoluta ma labirintica. Si vuole
così proporre la definizione di tre situazioni differenti tra le architetture
che si possono etichettare come contaminate dal classicismo, per capire che
si tratta di modi diversi di concepire
lo stesso concetto. Non esiste quindi un dualismo stabile e soprastorico tra
il classicismo e l’architettura moderna ma molte situazioni differenti. Con
la definizione “architettura accademica” ci riferiamo a un sistema ben
definito di procedimenti, validi per sviluppare ogni tipo di edifico. Si è
soliti designare questo metodo con il termine Beaux-Arts proprio con la
relazione che aveva con la scuola parigina. Proprio grazie al carattere
genereale Beaux-Arts è stato possibile ottenere regole compositive capaci di
includere materiali e soluzioni provenienti da diverse tradizioni,
collocandole all’interno della nuova logica accademica. Innovazione e
permanenza, nuova figurazione e astrazione sono caratteristiche contrapposte
ma compatibili di questa tradizione. La prima situazione vede come soggetto
il processo di astrazione che permette a Tessenow di disporre di una nuova
versione economica del linguaggio, consolidato dalla tradizione accademica.
Per lui lo sforzo maggiore consiste nel rompere la dicotomia tra pubblico e
privato, sviluppando le possibilità che la logica del sistema di Beaux-arts
prevede nelle sue regole sintattiche e dando indipendenza ai significati che
si aggiungono come riferimenti addizionali al significato dell’edificio. In
ogni caso l’accademismo viene ripensato, ampliato e sintetizzato ma mai messo
globalmente in crisi. Nella seconda situazone troviamo la cultura moderna in
cui vi è una perdita dell’ordine, l’assenza di una visione del mondo
abbastanza coesa da potervi riferire ogni altra attività. Il crollo
dell’ordine antico che perde di contenuto o ricordato come impossiblie
armonia diviene per molti architetti un classicismo mitico in cui le
architetture trovano il loro riferimento. Il riferimento è in sostanza un
simbolo che richiama due idee: quella dell’ordine che non raffigura più la
situazione presente e quella del ricordo di una condizione evocata. Troviamo
un primo esempio di questa relazione con il classicismo di Loos e Hoffman che
rappresentano due facce della stessa medaglia. Per Loos il classicismo sembra
essere solo un riferimento convenzionale: ha tentato di costruire
un’architettura senza un’estetica normativa definita a priori. In Hoffman
invece il materiale classico continua a essere manipolato, stilizzato e
deformato con tale mancanza di rispetto da non sembrar diverso da quello di
Loos. Il classicismo appare quindi come un riferimento frammentario, non è
più un luogo nel quale sia possbile collocarsi e porsi all’interno, ma
qualcosa che è solo possibile ricordare da lontano. La figura di Le Corbusier
identifica al meglio una terza situazione, nel suo caso l’idea di classicismo
si manifesta come volontà di stabilire un ordine diverso e nuovo dell’arte e
dell’architettura dedotto dalla realtà delle cose attuali. Esso cerca di
definire dei punti di riferimento in una situazione conoscitiva aperta e
senza fondamenti intangibili. Il passato può essere riesaminato, ma con la
lucidità di chi sa che le cose non stanno più come prima e che dunque ogni
analogia o imitazione ha soltanto valore di esempio. Le Corbusier pone la sua
attenzione alle realtà biologiche di base, al fine di trovare ragioni che
attestino, nel comportamento dei corpi un ordine coerente con le loro
esigenze essenziali con le dimensioni che ne risultano. Infine volge la sua
attenzione alla conoscenza formale contemporanea che è matematica e
geometria, soltanto la chiarezza geometrica delle forme assicura la
razionalità e il pieno soddisfacimento delle aspirazioni estetiche dell’uomo.
Il classicismo di Le Corbusier è dunque uno sforzo di volontà per trovare un
altro e diverso ordine basato sui nuovi dati della società avanzata. |