BIBLIOTECA CONDIVISA   

> ELENCO LIBRI

 

 

Descrizione: Corboz_html_m3e89d4a2

autore

ANDRE' CORBOZ

titolo

ORDINE SPARSO.

SAGGI SULL'ARTE, IL METODO, LA CITTA' E IL TERRITORIO.

editore

URBANISTICA FRANCO ANGELI

luogo

MILANO

anno

1998

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

Titolo originale: Ordine sparso. Saggi sull'arte, il metodo, la città e il territorio.

 

 

Descrizione: Corboz_html_m3e89d4a2

Argomento e tematiche affrontate

Diviso in due parti, il libro contiene scritti che vanno dagli anni '70 agli anni '90, mostrando il percorso dello studioso. I materiali raccolti, articoli apparsi su riviste italiane e straniere, testi di conferenze e scritti inediti, sono stati suddivisi in quattro grandi famiglie, di cui solo due vengono affrontate nel libro: la prima “Il coraggio dell'ipotesi” (in cui l'autore definisce il proprio percorso di lavoro, rovesciando i postulati come strumento iniziale della ricerca), la seconda “Verso l'ipercittà” (la quale raccoglie parte delle riflessioni di Corboz sulla città contemporanea).

Nella prima parte, in cui sono raccolti scritti risalenti principalmente agli anni '70, l'analisi ruota attorno all'invenzione del tema della ricerca, alla necessità di eludere i dogmi culturali, ai problemi di interpretazione e di ritorno all'oggetto. Nella seconda parte, invece, l'autore osserva la città e il territorio da più punti di vista: come insieme di strati nei quali si depositano, si sovrappongono e si accumulano segni che costituiscono il palinsesto delle trasformazioni attuali e come categorie di analisi e di lettura. L'attenzione al mutamento e al riconoscimento del nuovo si accompagna ad un'attenta riflessione sul progetto moderno e sulla sua eredità.

  

Giudizio Complessivo: 7 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Lucrezia Varni Cacciola

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 2 a.a.2012/2013

  

 

Descrizione: Corboz_html_m66b1977c

Autore

André Corboz (1928-2012) nasce a Ginevra dove vive col padre nella prigione in cui lavorava. Nel 1948 Corboz termina il liceo, durante il quale si interessò alla letteratura francese; nel 1952 si laurea in giurisprudenza all'Università di Ginevra. Dopo la laurea Corboz diventa segretario dell'Università di Ginevra e negli stessi anni scrive molti articoli su giornali locali.

Il primo approccio all'architettura avviene tra il 1955 e il 1960, anni in cui Zevi e Gideon sono i principali riferimenti. Dal 1967 insegna storia dell'architettura all'Università di Montreal. Tra la metà degli anni '80 e gli anni '90, l'attenzione di Corboz si sposta verso i temi che connotano la riflessione urbanistica: la dimensione dispersa della città. A Zurigo, dal 1980 al 1993, sviluppa una serie di corsi che si propongono di definire una storia culturale dell'urbanistica. Tra le sue opere più importanti vi sono L'invention de Carouge 1772-1792 (pubblicato nel 1968) e Canaletto. Una Venezia immaginaria, la tesi di dottorato di Corboz.

Andrè Corboz

   

Contenuto

Il libro è stato suddiviso in due parti: nella prima l'autore ci spiega il suo percorso di formazione, mentre nella seconda compie un'analisi urbana della città moderna, in relazione con la città antica. Nella prima parte Corboz pone l'accento sul fatto che ai giorni nostri la ricerca, in tutti i campi, viene condotta attraverso un metodo imposto agli studiosi durante i loro studi di formazione. Questo metodo andrà quindi a limitare le ricerche effettuate, con la possibilità che non avvengano nuove scoperte. Per questo motivo l'autore predilige le ricerche che partono dal presupposto che i propri dati e postulati siano da mettere in discussione e, se necessario, cambiarli. Tuttavia l'autore si rende conto del fatto che se il ricercatore non possiede una conoscenza approfondita di una determinata materia, probabilmente non sorgerebbero le domande che permettono l'avvio della ricerca; quindi Corboz non suggerisce una soluzione al problema che pone, ma sostiene solamente che sia necessario un cambio di mentalità. A questo punto l'autore applica i suoi principi all'analisi della città moderna (nella seconda parte del libro). Secondo l'autore l'attuale città moderna europea non corrisponde più all'ideologia che gli europei hanno di essa: successivamente alla rivoluzione industriale la città si è trasformata completamente, espandendosi, perdendo la sua contrapposizione con la città-giardino e il suo caratteristico centro storico. Quest'ultimo in particolare ha perso la sua funzionalità di luogo centrale: prima di tutto non è più un luogo, la città vera e propria si è spostata nella periferia; non è più centrale perchè l'espansione della città ha portato alla decentralizzazione dei nuclei antichi e al trasferimento delle sue funzioni istituzionali in zone più adeguate ad accoglierle. Per questo motivo Corboz promuove un cambiamento della mentalità europea, in modo da trovare l'identità della nuova città che si sta formando, ora caotica e senza significato. Alla città europea viene contrapposta la città-megalopoli americana, dove il centro viene considerato solamente un luogo che ospita uffici e servizi, dove non è possibile fermarsi, ma prevale il dinamismo della società attuale. Invece i suburbs (le nostre periferie), sono zone dove ogni americano aspira ad avere la propria casa e che predilige. Quindi l'urgenza europea è quella di cambiare mentalità, cercando di aprirsi ad una nuova concezione della città, cercandone un nuovo significato che possa dare delle regole alle città in via di sviluppo.

 

CAPITOLI

Capitolo 1 – Parliamo di metodo (1970)

Oggi il metodo di approccio all'architettura presenta diversi problemi, tra cui l'uso dell'architettura come strumento di lettura della situazione storico-sociale, che ci impedisce di conoscere il vero fenomeno architettonico, rendendo quindi necessaria la ricerca di punti di riferimento e strumenti di interpretazione all'interno delle opere stesse. Tuttavia le opere che sono arrivate fino a noi sono solo una piccola parte di quella che fu la totalità delle costruzioni di un determinato periodo storico, di conseguenza lo studioso deve operare una scelta, approssimando ciò che in realtà fu l'architettura di una determinata popolazione in un determinato luogo e periodo. Questa approssimazione fa si che lo storico sia portato a creare legami e continuità tra elementi sparsi e sconosciuti. Nonostante ciò, i criteri di approccio alla storia dell'arte non sono cambiati, creando dei controsensi che l'autore divide in tre categorie: il controsenso darwinista, il controsenso meccanico e il controsenso estetico. Il primo consiste nell'applicare un modo di procedere analitico, che impedisce di identificare un edificio dagli elementi che lo differenziano dal resto, piuttosto che dalle somiglianze con altre opere. Il controsenso meccanico consiste nell'identificare architettura e costruzione (eredità del positivismo ingegneristico), per cui si andrebbero ad eliminare intere epoche in cui venivano subordinate esigenze estetiche e funzionali alla tecnica costruttiva. L'ultimo controsenso, estetico, consiste nel valutare l'architettura per mezzo di criteri formali e stilistici prestabiliti. Viene affrontato anche il problema della periodizzazione, cioè una necessità postuma di suddividere la storia dell'architettura in fasi, fondata solamente sull'analisi degli edifici superstiti. Conseguentemente nasce il problema dell'analisi, cioè un'ulteriore sintesi dovuta ad un nostro pregiudizio.

 

Capitolo 2 – Pittura militante e architettura rivoluzionaria. A proposito del tema del tunnel in Hubert Robert (1978)

L'autore in questo capitolo propone un paragone tra la pittura di Robert e l'architettura rivoluzionaria di Boullée. Per quanto riguarda Boullée viene posto l'accento sulla terza versione della sua Chiesa Metropolitana (1782) in cui possiamo leggere la struttura portante e il tipo di illuminazione. Analizzando il quadro “La scoperta del Laocontedi H. Robert, possiamo leggervi la stessa distribuzione spaziale, la stessa natura strutturale dell'architettura e gli stessi dettagli che si possono leggere nei disegni di Boullée. Sembra che il pittore per esprimere il tema sulla tela abbia bisogno di una costruzione architettonica coerente. Il tema più ricorrente in Robert è quello del tunnel: si tratta di un corridoio che si compone di settori voltati a botte, alternativamente bassi e alti; sistema che si ripete fino alla fine del corridoio. La fonte archeologica del tema la ritroviamo nella Crypta neapolitana (o “Grotta di Posillipo”, scavata nella metà del I secolo per facilitare le comunicazioni tra Napoli e Pozzuoli). Il progetto rivoluzionario emerge dalle alterazioni successive che Robert fa sugli elementi della grotta, ma conservandone la funzione di circolazione. Robert analizza la grotta nei suoi singoli elementi, variandone uno alla volta per verificarne l'effetto sull'insieme. Successivamente il pittore arriva ad un nuovo tema, che porterà un ulteriore avvicinamento della sua opera con quella di Boullèe. Robert decide di illuminare l'interno del suo tunnel, prevedendo una fonte di luce zenitale, creando delle rotture in cima alla volta. Questo nuovo tema trova l'apice nella tela “Galleria con lavandaie”, dove possiamo vedere un disegno pressochè identico della Biblioteca reale di Boullée. Robert fa proprio un altro elemento del dibattito architettonico: è un promotore del giardino anglo-cinese. Nelle sue tele iniziano a comparire delle foreste, che non sono primordiali, ma al contrario sono foreste governate. I parchi che dipinge Robert porteranno ad una nuova teoria della città, che la riduce ad un fenomeno naturale, tentando di occultare l'opposizione tra campagna e città. L'ultimo tema individuato da Robert è quello delle rovine (presenti e future). Il pittore vede le rovine come un elemento positivo, in quanto nel momento in cui la società si accorge che un edificio è in rovina si prepara a sostituirlo, ricostruendolo e rinnovandolo. Di conseguenza le rovine diventano elemento di innovazione della città, nonché elemento che da notorietà all'edificio. Per questo Robert dipingerà lo stesso Louvre, da lui progettato, in rovina, per conferirgli una sorta di immortalità. Quindi il pittore possiede una duplice funzione: presso gli architetti in qualità di mediatore tra i teorici e i costruttori, presso il pubblico in quanto lo ha preparato alla nuova architettura che stava nascendo.

Descrizione: 1011_html_m5e627e97

E. L. Boullée, progetto di Metropole (variante), 1782

 

Capitolo 3 – Per l'interpretazione (1985)

Il problema dell'interpretazione delle opere d'arte si manifesta nel momento in cui l'opera viene descritta tramite un discorso, che ha la funzione di sostituirla. Lo storico che la descrive si impone di operare un processo oggettivo, descrivendo solo ciò che osserva; tuttavia egli ignora che, nello scrivere il suo discorso, deve scegliere che tipo di lessico usare, cosa descrivere prima e cosa descrivere dopo, per cui si tratta già di una prima interpretazione dell'opera d'arte. Questa tesi è rafforzata dal fatto che quando un qualsiasi soggetto si appresta a descrivere un'opera d'arte, inconsciamente, applica dei filtri derivanti dai suoi strumenti di conoscenza. Perciò la raccolta dei “dati”, che andranno a formulare la descrizione dell'opera, viene prodotta attraverso il campo mentale del soggetto. Perciò, dato che l'osservazione non è la prima azione che opera il soggetto, esistono una infinità di interpretazioni, che variano da soggetto a soggetto. Oltre a ciò dobbiamo pensare che i “fatti” narrati dalle opere sono già dei risultati, in quanto sono stati analizzati da parte dell'artista, che a sua volta è vissuto in un epoca diversa dal nostro soggetto e che quindi possiede diversi strumenti di conoscenza. L'interpretazione corrisponde all'ipotesi, che procede per due vie: amplificazione e riduzione. La prima permette di sopperire all'unicità del fenomeno, mentre la seconda fa apparire le rimanenze, che diventano il punto di partenza per le future interpretazioni. Infine la storicità del soggetto si rivela determinante: essa ricolloca l'opera nell'attualità, quindi ogni volta che l'opera viene interpretata subisce nuove associazioni e gerarchie rispetto alle altre opere d'arte. Quindi il pittore possiede una duplice funzione: presso gli architetti in qualità di mediatore tra i teorici e i costruttori, presso il pubblico in quanto lo ha preparato alla nuova architettura nascente.

 

Capitolo 4 – Geologia estrapolata: da Viollet-le-Duc a Bruno Taut (1985)

Nel quarto capitolo si affronta il tema della geologia, applicando un confronto tra Viollet-le-Duc, Wenzel Hablik e Bruno Taut. Prima di tutto però è necessaria una definizione del paesaggio, così definito “un gruppo fortuito di frammenti topografici incastonati gli uni negli altri in virtù d'un punto di vista, gruppo cui l'osservatore conferisce la dignità d'un sistema formale”. Quindi, seguendo questa definizione, il paesaggio diventa una costruzione mentale, cioè un puro atto di cultura. Di conseguenza si sviluppano due concezioni opposte: la prima rappresentata dalle scienze che considerano la natura un oggetto, la seconda invece vede la natura come un soggetto che dialoga con l'uomo. Le Duc, negli ultimi anni di vita, si appassiona al Monte Bianco, interessandosi alla sua forma originaria. L'architetto riporta alla stessa scala della montagna un reticolo cristallino da egli stesso creato. Inoltre il processo naturale di formazione delle Alpi viene ridotto a fenomeno puramente estetico. Anche l'architetto Hablik ha una forte passione per il Monte bianco, ma diversamente da Le Duc. Hablik vede nelle montagne una sorta di materiale che può lavorare, individuando dei reticoli cristallini partendo dalla forma della montagna, che poi combina creando altre montagne. Quindi Le Duc vede la montagna come un oggetto, mentre Hablik percepisce la montagna come un soggetto. Taut propone una terza visione sull'argomento. Nella sua opera Die alpine Architektur, Taut inserisce degli archi sulle Alpi e delle altre forme che tagliano le montagne. Tuttavia Taut apporta una grande novità: prima si modifica un certo numero di vette, per poi passare alla modifica del pianeta, successivamente del sistema solare, ecc. Queste trasformazioni, potenzialmente infinite, hanno anche una valenza culturale, cioè rappresentano il positivismo di un nuovo mondo. Tuttavia questa nuova società porta in se una contraddizione, in quanto i luoghi in cui dovrebbe nascere non sono abitabili. Quindi Taut elimina il tema della morte, che tuttavia resta presente dato che egli propone una terra promessa impossibile da raggiungere.

 

Descrizione: 1011_html_31e87bdf

Eugène Emmanuel Viollet-le-Duc. Il massiccio del Monte Bianco ristabilito in uno stato completo

Capitolo 5 – Mathod-Maser (1988)

I ricercatori spesso utilizzano un metodo che gli viene insegnato (quindi preesistente), che li accompagna nel loro lavoro, ma che al contempo li imprigiona: il metodo non verrà mai adattato alle singole esigenze ma resta un dato di fatto. Un ulteriore problema che il metodo porta con se è il fatto che l'oggetto venga considerato statico, in quanto la capacità di conoscenza viene completamente delegata a operazioni analitiche. Al contempo un tipo di ricerca che definisce i problemi in modo conforme ai limiti dei ricercatori risulterà poco scientifica, sommaria e soggettiva. Nella ricerca tutto ha inizio da una domanda, che viene assimilata come un'ipotesi, dalla quale si potranno indurre le dimostrazioni. Tuttavia questo input iniziale da solo non porterà a nulla: indica solamente una meta, ma non la strada da seguire. Dunque l'ipotesi deriva dall'inconscio del ricercatore, il quale deve cercare di prendere il sopravvento sul proprio inconscio, lavorandoci assieme. Il soggetto si confronta con il reale, mentre l'oggetto riceve l'energia del soggetto, il quale gli conferisce un senso. Per dimostrare la sua tesi Corboz mette a confronto due opere di Palladio: Villa Maser e la facciata della Villa Mathod. Quest'ultima era una grande casa priva di ornamenti, che necessitava di una facciata principale, quindi Gaspar Burman (il neoproprietario) applica al lato nord dei frammenti architettonici coordinati, ispirandosi liberamente a Villa Barbaro di Maser. Il paragone viene citato dall'autore per spiegare che l'operazione di ricerca deve mettere in luce le disuguaglianze, non le analogie: le operazioni che hanno prodotto Villa Mathod e Villa Maser infatti sono diverse, quindi non si tratta di dimostrare un'identità.

Capitolo 6 – Tre apologhi sulla ricerca (inedito)

Il capitolo illustra un “nuovo” metodo, il quale parte dal presupposto che alcuni ricercatori si siano “osservati” durante il loro lavoro: si sono accorti che il “vecchio” metodo, piuttosto che essere una serie di regole da seguire, costituisce una serie di inibizioni. Il primo aspetto importante da affrontare è la relazione tra soggetto (il ricercatore) e l'oggetto (la scoperta), in quanto lo scienziato deve continuamente dialogare con esso, creando un sistema solidale. Ciò introduce una novità in contraddizione al positivismo, cioè la funzione attiva del ricercatore all'interno del processo; ne deriva la scomparsa dell'oggetto, che si trova già da qualche parte e deve solo essere trovato. L'oggetto della ricerca non si scopre, ma si costruisce mediante un processo in cui il reale e il ricercatore interagiscono, dove il reale è definito come tutto ciò che “sfugge” alle domande del ricercatore. Per descrivere il processo che porta il lavoro del ricercatore a buon fine Corboz introduce l'apologo dei tre principi di Serendipity (cioè trovare qualcosa mentre se ne cerca un'altra), processo che Diderot ritiene alla base di tutte le grandi scoperte, in quanto si apre a ciò che ostacola la ricerca. Il primo apologo ci dice che gli elementi dell'oggetto preesistono e sono indipendenti, sarà il ricercatore ad unirli e a dargli un senso scientifico. Il secondo apologo spiega come il ricercatore applica le relazioni tra gli elementi sparsi dell'oggetto: si tratta di un trasferimento, cioè dell'applicazione di una procedura rivelatasi efficace in un campo, in una situazione diversa. Seguendo questa strada l'oggetto costringe il ricercatore ad inoltrarsi in altre discipline, dove probabilmente non si è formato, dato che si procede per problemi, non per discipline. Il terzo apologo descrive il movimento che, da una parte porta i procedimenti dello scoprire alla coscienza e, dall'altra, produce l'interiorizzazione del processo cognitivo. La ricerca inoltre dovrà essere accompagnata da un diario, che riporti il resoconto del lavoro, soprattutto i tentativi fallimentari e i motivi del fallimento. Tornando alla catena osservazione-ipotesi-verifica, vediamo che la necessità di creare una struttura che porti ad un reale mediato, cambia il concetto di fatto, che diventa anch'esso costruito; quindi l'osservazione non è la prima operazione. Invece l'ipotesi è presente in tutte le fasi, ma comunque nasce dall'inconscio del ricercatore, sono le cosiddette “ipotesi preconcette”; alla fine della ricerca l'ipotesi consegna i risultati. Anche la verifica è presente in tutte le fasi del ciclo, tuttavia una scoperta scientifica è “vera” fino a quando non viene smentita da un'altra teoria, cioè una teoria non è assolutamente vera, ma è vera solo fino a quando viene infirmata da un'altra teoria.

  

Capitolo 7 – Il territorio come palinsesto (1983)

In Europa sta crescendo sempre di più la volontà di comprendere il “territorio”, ormai considerato un'entità fisica e mentale. Non esiste un'unica definizione di territorio, perchè ogni disciplina che lo studia propone punti di vista differenti. Il problema del territorio è nato in seguito allo sviluppo urbano (nel XIII secolo), che comportò la concezione antitetica di città-campagna, fino ad arrivare ad un divario economico e sociale tra la campagna-rifiuto e la città-corrotta. Il territorio è il risultato di diversi processi: per alcuni si modifica spontaneamente, per altri subisce interventi artificiali. Tuttavia possiamo osservare che le azioni, spontanee o no che siano, agenti sul territorio sono caratterizzate da una durata temporale che sfugge al controllo dell'uomo. D'altra parte, successivamente alla rivoluzione industriale, si è operato uno sfruttamento intensivo di ogni zona, mettendo sotto controllo l'intero territorio. Questo processo avveniva anche nell'antichità: nel momento in cui una popolazione si stabiliva in un determinato luogo, stabiliva col territorio un rapporto organizzativo, coesistendo con esso. Possiamo dedurne che il territorio è oggetto di costruzione, e, in quanto tale, costituisce anche un prodotto. Un'altra caratteristica del territorio è la sua forma. La sensibilità alla forma del paesaggio in quanto percezione è un tema che risale al Rinascimento, dove nasce il concetto di “bel paesaggio”. La necessità, per l'uomo, di conoscere la forma del territorio ha portato allo sviluppo di due concezioni diverse: la mappa ed il paesaggio naturale come oggetto di contemplazione. La prima si fonda sulle scienze e considera il territorio come un oggetto che l'uomo deve sfruttare, mentre la seconda considera la natura come un soggetto. Successivamente viene creato il belvedere, cioè un'istituzione estetica che permette di “paesagizzare” il mondo; in quanto tale, il belvedere è l'opposto di un luogo, perchè rende il territorio statico, uguale alla sua riproduzione e quindi invisibile. Ciò che è importante del paesaggio non è perciò la sua oggettività, ma il valore che gli viene attribuito da una determinata cultura. La natura è ciò che la cultura designa come tale. Ai nostri giorni invece, la tecnologia (compresa quella satellitare), ci da una visione complessiva del territorio, quindi l'attenzione degli storici si è spostata sulle tracce storiche che il territorio porta con se. Possiamo affermare che il territorio è come un palinsesto, che porta con se numerose tracce del passato, le quali vengono cancellate ogni volta che l'uomo deve costruire qualcosa di nuovo. Per questo motivo l'uomo dovrebbe “riciclare” lo spazio a sua disposizione, in quanto il territorio non è una risorsa infinita.

  

Capitolo 8 – La “non-città” rivisitata (1987)

Spesso gli europei criticano le città americane, usando criteri non pertinenti. Per ovviare all'errore bisogna abbandonare le proiezioni sulla città, come viene comunemente intesa in Europa; non esiste una “città americana”, esistono solo delle rappresentazioni convenzionali. Infatti il cittadino europeo ha perfettamente idea di che cosa sia una città, quindi non sente la necessità di analizzarne gli elementi costitutivi. Prima di tutto la città americana non possiede un centro, ma gli oppone un'ideale città-giardino; lo stesso discorso può essere fatto per le piazze, che sono semplicemente dei vuoti non frequentati, e per le zone pedonali che scarseggiano, a favore delle strade carrabili. Una seconda critica riguarda le periferie (anche se non è il termine esatto, non avendo un centro a cui riferirci), cioè quartieri che si ripetono e quindi non differenziati. Tuttavia non avendo un centro, questi quartieri vanno a costituire la città stessa. A loro volta questi quartieri sono divisi in sotto unità, in base ai redditi, dove nelle zone di contatto le due realtà si ignorano. Possiamo concluderne che l'urbanistica americana si basa sulla maglia ortogonale, creando delle particelle che, col tempo e l'incremento demografico, si sono riempite per necessità. Questo processo in Europa è avvenuto nel corso di secoli, mentre negli Stati Uniti nel giro di qualche anno; inoltre in America questo processo è avvenuto per sostituzione piuttosto che per aggiunta. Quindi le critiche della “città americana” derivano da una concezione della “città europea” che non ha più ragione di esistere: tranne che per pochi casi, le città europee non cambiano dalla rivoluzione industriale. Inoltre di queste città si mette in vista solo il centro, mentre il resto è sporco e non mantenuto. Lo stesso centro ha subito delle modifiche tragiche dovute al rinnovamento o al turismo. Per concludere, il paradosso consiste nel fatto che l'Europa si allinea su quegli stessi aspetti che dice di detestare dell'America.

  

Capitolo 9 – Una rete di irregolarità e frammenti. Genesi di una nuova articolazione urbana nel XVIII secolo (1989)

A metà del XVIII secolo gli urbanisti europei seguono principi che impongono una regolarità nella struttura urbana, applicando un rigido tracciato rettilineo di strade all'interno di un reticolo ortogonale. Prima a Roma e poi a Parigi gli studiosi si scontrarono con la realtà della città. A Roma abbiamo il piano urbanistico di Nolli (1748), dove per primo mette in evidenza, oltre le strade e le piazze, gli spazi pubblicamente accessibili, mentre le costruzioni vengono indicate con un tratteggio. Piranesi nell' Ichonographia Campi Martii (1762) sostiene il fatto che a Roma sia possibile solamente un'urbanistica fatta di ritocchi; nello stesso trattato Piranesi introduce il concetto di città policentrica. A Parigi invece sono due gli autori che si occupano di questi temi: l'abate Laugier, che considera l'urbanistica una disciplina formale, e l'architetto Patte, che considera la città un sistema di diverse funzioni. Lugier scrive che l'unico modo di migliorare Parigi è applicare una metafora, che egli individua nel bosco; tuttavia per rendere vivibile un bosco è necessario studiare un sistema di tracciati che lo attraversino e si incrocino tra di loro. Per lui questa nuova rete deve sovrapporsi a quella esistente, senza doversi occupare delle conseguenze per il traffico urbano. Patte procede in modo meno arbitrario: nelle Memories sur les objets les plus importants de l'architecture (1769) individua gli “oggetti” come elementi fondamentali dell'architettura. Tali oggetti vengono riconosciuti in nuove reti pianificate, distribuzione regolare dell'acqua potabile e canali di deflusso sotto la superficie dell'intera città. Queste due teorie confluiranno nella concezione del policentrismo come elemento di democrazia. L'ultimo esperimento culturale è quello realizzato a Bath dall'architetto Wood. L'architetto amplia la città esistente con la costruzione di nuovi edifici, senza porsi dei limiti, si tratta di un nuovo concetto della morfologia urbana, non più determinata da spazi ma da volumi. Quindi la città diventa una connessione di attività a favore dei cittadini, con un'impostazione policentrica.

Descrizione: Corboz_html_63f26ff7

Giovanni Battista Nolli. Mappa urbana di Roma, 1748

Descrizione: 1011_html_m173edea4

Giovanni Battista Piranesi, Ichonographia Campi Martii, 1762

  

Capitolo 10 – Verso la città territorio (1990)

Attualmente si tende a percepire il fenomeno urbano come una perdita d'identità della città, in quanto la sua concezione risale all'età preindustriale, dove vi era una netta distinzione tra città e campagna. I teorici del XIX secolo tendono a porre una soluzione di continuità tra città e campagna, cioè cercano una sintesi tra i vantaggi urbani e rurali. Il primo a fondare questa linea teorica fu Cerdà nel 1867; si tratta anche dello stesso principio alla base delle città-giardino di Howard (1898), secondo il quale il sistema delle città-giardino dovrebbe interessare la totalità del territorio. In questo periodo la città non è solo caotica, è ance pericolosa: Patte nel 1769 teorizza il fatto che l'ubicazione di attività particolari (come carceri e ospedali), delle fognature e l'illuminazione pubblica devono essere compito dell'architetto. Si tratta della nascita dell'igienismo, che indirizzerà la maggior parte delle riforme urbanistiche del secolo successivo. A questo punto la città diventa un sistema di funzioni e percorsi logici, capace di assicurare determinati servizi al cittadino. Tuttavia questa riforma della città, che riporta la sua superficie a tutto il territorio, in Europa viene difficilmente accettata, in quanto compromette la differenziazione del centro città rispetto alle altre zone urbane. Per risolvere il problema è necessario dedicare un gran numero di sforzi alla scoperta della nuova identità urbana, in modo da poter dare una forma alla megalopoli europea nascente.

  

Capitolo 11 – L'urbanistica del XX secolo: un bilancio (1992)

L'urbanistica del XX secolo è suddivisa in periodi indipendenti dall'attività politica, da un lato abbiamo l'urbanistica pratica e dall'altro l'urbanistica teorica. L'urbanistica del XX secolo è comunque dominata dal concetto di pianificazione, i cui criteri variano conseguentemente alla politica che li mette in opera. La pianificazione nasce come risposta ad una situazione insostenibile: dopo la rivoluzione industriale le città sono cresciute in modo anarchico. Sono state individuate quattro fasi che, in maniera diversa, hanno concretizzato il concetto di pianificazione territoriale. La prima fase è quella degli urbanisti che nel 1928 fondarono i CIAM, i quali proposero la sostituzione della città esistente con una città razionale. Di fronte alla città caotica che stanno vivendo, gli uomini del CIAM riducono i parametri determinanti di un'area edificata, secondo il criterio della funzione: ad ogni funzione corrisponde una porzione della città. La seconda fase può essere definita come quella dell'urbanistica contro la città. Gli urbanisti di questa fase reagiscono alla “strada corridoio”, con una decomposizione della città in ambienti aperti su tutti i lati. Nella terza fase si presentano gruppi eterogenei, ma che hanno diversi aspetti in comune: l'abbandono delle tesi del CIAM, la riabilitazione della dimensione storica (spesso il rinnovo di alcuni quartieri nel secondo dopoguerra ha causato la distruzione di resti storici), il ritorno ad una combinazione delle funzioni, l'arricchimento del concetto di funzione e della forma della città. Questa fase può essere riconosciuta nel postmodernismo, che predica un'urbanistica nella città. L'ultima fase è quella necessaria per uscire dalla staticità che caratterizza il presente. L'ideale europeo della città (con il relativo centro storico e il disprezzo di tutto ciò che vi è al di fuori) è ormai anacronistico. L'ultima fase deve comportare una trasformazione qualitativa: cioè l'urbanistica deve estendersi al territorio urbanizzato nella sua totalità. Quindi è necessario ripartire dalla formulazione di una nuova nozione di città, come luogo disomogeneo e della trasformazione ininterrotta, attraverso un cambiamento radicale della mentalità (non ancora in atto). Tuttavia questi nuovi termini dovranno poi essere applicati alla pianificazione e da essa essere utilizzati.

 

Capitolo 12 – Avete detto “spazio”? (1993)

Nei testi che descrivono la nuova morfologia urbana, viene spesso citato lo “spazio”, come se fosse la materia prima della nuova città. Tuttavia lo spazio non viene mai definito, ma assunto come un concetto scontato; i teorici e i progettisti considerano lo spazio un dato inconfutabile, per questo motivo non si preoccupano di definirlo e quindi non ne studiano la struttura. Newton ha definito nei sui Principia Mathematica un tipo di spazio assoluto e senza rapporti con l'esterno, per renderne l'idea, gli architetti ricorsero a superfici immense e regolari, in cui la grande dimensione doveva esprimere l'illimitato. La teoria newtoniana risale al 1687 e nonostante ciò, diversi secoli dopo, gli architetti cercano ancora di instaurare un rapporto con lo stesso tipo di spazio, che non è più assoluto. I movimenti che hanno provato a instaurare un rapporto con un nuovo tipo di spazio non sono riusciti ad abbandonare i propri postulati e a trovare un riferimento scientifico. Per risolvere il problema spaziale, è necessario che i progettisti mutino il rapporto con lo spazio, considerando anche il fatto che i problemi delle città crescenti non sono più quelli dei centri, ma quelli delle zone esterne, della periferia.

Capitolo 13 – L'ipercittà (1994)

La città tradizionale, considerata come conglomerato di edifici contigui e lineari, ha iniziato a trasformarsi nel XVIII secolo, per poi continuare la sua trasformazione nel corso dei secoli; tuttavia questi mutamenti non sono stati percepiti né dal grande pubblico, ne dagli urbanisti. Quindi risulta ovvio che la rappresentazione della città pre-industriale non può aiutare a risolvere i problemi della città moderna, tanto che perfino il termine stesso risulta inadeguato. L'autore propone così di usare il termine “ipercittà”, in analogia con l'ipertesto, per indicare l'estensione della città su tutto il territorio (quindi quella che era stata precedentemente chiamata città-territorio).Il nuovo termine avrebbe il vantaggio di far intuire la densità estesa e di non escludere i nuclei antichi, parti costituenti dell'ipercittà. Il fatto che la società tenda a rifiutare la città estesa sul territorio, vista come sinonimo di desolazione, è perchè la nostra nozione di città è determinata dall'armonia, che rende difficile percepire gli attuali fenomeni urbani. L'ipercittà è il risultato di numerose scelte, tutte razionali, ma in antitesi tra di loro. Infatti nel clima di liberalismo in cui viviamo, nessun intervento privato segue delle regole, rendendo imprevedibile il risultato su scala urbana. Infine, dato che la città tradizionale non esiste più, non ha più nemmeno senso continuare a utilizzare lo stesso linguaggio e gli stessi termini, da qui derivano nuove parole come “ipercittà”.

 

Capitolo 14 – Un caso limite: la griglia territoriale americana o la negazione dello spazio-substrato (inedito)

Il territorio degli Stati Uniti è stato organizzato, ancora prima della sua nascita, con una serie di ripetizione di quadrati di lato un miglio e orientamento uniforme. La grande operazione, che si fonda su un pensiero di pianificazione, ha due caratteristiche: il governo americano organizza un territorio che non conosce e che ancora non possiede; la divisione del territorio con la maglia quadrata sarà alla base della colonizzazione del continente. Di conseguenza lo spazio-progetto viene semplicemente sostituito con lo spazio-substrato, cioè la maglia supera ogni ostacolo restando sempre evidente, inoltre la sua ripetizione non comporta alcun mutamento di natura (ciò che conta è la continuità). L'ideologa che sta alla base del sistema è principalmente antiurbana ed egualitaria: viene proposto un sistema che distribuisca la popolazione in modo omogeneo su tutto il territorio e in cui la città è assente; la griglia è insomma una garanzia di giustizia e di stabilità. La realizzazione della griglia costituisce un doppio salto di qualità: prima di tutto generalizza ciò che altri avevano solo ipotizzato, inoltre il progetto viene realizzato su una scala tale da conferirgli un valore quasi epico.

GLOSSARIO

Controsenso – viene definito come la deprimente conseguenza del metodo di approccio, che provoca interpretazioni riduttive e mutilanti della storia dell'architettura (e dell'arte più in generale). Concetto precedentemente denunciato da G. Scott nel 1914.

Serendipity– parola usata per denominare il fatto di trovare qualcosa mentre se ne cerca un'altra. Termine coniato da Horace Walpole nel 1754.

Metodo – viene definito metodo ciò che il problema richiede al ricercatore per essere risolto.

Pianificazione – criteri di distribuzione ottimale delle persone, dei beni e dei servizi su un dato territorio.

Città tradizionale – centro costruito in maniera compatta, che si caratterizza per la contiguità dei suoi edifici e per l'unitarietà della conformazione.