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autore

DINA NENCINI

 

titolo

LA PIAZZA – SIGNIFICATI E RAGIONI NELL’ARCHITETTURA ITALIANA

 

editore

CHRISTIAN MARINOTTI EDIZIONI

 

luogo

MILANO

 

anno

2012

 

 

 

 

lingua

ITALIANO

 

 

 

 

 

 

Argomento e tematiche affrontate

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Le piazze italiane, che spesso sono viste come un incrocio tra nostalgiche immagini di un tempo perduto e siti irrealmente pittoreschi, rimangono comunque i luoghi in cui più si manifesta l'identità del nostro Paese. Capaci di resistere alla globalizzazione contemporanea, le città italiane racchiudono questi spazi preziosi che permangono immutabili al passare del tempo. Questo libro intende delineare i tratti salienti della piazza quale luogo significativo dell'architettura italiana, ma anche l'influenza che le piazze italiane hanno avuto nella cultura urbana europea. Il libro approfondisce i motivi che rendono la piazza ancora oggi il riferimento principale nel quale la città si riconosce. La piazza ci fa comprendere non solo lo spazio urbano in cui viviamo ma, soprattutto, quello in cui ognuno di noi aspira a vivere, il mondo cui desideriamo appartenere. Le piazze, nella loro inattualità, ci offrono così una indispensabile chiave di lettura utile a riformulare i nuovi paesaggi urbani, contro il degrado, la dispersione e l’irriconoscibilità dello spazio contemporaneo.

  

Giudizio Complessivo: 7 (scala 1-10)

Scheda compilata da: Ortensia Staccioli

Corso di Architettura e Composizione Architettonica 3 a.a.2015/2016

 

 

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Autore Dina Nencini

Dina Nencini, docente di progettazione architettonica presso la Facoltà di Architettura della Sapienza Università di Roma, conduce principalmente studi sull’architettura italiana con particolare attenzione agli sviluppi ed alle specificità della produzione teorica e progettuale del nostro Paese nel confronto con il panorama della cultura architettonica internazionale. Di recente ha pubblicato "IT. Osservatorio sulla ricerca in architettura in Italia under 50", (2012), ha curato il numero monografico della rivista “Vedute”, "Architettura e costruzione" (2009) e con Franco Purini ha curato il volume "Generazioni e progetti culturali" (2007). Oltre a svolgere attività professionale è redattrice per alcune testate nazionali di architettura.

Dina Nencini

 

Contenuto

Questo libro affronta il difficile tema dello spazio aperto italiano e dell’importanza che le piazze hanno nel nostro Paese. L’opera è un percorso logico sul delicato tema della piazza, vista come uno spazio costruito di paesaggio italiano. Il libro è costituito da dieci capitoli che possono essere divisi in tre blocchi distinti separati da due intermezzi: il primo blocco analizza gli elementi principali della piazza (durata, rituale, luce, misura e vuoto), il secondo la mette in relazione con la realtà urbana e il terzo descrive degli esempi significativi di piazze italiane. Quest’opera non è un libro chiuso e definitivo, ma si apre a un ventaglio di interpretazioni potenziali. In altre parole, questo saggio si pone come escursione teorica, pur essendo consapevole della difficoltà e della mutabilità dell’argomento.

 

CAPITOLI

Introduzione – La piazza trà continuità e discontinuità di Franco Purini

La piazza è una componente urbana quanto mai ambigua. Per i non architetti la piazza è il luogo che crea la socialità, l'incontro e lo scambio. In realtà, nella città moderna, è la strada l'elemento dinamico dalla vocazione sociale, mentre la piazza, a parte per qualche evento, rimane pressoché deserta. La piazza, quindi, non può essere ridotta al solo luogo di spazio della socialità urbana: essa è un intervallo del costruito, un vuoto senza il quale non sarebbe possibile leggere la città (come gli spazi tra le parole). Il tema dello spazio pubblico è stato il grande assente nelle riflessioni teoriche del movimento moderno; concentrati più sul problema delle abitazioni e della crescita esponenziale della popolazione, i modernisti consideravano la piazza un'espressione della città borghese, un luogo di convenzioni sociali ormai sorpassate. A parte qualche caso isolato di sperimentazione sulla piazza, bisognerà aspettare il concorso della piazza Stamira ad Ancona del 1978, per aprire la strada alla teorizzazione della piazza in Italia.

  

Capitolo I – All’inizio

Lo spazio, così come la forma, in sé non significa nulla. Esso è la ragione materiale dell'architettura, il cui fine ultimo è la costruzione. Questo saggio approfondisce l’influenza che l'architettura esercita sullo spazio aperto, ma anche, per contro, l’influenza che lo spazio aperto ha sull'architettura e sulla città.

  

Capitolo II- Il significato nascosto della piazza. La durata e il rituale

C’è una dimensione dello spazio aperto che non può essere trascurata nell’architettura e che può essere definita il ‘significato nascosto della piazza’. Il teorico George Hersey sostiene che questo significato nascosto è il dialogo che lo spazio aperto ha con il suo passato remoto, cioè con i cambiamenti che nel corso del tempo hanno cambiato l’idea della matrice originaria. Nell’architettura contemporanea le scelte architettoniche sono motivate da percezione e sensazione, nella rivoluzione industriale si dava più peso alla quantità che alla qualità, nel modernismo si cercava di mantenere un atteggiamento aperto ed elastico nei confronti dei problemi sociali, mentre invece nell’era digitale il ruolo dell’immagine è esasperato e si predispiongono spettacolarità e coinvolgimento emotivo. In questo complesso panorama l’architetto può agire con diverse modalità:

-        la prima è inclusiva ed è la cosiddetta archiscultura: si basa sull’istantaneità e non comprende la durata;

-        la seconda è esclusiva ed è indifferente al contemporaneo;

-        la terza declina il concetto di durata in modo diverso dalle precedenti ed è cosciente dell’inconciliabilità tra teoria e pratica del quotidiano.

Per Hersey la durata è la capacità dell’architettura di perdurare in un tempo che superi quello in cui essa è stata pensata e realizzata. Il rituale invece è un concetto più profondo ed è ciò che definisce la socialità dell’atto umano e collettivo nel tempo. L’abbandono dellla spettacolarità in favore del rituale è la condizione unica per il ritorno alla via dell’architettura; sottrarsi a tale riflessione significa non affrontare il nodo cruciale della contemporaneità.

 

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Capitolo III – Piazze. Luce e misura

La piazza italiana è per noi un luogo assolato, misurato e delimitato, in cui si concentrano misura e proporzione. In tal senso la piazza italiana esprime la propria inconciliabilità con la dimensione metropolitana, di cui rappresenta piuttiosto l’antitesi. L’immagine mentale che abbiamo della piazza è influenzata soprattutto dalla pittura (Giorgio De Chirico), ma anche dalla letteratura (l’ora meridiana descritta da Montale) che hanno contribuito a creare l’immagine di un ‘ambiente italiano’ in cui la piazza è l’elemento che delinea superfici nette e volumi precisi. Luce e ombra definiscono gli edifici e ne contrastano il peso. Questa idea illuminista si scontra con l’attegiamento più naturalista del Romanticismo. Il teorico Diderot sostiene che se fosse toccato a lui progettare la piazza Luigi XV a Parigi, ben si sarebbe guardato dall’abbattere la foresta. Per lui artificio e natura sono strettamente legati. Nella piazza-foresta di Diderot l’uomo partecipa allo spazio attraverso il gioco continuo di luce e oscurità, attraverso il continuo susseguirsi delle colonne (tronchi) e attraverso il chiaroscuro generato dalle chiome degli alberi. Questo è un atteggiamento romantico che si oppone alla visione geometrica e rigorosa della reale Place De La Concorde, simbolo della chiarezza della ragione. Anche Marc-Antoine Laugier in suo saggio paragona la città ad una foresta in cui convivono simultaneamente ordine ed eccentricità, simmetria e varietà. La foresta di Laugier però non è quella naturale e fantastica di Diderot, bensì rispecchia l’idea di ‘natura artificiata’ tipica dei parchi e dei giardini, come ad esempio la geometria del parco di Versailles in cui la natura si manifesta come chiarezza della ragione. Per Laugier la città-parco è un chiaro modello urbano. Anche per il teorico Boullèe lo spazio è la completa armonia tra ambiente e architettura, tra natura e ragione.

La prima trattazione sullo spazio aperto della città è opera di Camillo Sitte. Per lui il modello della piazza va dedotto a posteriori, schematizzando gli esempi esistenti e studiandone le caratteristiche. Secondo Sitte la piazza è uno spazio aperto cintato da edifici porticati, come il teatro della vita cittadina. Egli condanna l’urbanistica della sua epoca (Ottocento) perché esteticamente priva di quella artisticità tipica del passato e schiava di impeccabili allineamenti e blocchi cubici (salubrità e funzionalità). La teoria di Sitte si basa su due equivoci che ancora oggi sono latenti nella nostra cultura urbana:

-        il modello di una piazza pittoresca

-        l’idea di un legame tra qualità e artisticità.

Giuseppe Samonà (nel Novecento) definisce la piazza l’‘archivio di pietra’ della città, un luogo di trasformazione e di memoria, che proprio per questo può essere considerato un Tipo. Se ripercorriamo la storia notiamo che la piazza è il luogo che più connota la città: il foro romano, il borgo medievale (simbolo dell’accentramento del nucleo cittadino protetto da mura di cinta), le piazze rinascimentali e barocche (che sono viste come la scena del teatro cittadino), fino ad arrivare alle rappresentazioni pittoriche illuministe (che si basano su precise regole di prospettiva e proporzione). Quando la città murata si apre verso l’esterno finisce l’epoca della città antica compiuta e inizia l’era della città moderna complessa e antinaturale.

  

Capitolo IV – Vuoto

Il vuoto è uno spazio indistinto sia fisicamente che nel significato, è un concetto in attesa di definizione. Dal punto di vista urbano il vuoto può essere visto come residuo o come assenza:

-        Residuo: quando nasce dall’unione di parti incongrue e non progettate (come industrie o insediamenti abusivi) e dalla sparizione della distinzione tra città e campagna, tra urbano e infrastutturale;

-        Assenza: quando si formano grandi vuoti urbani non rapportati alla scala umana, che danno un senso di indefinitezza e incompiutezza.

Giuseppe Samonà per risolvere il problema del vuoto introduce il concetto di ‘ luogo-spazio’ ovvero l’insieme dei caratteri tipici di un luogo, sia fisici che percettivi. Questo metodo però si basa sull’immaginario collettivo della piazza in cui la società si identifica e si riconosce, ma non tiene conto della realtà periferica. Per questo motivo il concetto di piazza relativo al passato remoto va rimosso dal progetto contemporaneo. Oggi qualunque progetto di spazio aperto dev’essere consapevole di accogliere la vita dell’uomo senza poterla condizionare.

   

Capitolo V – Intermezzo. Etimologia dello spazio aperto

Ci sono due definizioni di spazio:

-        entità che si caratterizza per l’estensione e la non-delimitazione;

-        entità che nasce dal negativo della materia che lo delimita.

A queste due definizioni corrispondono due modalità operative di determinazione: dislocazione e recinto (entrambe legano l’esterno a ciò che lo delimita o agli elementi che lo definiscono). Platone definisce lo ‘spazio tra le cose’ come un’entità neutra, una condizione relazionale tra gli elementi dove non esiste distinzione tra inerno ed esterno. Nella fisica platonica la geometria governa le cose. Per i greci KENOS (vuoto), TOPOS (luogo, spazio occupato da un oggetto), DIASTEMA (intervallo che separa due oggetti) o CHOROS (spazio che circoscrive un oggetto) hanno significato solo in relazione al ‘quantuum discretum’ greco, cioè alle relazioni tra di essi e al ‘quantuum continuum’ romano, ovvero alla continuità indistinta tra gli oggetti. Queste due realtà si manifestano nei cosiddetti quadri prospettici che fanno comprendere l’effetto d’insieme che si vuole ottenere. Con il termine AGORA’ i greci definivano lo spazio attraverso l’azione del radunare, mentre i FORI romani rappresentano ciò che sta al di fuori della vita privata (mercato, politica, vita pubblica, affari…).

   

Capitolo VI – Morfologia: spazio aperto e città. Una nota sulla forma

Lo spazio aperto è l’ambito fisico e concettuale che mette in relazione l’architettura con la città. Non è solo un elemento di cui la città si compone, ma è soprattutto il luogo in cui si manifesta l’immagine della città.

Lo spazio aperto visto come luogo dello stare influenza la forma della piazza assimilandola ad una corte, ad un volume d’aria ben preciso attrezzato con sedute. Se, invece, lo spazio aperto è una parte della città vista come organismo unitario, in cui la qualità dello spazio urbano ha come fine il bene collettivo, allora la sua forma si fonda sui principi che governano la natura (disegno dei giardini, viali alberati, rotonde verdi…).

Nel caso in cui la città sia vista come una realtà in continua trasformazione, lo spazio aperto rappresenterebbe questa evoluzione temporale e sarebbe quindi indefinibile perché non può considerarsi concluso finchè non si arresti il suo sviluppo. In tutti e tre i casi precedenti la piazza deve confrontarsi con il tipo edilizio. La relazione tra i tipi e il tessuto urbano è imprecisata anche se il Medioevo è l’ epoca in cui questo rapporto è più evidente poiché il tipo è parte integrante della costruzione dello spazio aperto.

Gli esempi successivi ripercorrono il complesso rapporto tra morfologia urbana e spazi aperti.

 

Ready-made. L’area di progetto è la periferia est di Roma, attraversata da tre consolari Tiburtina-Casilina-Tuscolana e delimitata dal parco archeologico dell’Appia antica. La proposta di Carlo Aymonino, Costantino Dardi e Raffaele Panella, presentata alla XV Triennale di Milano nel 1973, è formata da 17 elementi architettonici che configurano il nuovo quartiere. Questi elementi, ovvero cinque unità abitative, due scuole, un centro culturale, due centri amministrativi, un museo, una biblioteca, uno stadio, due centri produttivi, un polo universitario e un centro religioso, costituiscono una vera e propria città nella città. Le architetture già progettate vengono inserite in questo straordinario montaggio urbano. Questa operazione, che potrebbe sembrare un mix surreale di elementi tra loro incongruenti, è in realtà una espressione del ‘fare architettura’; la qualità dei singoli elementi unita al filo logico del ‘montaggio’ da vita ad un vero e proprio manifesto dell’architettura. Questa tecnica dell’assemblaggio e del montaggio si oppone ‘all’informe accumulazione di insediamenti’ che caratterizza questa parte periferica di Roma. Come fece Adriano nella Villa di Tivoli in cui portò il suo mondo in un contesto periferico, così in questo progetto si vuole creare un nucleo con diversi elementi. ‘Una città di pezzi, più che un pezzo di essa’.

 

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Territorio.  Nel 1967 nasce lo Studio Asse con l’obiettivo di progettare il nuovo Asse Attrezzato di Roma. Le teorie dello Studio si basano su alcuni principi fondamentali: l’unità tra architettura e urbanistica e il controllo dell’orientamento direzionale. La funzione dell’Asse è quella di decentrare le funzioni terziarie spostandole dal centro storico già saturo e costruire una nuova immagine di città europea connessa con il proprio territorio. Notando la distribuzione della massa edilizia intorno al nucleo storico e la posizione di Roma verso il mare, lo Studio decise di forzare questa direzione (est-ovest) con un intervento su vasta scala che fosse al tempo stesso asse viario e nuovo centro urbano. L’Asse direzionale è un unico intervento organico formato da tanti nuclei funzionali ricchi di strutture collettive e ad uso terziario. Siccome il progetto è molto complesso sia per gli innumerevoli fattori in gioco, sia per la grande scala in cui lavora, lo Studio deve superare i limiti posti dal considerare l’Asse come semplice fascio viabilistico e la rigidità operativa del planivolumetrico. Il progetto finale ha comunque una forte vocazione modellistica e teorica.

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Piano. La città del Movimento Moderno non è confrontabile né con i grandi sventramenti ottocenteschi, né con l’idea romantica di città-giardino. Essa si basa sul concetto di ‘spazio’ visto come aria e luce, ingredienti fondamentali per una vita sana e una qualità del costruito. L’idea del piano, ovvero del tracciato regolatore, sta alla base delle loro teorie basate su precisi rapporti geometrico-matematici (Modulor, asse eliotermico…).   

 

Pittoresco. I progetti delle città-giardino di Raymond Unwin partono da un’unità insediativa minima formata da due elementi: la casa e il giardino. L’idea è quella di avvicinare lo spazio naturale a quello domestico, recuperando quel rapporto con la natura che la città ha con il tempo rimosso. Il giardino domestico non è né un giardino rinascimentale, né un giardino barocco, ma è più che altro una riscoperta del lotto gotico in cui la parte retrostante era adibita alla coltivazione e alla cura del verde.

 

Veduta. Giuseppe Samonà nel 1960 realizza un progetto per l’Isola del Tronchetto a Venezia in cui ribadisce il concetto di delimitazione tipico delle isole veneziane. L’intento è quello di recuperare l’idea di città come entità conclusa, in cui il sistema delle strade è definito attraverso la percezione delle vedute (Canaletto).

 

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Scena. Con il teatro del mondo di Aldo Rossi riscopriamo l’idea medioevale della città vista come palcoscenico della vita cittadina. Con il suo progetto egli ribadisce l’importanza che da alla partecipazione e alla spettacolarità. La città di Venezia è una grande scena fissa in cui i nuovi elementi architettonici si muovono dando vita a nuove interpretazioni.

 

Logo urbano e progetti di distruzione. Franco Purini nel 1991 realizza una serie di nove disegni chiamata ‘Progetti di distruzione’. Questi nove disegni rapresentano le nove azioni distruttive che lui applica alla forma urbana: distruzione della regola, distruzione della continuità, distruzione della centralità, distruzione dell’unicità, distruzione dell’omogeneità, distruzione del verde, distruzione del luogo, distruzione dell’archeologia e distruzione della separazione. L’atto della distruzione ha l’intento di recuperare il luogo originario della vicenda insediativa mettendone in luce le successive fasi costruttive. La distruzione interrompe il ciclo naturale di nascita e morte e si pone come rigenerazione anticipata e controllata della città.

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Capitolo VII - Attualità e attualizzazione dello spazio

Secondo le teorie del filosofo Bauman la relazione tra uomo e città va ricercata nel rapporto tra individuo e consumo. L’incertezza che caratterizza l’attualità deriva dalla trasformazione dell’individuo da produttore a consumatore di spazio. Baumann descrive due figure che simboleggiano due diverse epoche: il ‘giardiniere’ del Moderno e il ‘cacciatore’ del Post-modernismo; lo spazio curato e governato da regole opposto al caos della foresta odierna. Le metropoli globali come Shanghai o Dubai sono delle distopie, ovvero distorsioni dello spazio generate dalle regole del potere e della finanza. Può l’architettura trovare la sua identità in un mondo governato da logiche del consumo ed economia imperante?

Nei suoi studi Heidegger sostiene che alla base del costruire c’è il concetto di radura, ovvero il fare spazio e portare luce laddove non c’è. La radura è un luogo che ha confini: un recinto, un luogo di raduno, una piazza, ma anche una casa. Dopo Heidegger Focault è il teorico che ha condizionato le riflessioni sullo spazio; per lui lo spazio è collettivo ed è governato principalmente dalla relazione dentro-fuori . Se nel Medioevo lo spazio era uno spazio gerarchizzato di luoghi (luoghi sacri, luoghi profani, luoghi protetti, luoghi rurali), per Focault questa visione viene stroncata dalle teorie di Galileo che vedono lo spazio come infinito e infinitamente aperto. Per Focault, quindi, lo spazio va pensato come un luogo collettivo e a-gerarchico.

Se il discorso di Focault ci porta all’esterno, il teorico Bachelard ci parla di interno. Lui teorizza la cosiddetta ‘topofilia’ ovvero riscopre l’amore per lo spazio e il valore umano dell’ambiente domestico. Potremmo definirlo uno ‘spazio felice’ in cui si da importanza alla riflessione intima e interiore.

Capitolo VIII – Intermezzo. Modernità italiana: fissità e separazione

La città del Movimento Moderno non si è mai realizzata pienamente perché è sempre rimasta in sospeso tra realtà e ideazione. Benchè nei trattati modernisti si trovi spesso il termine ‘spazio’, esso non trova mai una piena definizione. La loro riflessione si basa più che altro su altri due termini ricorrenti: tradizione e forma. Il primo deriva dall’ambito storico-culturale dell’epoca, mentre il secondo ha le sue radici nella fissità iconica e nella chiarezza plastica delle teorie metafisiche. La pittura metafisica infatti è caratterizzata da isolamento dei corpi, immobiltà della scena, chiarezza ottica e distanza tra gli elementi. Questa separazione tra gli oggetti è alla base della relazione tra forma e spazio tanto teorizzata nell’architettura. La Metafisica, però, è anche stupore, sospensione, nitidezza enigmatica e suggestione. Tutte queste caratteristiche sono riconoscibili nella cultura italiana, definita da Bontempelli come ‘realismo magico’.

  

Capitolo IX – Piazze italiane

Negli spazi italiani troviamo una duplice identità: da una parte troviamo la disposizione metafisica pura e immobile, dall’altra troviamo la partecipazione umana reale e in continuo mutamento. Queste due caratteristiche si manifestano entrambe nelle piazze italiane con l’elemento del recinto. Il recinto è allo stesso tempo un elemento di definizione dell spazio, ma anche principio basato sulla proporzione umana. Nel Campo dei Miracoli di Pisa troviamo l’aspetto metafisico della separazione degli elementi e della fissità della scena. Nel lotto, delimitato dal muro che fa da sfondo a questa area sacra, troviamo gli elementi (chiesa, battistero, torre e cimitero) disposti secondo precisi rapporti di distanza. Nella piazza ducale di Vigevano, invece, vediamo più chiaramente il concetto di delimitazione. Il portico che circonda tutta la piazza è l’elemento terminale del costruito; la piazza è un ritaglio della massa continua dell’edificato.

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Capitolo X – Forme della separazione. Piazze razionali

Il sistema delle piazze di Ghibellina. Come nella piazza di Vigevano, anche nel sistema delle piazze di Ghibellina la delimitazione dello spazio è il nodo centrale del progetto. Il portico che delimita il costruito è il recinto che definisce questo sistema di piazze ed è interrotto solo in corrispondenza delle strade preesistenti. La piazza si pone come un luogo netto, preciso e misurato in antitesi alla trama indifferenziata degli edifici circostanti. Il progetto vuole essere un portatore di forma attraverso la luce e la misura. I sostegni del porticato danno ritmo alla piazza e non sono delle vere e proprie colonne, ma setti longitudinali a forma di T sui quali si proietta un’ombra più netta e definita.

 

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Piazza primo maggio a Udine. Nell’architettura di Gianugo Polesello e, in particolare nella sua piazza I Maggio a Udine, la griglia è l’elemento su cui si basa la definizione spaziale. La piazza è definita dagli elementi del bordo (il castello, l’edificato, il pronao delle Grazie) che definiscono il vuoto centrale. Il percorso del portico colonnato collega due elementi e fa da perimetro alla parte inferiore della piazza. Il vuoto è qui inteso come il ‘bianco planimetrico’ del progetto.

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Piazza ad Ancona. La piazza di Ancona teorizzata da Antonio Monestiroli si basa sulla ricostruzione del tracciato dell’isolato attraverso una piazza. In questo caso non è il recinto, bensì il tetto, a delimitare lo spazio urbano. La piazza coperta rievoca l’immagine della foresta nella città e le colonne sono un chiaro riferimento all’elemento porticato.

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Piazza a Segrate. La piazza del Municipio di Segrate è definita da un recinto, ovvero dal muro che la delimita e la identifica. La piazza termina , come un antico anfiteatro, con una scalinata al culmine della quale sono disposte tre colonne spezzate. Le stesse colonne si trovano parallele al muro, come a voler simboleggiare un portico interrotto. Il monumento ai partigiani si trova dalla parte opposta rispetto alle colonne ed è anche l’elemento principale della piazza.

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Conclusioni. In Italia ci sono moltissimi esempi di piazze e spazi aperti, ma pochi sono quelli significativi. Questo dipende soprattutto da alcuni equivoci che hanno influito negativamente sulla progettazione delle piazze:

-        il primo equivoco è il decoro, che porta a far coincidere la piazza con l’arredo urbano: la riflessione sullo spazio non è solamente una questione di pavimentazione, illuminazione o sedute;

-        il secondo equivoco è l’interpretare la piazza come elemento di rinascita sociale: bisogna essere coscienti del fatto che non possiamo più influire sulla vita della collettività, ma possiamo solamente fare da spettatori;

-        il terzo equivoco è l’istallazione di opere d’arte: la piazza non è un contenitore in cui è la scultura a dare un significato allo spazio;

-        il quarto equivoco è la rigenerazione urbana: gli interventi di trasformazione non devono essere semplicementi degli interventi ‘cosmetici’.

La piazza per la storia urbana è un’icona. Gli studi sulle piazze italiane ne hanno esasperato il carattere, tanto che esse sono state viste come entità a se stanti in grado di detenere il bene o il male della città. Queste classificazioni hanno portato ad una visione troppo pittoresca e ben lontana dalla realtà.

 

Il percoso che abbiamo intrapreso in questo libro per lo studio della piazza può essere diviso in tre parti: il sentiero dell’origine (la storia e la tradizione), la via della trattazione (i momenti salienti della storia delle piazze) e infine la strada della narrazione (analisi di esempi emblematici).

Il fine era quello di arrivare ad un ricongiungimento tra piazza e città, eliminando quel processo di straniamento dovuto agli studi su di essa. Tutto ciò sempre restando consapevoli della duplicità della nosra cultura urbana, che oscilla tra ideologia ed esistenza, senza che mai una predomini completamente sull’altra.